Confronto dei testimoni

Alessandro Farolfi
05 Giugno 2018

L'art. 254 c.p.c. prevede che se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice istruttore, su istanza di parte o d'ufficio, può disporre che siano messi a confronto. Il confronto fra testimoni è peraltro una facoltà discrezionale alla quale il giudice ricorre raramente, risultando molto spesso preferibile una più complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio.
Inquadramento

Gli artt. 251 e ss. c.p.c. sono dedicati alle modalità di assunzione della prova testimoniale. Come già si è osservato (v. A. Farolfi, Prova testimoniale, in www.ilProcessoCivile.it), il nostro ordinamento guarda con un certo disfavore alla prova per testi, rispetto ad altre prove, in particolare quelle documentali, e tanto sia per la possibile influenzabilità o inattendibilità dei testimoni, quanto, più in generale, per la soggettività con cui i ricordi vengono memorizzati e filtrati da ciascun individuo, nonché per la loro labilità ed incertezza dovuta anche allo iato temporale con cui, quasi sempre, si svolge la prova nel processo rispetto all'epoca in cui si sono verificati i fatti narrati.

Viene in rilievo particolare, nel caso del confronto dei testimoni, quanto prevede l'art. 254 c.p.c., secondo cui «se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice istruttore, su istanza di parte o d'ufficio, può disporre che siano messi a confronto».

Il confronto fra testimoni è peraltro una facoltà discrezionale alla quale il giudice ricorre raramente, risultando molto spesso preferibile una più complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio che consenta di preferire alcune prove piuttosto che altre, rimarcare la maggiore attendibilità di alcune dichiarazioni rispetto ad altre divergenti. Ciò nonostante, il confronto rappresenta pur sempre una modalità di chiarimento di dichiarazioni fra loro insanabilmente discordanti, quando risulti indispensabile ricorrervi per verificare quale versione risulti più credibile e manchino altri indici concreti ed obiettivi per saggiare la maggiore o minore credibilità dei dichiaranti (ad esempio perché un certo fatto non ha riscontri documentali ed è oggetto di ricordi radicalmente difformi resi da due o più soggetti assunti come testimoni).

In evidenza: valutazione attendibilità dei testimoni

Il prudente apprezzamento del giudice riguarda anche la discrezionale valutazione di attendibilità dei testimoni. Discrezionalità non equivale, peraltro, ad arbitrio. Così, nel giudizio di credibilità e rilevanza della prova testimoniale, il giudice sarà chiamato ad applicare elementi di riscontro obiettivi ed elementi di natura soggettiva.

Fra i primi rientrano elementi interni allo stesso narrato, quali la coerenza delle dichiarazioni rese e la loro completezza (cd. riscontro intrinseco) ed elementi esterni, ma idonei a confermare o smentire l'oggetto della dichiarazione (es. un documento, un verbale della pubblica autorità intervenuta sui luoghi, ma anche le risultanze di una CTU da cui risultano elementi coerenti oppure incompatibili con la dichiarazione di un certo testimone).

Fra i secondi rientrano soprattutto elementi concernenti la soggettività del teste, quali la presenza o meno di rapporti di parentela con la parte e la sussistenza di un qualche interesse concreto, seppure indiretto, rispetto all'esito della lite. Peraltro, anche su questo profilo di carattere soggettivo non può affermarsi alcuna automatica esclusione o valutazione di inattendibilità, risultando in ogni caso necessaria un'attenta considerazione del caso concreto (così ad es. Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19215, ha ritenuto che «la valutazione sull'attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne "ex ante" la capacità a testimoniare». Nella specie, la Suprema Corte ha censurato la decisione della Corte di merito - confermativa di quella del giudice di prime cure - di non ammettere la dedotta prova testimoniale in ragione della ritenuta inattendibilità, "ab origine", degli indicati testimoni, perché residenti stabilmente nell'immobile oggetto del contratto di locazione "sub iudice"). Ed ancora, Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 25358, ha ritenuto che «in materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte cost. n. 248/1974, l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità».

Va considerato, altresì, che neppure l'assoluzione in sede penale dal reato di falsa testimonianza di un certo dichiarante ne comporta, in automatico, una qualche maggiore credibilità, spettando pur sempre al prudente apprezzamento del giudice civile motivare in ordine all'attendibilità o meno di quanto dichiarato dal testimone: «l'assoluzione del testimone dal reato di falsa testimonianza in sede penale non rende, di per sé, veritiera la dichiarazione resa dal medesimo in sede civile perché, indipendentemente dalla formula assolutoria, non viene meno in capo al giudice civile il potere-dovere di valutarne l'attendibilità, subendo deroghe il principio della libera valutazione delle prove nei soli casi stabiliti dalla legge» (Cass. civ., sez. VI, 30 settembre 2016, n. 19357 e, in precedenza, anche Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2012, n. 2157).

