Le fondazioni di diritto privato non sono soggetti in house

31 Maggio 2018

Le fondazioni di diritto privato non rientrano tra i soggetti in house, in quanto enti caratterizzati dall'assenza di finalità di lucro. Infatti, la figura dell'affidamento in house trova la sua precipua collocazione nell'ambito di attività economiche svolte sul mercato con criteri imprenditoriali e secondo logiche concorrenziali.
Massima

Le fondazioni di diritto privato non rientrano tra i soggetti in house, in quanto enti caratterizzati dall'assenza di finalità di lucro. Infatti, la figura dell'affidamento in house trova la sua precipua collocazione nell'ambito di attività economiche svolte sul mercato con criteri imprenditoriali e secondo logiche concorrenziali.

Il caso

Le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi, in punto di giurisdizione, sulla possibile configurabilità della responsabilità per danno erariale in capo al presidente e altri amministratori della Fondazione Festival Pucciniano creata dal Comune di Viareggio con fondi propri.

In particolare, la vicenda riguarda il pregiudizio economico cagionato alla Fondazione dall'affidamento (senza il ricorso a forme di evidenza pubblica) a un architetto di un incarico professionale di consulenza finalizzato alla predisposizione della documentazione necessaria per accedere al contributo di una banca, al fine di realizzare il progetto denominato “Parco della Musica”.

La Cassazione conclude escludendo la sussistenza dei presupposti della responsabilità erariale, poiché la fondazione non può assumere i connotati di un soggetto in house, attesa la finalità di natura ideale che quest'ultima persegue.

Le questioni

La questione fondamentale su cui si incentra la sentenza in esame attiene la possibilità di qualificare una fondazione quale soggetto in house (tra l'altro, ammessa dalla Corte dei Conti nella decisione d'appello poi rimessa alle Sezioni unite).

In altre parole, ci si chiede se possano, con riferimento a una fondazione di diritto privato, riscontrarsi i requisiti strutturali dell'in house (c.d. requisiti Teckal), ovvero il patrimonio (integralmente) pubblico, il controllo analogo a quello esercitato dal soggetto pubblico nei confronti dei propri uffici/servizi e l'attività prevalente svolta nei confronti della PA controllante.

Più nel dettaglio, nel caso della Fondazione del Comune di Viareggio veniva contestato che il patrimonio fosse integralmente pubblico, “sostenendosi al contrario che esso si sarebbe alimentato (…) anche con contribuzioni private e che non sarebbe stato precluso statutariamente l'accesso a privati”. Proprio a questa astratta possibilità dei privati di partecipare alla gestione dell'ente verrebbe ancorata l'assenza del controllo analogo a quello che l'ente esercita “sui soggetti ad esso vincolati da un rapporto di servizio”. Infine, viene messa in dubbio anche l'esistenza “del requisito dell'attività esclusiva o comunque prevalente svolta in favore dei soggetti pubblici, in quanto sarebbe stata prevista, per statuto, un'attività in favore di terzi”.

Prima di procedere all'analisi della sussistenza di detti presupposti sintomatici dell'in house – che nell'elaborazione giurisprudenziale costante devono necessariamente coesistere (ex multis: Cass. Sez. Un., 22 dicembre 2016, n. 26643) – le Sezioni unite ripercorrono la strada seguita dalla giurisprudenza per definire i limiti e la giurisdizione contabile in tema di responsabilità per danni arrecati a soggetti pubblici da amministratori o pubblici funzionari nell'esercizio delle loro funzioni.

Le posizioni sposate dalla giurisprudenza (contabile e di legittimità) sono state nel corso degli ultimi due decenni sottoposte a un profondo ripensamento, sollecitato anche dall'utilizzo, a partire dagli anni novanta, di moduli organizzativi e operativi “paritetici”, i quali hanno messo in luce come l'amministrazione possa perseguire l'interesse pubblico anche mediante strumenti privatistici.

A partire dai primi anni 2000, infatti, nell'orientamento delle Sezioni unite si è registrato il superamento di un approccio di tipo soggettivo, in virtù del quale il discrimen tra la giurisdizione ordinaria e quella della Corte dei Conti veniva individuato in ragione della natura (pubblica o privata) del soggetto danneggiato. Si afferma, quindi, un orientamento c.d. sostanzialistico che individua, quale criterio di riparto di giurisdizione, la natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie utilizzate. A tal fine, deve vagliarsi in concreto l'esistenza di un rapporto di servizio tra l'agente e la PA, il quale comprende “anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto - né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica” (ex multis Cass. sez. un., 3 luglio 2009, n. 15599; Cass. sez. un., 31 gennaio 2008, n. 2289; Cass. sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4112; Cass. sez. un., 20 ottobre 2006, n. 22513; Cass. sez. un., 5 giugno 2000, n. 400; Cass. sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611).

Cosi, “l'evento verificatosi in danno dell'amministrazione” diviene “il dato essenziale dal quale scaturisce la giurisdizione contabile”; al contrario non viene (più) in rilievo “il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno” (ex multis Cass. sez. un., 25 maggio 2005, n. 10973; Cass. 20 giugno 2006, n. 14101; Cass. 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367).

Dopo aver ripercorso gli arresti giurisprudenziali che hanno condotto la Cassazione a circoscrivere nei termini appena richiamati la giurisdizione della Corte dei Conti, la pronuncia in esame si interroga circa la validità del predetto orientamento c.d. sostanzialistico (certamente applicabile agli enti pubblici economici in quanto a tutti gli effetti pubbliche amministrazioni) per la responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da enti pubblici.

Quest'ultime si caratterizzano per la compresenza dell'interesse pubblico e dell'interesse privato che ha reso l'intreccio tra norme civili e “speciali” più arduo da dipanare, anche con riguardo alla responsabilità degli organi di governance. Detti profili problematici conseguenti all'adozione del modello societario si sono riverberati sulle oscillanti posizioni assunte in tema di liability degli amministratori dalla giurisprudenza ordinaria e contabile.

Infatti, per lungo tempo la Corte dei Conti ha posto l'accento sulla necessità di combattere gli abusi e gli sprechi, insiti nell'utilizzo delle società pubbliche, attraverso la responsabilità erariale che permette di sanzionare il cattivo utilizzo delle risorse pubbliche. Al contempo, la giurisprudenza civile ha ritenuto che la responsabilità amministrativa sia inidonea e insufficiente negli ambiti operativi dell'amministrazione di matrice privatistica, dovendo applicare la normale disciplina del diritto societario.

Oggi l'orientamento delle Sezioni unite sembra aver raggiunto un punto fermo – ribadito anche nella pronuncia in commento – affermando che le società pubbliche “non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico”. Più nel dettaglio, la “giurisprudenza ha chiarito che la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall'identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente discende la responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi”, secondo le ordinarie regole del diritto societario di cui agli artt. 2392 e ss. c.c.

L'orientamento della Corte di legittimità ha, dunque, sancito la sostanziale omogeneità di regime giuridico in relazione alla responsabilità degli organi societari, indipendentemente dalla provenienza pubblica o privata del capitale.

In questo quadro, però, assume particolare rilevanza, ai fini del radicamento di una giurisdizione contabile, la distinzione tra danno al patrimonio sociale e danno afferente al patrimonio dell'ente partecipante.

Sulla scia del consolidato filone interpretativo anche le Sezioni unite in commento precisano che “non resta esclusa in via definitiva anche la proponibilità dell'azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità dell'amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall'ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall'azione illegittima”.

Al contrario, in presenza di danno arrecato “al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei Conti perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione e i cui originari conferimenti restano confusi e assorbiti nell'unico patrimonio sociale”.

Questa ricostruzione sposata dalla Cassazione permette, quindi, di realizzare un coordinamento sistematico tra l'area di operabilità dell'azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e le azioni di responsabilità contemplate dal codice civile, attese le loro profonde diversità. Si tratta, infatti, di azioni che sono basate su presupposti differenti, che perseguono finalità distinte, che sono fatte valere con modalità diverse e in processi, quello civile e quello contabile, che hanno gradi di sviluppo e articolazione diversi. Senza contare, poi, i profili problematici legati al rapporto tra l'azione di responsabilità amministrativa e quella sociale e, conseguentemente, all'individuazione del giudice munito di giurisdizione.

Anche la sentenza de qua mette in evidenza le difformità che intercorrono tra l'azione di responsabilità secondo il diritto societario e quella contabile. Infatti, “l'azione del procuratore contabile ha presupposti e caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l'una è obbligatoria, le altre discrezionali; l'una ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell'amministratore o dall'omesso controllo del vigilante), le altre hanno scopo ripristinatorio; l'una richiede il dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi”.

Ricostruito l'assetto giurisprudenziale relativo agli ambiti di operatività della responsabilità contabile per soggetti che esulano dalla nozione tradizionale di Pubblica Amministrazione, la Cassazione analizza la sussistenza dei requisiti strutturali dell'in house con riferimento alla fattispecie concreta della Fondazione Festival Pucciniano.

In particolare, la sentenza annotata chiarisce che la Fondazione de qua ha “natura di persona giuridica privata: essa ha, dunque, un proprio patrimonio, nel quale sono confluite anche risorse pubbliche, ma che ha assunto una propria autonomia (…) costituente la parte più cospicua dell'apporto finanziario necessario per la realizzazione del progetto” culturale denominato “Parco della Musica”.

Partendo da detti presupposti le Sezioni unite concludono che, nel caso in esame, il “pregiudizio economico che la Corte contabile imputa alla censurata gestione” si riverbera sul patrimonio della Fondazione e “non già su quello del Comune che originariamente l'aveva creata, così facendo venir meno il principale criterio di collegamento tra la responsabilità ed il soggetto su cui incideva il pregiudizio patrimoniale”.

Inoltre, la mera “partecipazione di delegati del Comune o della Provincia al consiglio di amministrazione ed al Collegio dei revisori della Fondazione” porta ad escludere anche la sussistenza del c.d. controllo analogo a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità che esulano dai normali poteri esercitabili dal socio privati ai sensi del codice civile.

In definitiva, la Corte conclude che “in termini più generali, che la figura dell'affidamento in house trova la sua precipua collocazione nell'ambito di attività economiche da svolgersi con criteri imprenditoriali e che proprio in tale ambito può trovare spazio l'analisi dell'ente al fine di rinvenire un agire sul mercato in termini concorrenziali con altri soggetti economici (…)”. Tuttavia, questa condizione viene, nel caso in analisi, totalmente esclusa, attesa la “statutaria previsione della Fondazione, di non perseguire fini di lucro”.

Osservazioni

La sentenza in esame offre notevoli spunti di riflessione circa la possibilità di costituire un soggetto in house mediante un negozio di fondazione.

In via astratta non sembrerebbero sussistere ragioni che impediscano detta operazione; tuttavia, nella pratica, la giurisprudenza prevalente sembra non essersi assestata su dette posizioni, escludendo la presenza di uno o più dei parametri dell'in house providing.

In particolare, nell'interpretazione costante (ormai pacifica) per poter parlare di soggetto in house è richiesta la presenza “del triplice presupposto della partecipazione totalitaria da parte di enti pubblici e divieto di cessione delle partecipazioni a privati, dello svolgimento di attività almeno prevalente in favore degli enti soci, nonché del controllo analogo a quello degli enti sui propri uffici con prevalenza sulle ordinarie forme civilistiche” (in questi esatti termini Cass. sez. un. 20 marzo 2018, n. 6929; in senso conforme ex multis Cass., sez. un. ord., 15 maggio 2017, n. 11983; Cass.,sez. un., 15 marzo 2017, n. 6820; Cass., sez. un., ord., 22 dicembre 2016, n. 26644; Cass., sez. un., ord., 1° dicembre 2016, n. 24591; Cass., sez. un., ord., 8 luglio 2016, n. 14040; Cass., sez. un., ord., 24 marzo 2015, n. 5848; Cass., sez. un., ord., 26 marzo 2014, n. 7177; Cass., sez. un., ord., 2 dicembre 2013, n. 26936).

In altre parole, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia consolidata a seguito della sentenza Teckal (Corte CE, 18 novembre 1999, causa C- 107/98) e di quella nazionale costituiscono elementi strutturali imprescindibili dell'in house il controllo analogo e l'attività prevalenteai quali si affianca una ulteriore condizione necessaria (ma non sufficiente), ovvero la detenzione da parte da parte di uno o più soggetti pubblici dell'intero capitale sociale. In questi casi, infatti, le Amministrazioni, per soddisfare i propri bisogni, non operano “rivolgendosi al mercato” (c.d. outsourcing) mediante l'indizione di una gara, ma procedono direttamente all'autoproduzione mediante organi in house ad hoc.

Dunque, può farsi ricorso all'affidamento diretto “al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una “derivazione”, o una longa manus, dell'ente stesso. Da qui, l'espressione in house che richiama, appunto, una gestione in qualche modo riconducibile allo stesso ente affidante o a sue articolazioni. Si è in presenza di un modello di organizzazione meramente interno, qualificabile in termini di delegazione interorganica” (Ad. Plenaria, 3 marzo 2008 n. 1).

Pertanto, il genere di società in analisi deve essere qualificata come una mera articolazione interna della P.A., al punto che l'affidamento diretto non permetterebbe di configurare un rapporto intersoggettivo, in quanto l'ente in house “non potrebbe ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma dovrebbe considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa” (Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283).

La richiamata giurisprudenza, negli anni più recenti, è stata positivizzata negli artt. 5 e 192 del Codice appalti (D.Lgs. n. 50/2016) e nelle Linee Guida Anac n. 7, attuative dell'art. 192 D.Lgs. n. 50/2016 in tema di iscrizione nell'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house; nonché negli artt. 4 e 16 del T.U. in materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs. n. 175/2016).

Dunque, per legittimare un affidamento diretto è necessario, in primo luogo, che l'ente pubblico eserciti sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello che può vantare sui propri uffici ovvero servizi. Il predetto requisito sussiste quando l'ente controllante è in grado di esercitare un'influenza determinante, sia sugli obiettivi che sulle scelte strategiche della persona giuridica controllata. L'art. 5 del Codice appalti - espressamente richiamato dall'art. 16 T.U. società partecipate - legittima, in linea con le direttive europee del 2014, anche il controllo indiretto, ovvero quello “esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore”.

In secondo luogo, è richiesto che oltre l'80% delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti a essa affidati dall'amministrazione controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione. Il parametro per determinare questa percentuale viene individuato nel fatturato totale medio o altra misura alternativa basata sull'attività, entrambi riferiti al triennio precedente l'aggiudicazione dell'appalto o della concessione.

Il limite percentuale dell'80% - mutuato dalle direttive appalti - lascia apprezzabili margini di operatività sul mercato all'organismo controllato e sembra aver comportato il definitivo superamento dell'orientamento interpretativo previgente, in virtù del quale il requisito dell'attività prevalente viene considerato soddisfatto solo quando l'organismo in house realizza in regime di quasi esclusività (qualitativa e quantitativa) le proprie attività nei confronti dell'Amministrazione controllante.

Infine, quale ultimo presupposto, si richiede che nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione che non comportano controllo o potere di veto, né un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

Anche sotto questo profilo sembra abbandonata l'idea sposata dalla prevalente giurisprudenza nazionale (Cons. Stato, Ad. Plenaria 3 marzo 2008, n. 1; Cons. Stato, sez. V, 11 settembre 2015, n. 4253; Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2260; Cons. Stato, sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5079; Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5781) ed europea (Corte CE, 11 gennaio 2005, C-26/03, Standt Halle; Corte CE, 13 ottobre 2005, causa C-458/03, Parking Brixen), ferma nel ritenere incompatibile il rapporto di delegazione organica che caratterizza l'in house in caso di partecipazione minoritaria di capitali privati alla compagine sociale.

Precisati, dunque, i tre requisiti strutturali che caratterizzano l'in house è necessario concentrare l'attenzione sulla compatibilità tra questo modello di società e la struttura della fondazione.

Come già accennato, la giurisprudenza prevalente sembra propensa a escludere detta possibilità partendo dal presupposto che l'elemento imprescindibile delle fondazioni è il carattere patrimoniale delle stesse; elemento che spinge a qualificare le fondazioni come esterne alla P.A., con conseguente presenza di due soggetti autonomi e distinti.

Più precisamente, a livello strutturale l'atto pubblico costitutivo di una fondazione ex art. 14 c.c. “consistente nella destinazione di beni per lo svolgimento in forma organizzata dello scopo statutario” (Cass. Civ. 4 luglio 2017, n. 16409).

Sulla scorta di ciò l'orientamento dominante ha escluso la ricorrenza dei tradizionali parametri dell'in house providing. In particolare, il parere della Corte dei Conti Lombardia, 30 luglio 2012, n. 350 - con riguardo a una fondazione di un Comune - ha chiarito che “la fondazione non può essere annoverata tra le formule a disposizione degli enti locali attraverso cui erogare servizi di natura pubblica (…) atteso che, anche in presenza di un patrimonio totalmente destinato dall'ente locale, esso risulterebbe vincolato ad uno scopo di pubblica utilità che farebbe acquisire al patrimonio medesimo una propria soggettività distinta da quella dell'ente locale conferente”.

In quella sede si è precisato che “nella struttura fondazionale, connotata come noto dal carattere prettamente patrimoniale, la circostanza della partecipazione pubblica totalitaria risulterebbe di difficile individuazione, in quanto a seguito dell'atto di fondazione il patrimonio del conferente assume soggettività distinta”.

Dunque, “la fondazione di diritto privato (…) non presenta i caratteri necessari per dare luogo al rapporto di delegazione interorganica denominato ‘controllo analogo' (…)”. Invero, “né il mero potere di nomina degli amministratori, né la devoluzione del patrimonio al comune fondatore possono integrare gli elementi sufficienti a far ritenere la fondazione una fattispecie assimilabile alle “in house” degli enti locali”.

Sulla stessa lunghezza d'onda anche il parere della Corte dei Conti Lombardia, 10 gennaio 2013, n. 25, il quale ribadisce nuovamente che la ricorrenza dei “presupposti del c.d. controllo analogo (cioè della c.d. produzione “in house” del servizio (…) in caso di affidamento del servizio ad una fondazione partecipata dal Comune, è stata posta in dubbio (…)”, atteso che non sembra possibile “che una fondazione possa essere configurata come soggetto “in house” (…)”.

A conclusioni conformi sembra giunta anche la giurisprudenza amministrativa (TAR Lombardia - Brescia, Sez. II, 9 giugno 2015, n. 831) ferma nel ricordare che “la fondazione, per la sua natura e per l'elemento patrimoniale che la caratterizza, male si concilia con il requisito del «controllo analogo» a quello esercitato sui propri organi/uffici (…)”. Proprio “la mancanza della possibilità di esercitare uno stringente controllo sulla fondazione renderebbe, dunque, quest'ultima inidonea alla gestione di qualsiasi servizio ove questo faccia riferimento all'esercizio di una funzione fondamentale o una funzione amministrativa”.

Ancora, con riguardo alle peculiari fondazioni lirico-sinfoniche il Consiglio di Stato – nella vicenda della Fondazione Petruzzelli di Bari – ha, concluso che “nel caso di specie, non sussiste la condizione dell'immediato controllo da parte dell'ente pubblico sull'attività e le decisioni della fondazione, tale da poter configurare quest'ultima quale organo dell'amministrazione e, quindi, da legittimare l'affidamento in house”. Infatti, lo statuto della fondazione “stabilisce espressamente che il presidente, e il consiglio d'amministrazione (…) non rispondono a coloro che li hanno designati, e non li rappresentano”. Inoltre, la normativa di settore e lo statuto prevedono “la partecipazione di soggetti privati, con conseguente inconfigurabilità, anche per tale via, dei presupposti per tale particolare modulo operativo” (Cons. Stato, sez VI, 25 novembre 2008, n. 5781).

Anche la pronuncia in commento esclude la sussistenza dei requisiti necessari per parlare di in house con riguardo alla Fondazione Festival Pucciniano. Più precisamente, la Cassazione - pur mutuando le conclusioni a cui era giunta la Procura generale della Corte dei Conti, escludendo che la partecipazione di delegati degli enti locali al consiglio di amministrazione e al Collegio dei revisori della Fondazione possa giustificare la sussistenza del requisito del controllo analogo - ritiene non necessario verificare la presenza dei tre indici sintomatici dell'in house providing. Invero, i giudici delle Sezioni unite concludono affermando che la fondazione è una persona giuridica privata, la quale gode di un proprio patrimonio, che resta autonomo anche se alimentato da risorse pubbliche.

Da questa ricostruzione discende, all'evidenza, che il pregiudizio economico che la Corte contabile ha imputato all'attività dell'architetto, destinatario dell'incarico professionale da rendere a favore della Fondazione del Comune di Viareggio, grava sul patrimonio di quest'ultima e non su quello del Comune che originariamente l'aveva creata, così facendo venir meno il filo di connessione tra la presunta responsabilità (erariale) e il soggetto su cui incide il pregiudizio patrimoniale.

Detta ricostruzione delle sezioni unite si pone in linea con i consolidati approdi della giurisprudenza di legittimità in tema di in house secondo cui “se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l'ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, è possibile giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell'ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discende che (…) il danno eventualmente inferto al patrimonio (…) è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all'ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l'attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità”. (Cass., Sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283).

Al contrario, quando manca una dualità di soggetti, e dunque, il pregiudizio inferto al patrimonio dell'ente in house (in questo caso della fondazione) è un danno sofferto da un soggetto privato che non giustifica la giurisdizione dei Conti.

Da ciò consegue, nel caso di specie, il difetto di giurisdizione del giudice contabile e la necessità di invocare il pregiudizio subìto dalla Fondazione del Comune di Viareggio esclusivamente davanti al giudice ordinario.

Conclusioni

La sentenza in esame aggiunge un ulteriore punto fermo nella definizione dell'ambito di applicabilità soggettiva della disciplina dell'in house partendo dal presupposto che è possibile “considerare ormai ben delineati nell'ordinamento i connotati qualificanti” (Cass., Sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283) di società di questo tipo, attesa anche la positivizzazione del fenomeno nel Codice Appalti e nelle Linee Guida Anac n. 7 e nel T.U. società partecipate.

In sostanza, il soggetto può essere definito in house solo quando agisce “come un vero e proprio organo dell'amministrazione ‘dal punto di vista sostantivo'” (ex multis Cons. Stato, sez VI, 16 marzo 2009, 1555; Cons. Stato, sez VI, 25 novembre 2008, n. 5781; Cons. Stato, sez II, parere 18 aprile 2007, n. 456).

Questa condizione non sembrerebbe poter sussistere con riferimento alle fondazioni che sono connotate da un carattere prettamente patrimoniale, dato che a seguito della costituzione il patrimonio assume soggettività distinta da quella dell'ente conferente.

In definitiva, alla luce dei richiamati arresti giurisprudenziali, le fondazioni di diritto privato non possono qualificarsi come longa manus degli enti pubblici che confluiscono risorse al patrimonio (destinato a uno specifico scopo) con, conseguente, presenza di due soggetti giuridici, di cui uno - la fondazione - esterno all'Amministrazione e autonomo rispetto quest'ultima.

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