I poteri officiosi del giudice nel corso della prova testimoniale

Se in linea di principio e salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti (e salva altresì la rilevanza dei fatti non specificamente contestati), secondo quel principio dispositivo delle prove delineato in linea di principio dall'art. 115 c.p.c., va subito aggiunto che una volta che la prova sia stata ammessa (o il documento prodotto) spetta esclusivamente al giudice, secondo il suo prudente apprezzamento (cfr. art. 116 c.p.c.), valutarne la pertinenza ed il valore ai fini della decisione.

Ancor prima, e sempre in un'ottica volta a funzionalizzare l'elemento istruttorio rispetto alla decisione della causa, esiste un principio di acquisizione processuale per cui la prova è destinata a rilevare in senso per così dire obiettivo, al di là quindi, ed anche contro, le intenzioni soggettive della parte che l'ha richiesta o prodotta.

In materia testimoniale questo principio rileva, in primo luogo, in tema di rinuncia alla prova: la prova per testi, una volta ammessa, può infatti essere rinunciata dalla parte richiedente soltanto con il consenso della controparte e lo scrutinio positivo del giudice (cfr. art. 245, comma 2, c.p.c.); tale principio risulta affermato altresì per il caso di mancata intimazione del teste (cfr. art. 104, comma 2, disp. att. c.p.c.) potendo anche in tal caso, prima della dichiarazione di decadenza, la controparte dichiarare di aver comunque interesse all'audizione del testimone non intimato. In tal modo viene scongiurato il rischio che la parte (ad es. perché avvedutasi della possibile contrarietà alle proprie tesi delle dichiarazioni che il teste inizialmente indicato potrebbe rendere) raggiunga il medesimo risultato della rinuncia, semplicemente omettendo l'intimazione del testimone. A tale scopo è altresì previsto il potere di disporre l'accompagnamento coattivo del testimone non comparso e la possibile irrogazione di una sanzione pecuniaria (cfr. art. 255 c.p.c.).

Ma il nostro codice prevede, altresì, alcuni poteri officiosi volti a consentire al giudice – una volta che sia stata ammessa la prova richiesta dalle parti – di chiarire i contenuti delle dichiarazioni rese e, ancor prima, chiedere al testimone una serie di elementi e circostanze che potranno, poi, essere valorizzati dalle parti e dallo stesso giudice, in sede decisoria, nell'ambito di quel discrezionale giudizio valutativo dell'attendibilità del testimone di cui si è detto.

Vanno in questa sede ricordati:

  • le domande che il giudice, su richiesta di parte ma anche d'ufficio, può rivolgere al teste in sede di identificazione al fine di far emergere e verbalizzare i chiarimenti necessari in ordine alla presenza di rapporti con le parti o interessi nella lite;
  • le domande che il giudice, ancora una volta anche di propria iniziativa oltre che su richiesta di parte, può rivolgere al teste al fine di avere chiarimenti sulle dichiarazioni rese nel corso della prova (regola che si coordina strettamente con il divieto delle parti e del p.m. di rivolgere domande dirette al teste, per il condizionamento che da ciò potrebbe derivare);
  • la possibilità di disporre, anche d'ufficio, il confronto fra due o più testimoni;
  • la facoltà, anche in questo caso esercitabile pure d'ufficio, di disporre la chiamata a deporre di persone ai quali alcuni dei testi abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti;
  • la possibilità, ancora, di disporre che siano sentiti testimoni di cui inizialmente era stata ritenuta la superfluità o di cui si era consentita la rinuncia;
  • la facoltà di procedere al riesame di testi già sentiti per chiarire domande o sanare qualche irregolarità (si pensi, ad es. al caso in cui un teste ammesso sia a prova diretta che contraria sia stato esaminato per una qualche dimenticanza o errore materiale unicamente su alcuni capitoli e non rispetto ad altri pure ammessi).

In tutti questi casi i poteri officiosi previsti dal codice non derogano, in verità, al principio dispositivo, in quanto – ferma la richiesta di prova operata dalle parti – sono unicamente previsti per meglio assicurare la genuinità delle dichiarazioni rese dai testi, ovvero chiedere chiarimenti e quindi eliminare incertezze sul reale contenuto di dichiarazioni rese dai testimoni con riguardo a capitoli pur sempre formulati dalle parti, ovvero, ancora, mirano a completare una prova di cui sia emersa la rilevanza nel corso dell'esame dei testi inizialmente ammessi (ed anche qui, come nel caso limite del teste di riferimento, l'esigenza della chiamata anche d'ufficio del terzo avviene perché a tale soggetto il testimone ha fatto riferimento come fonte della propria conoscenza in ordine ai fatti su cui la parte aveva chiesto la prova stessa).

Questi poteri, per così dire di conformazione e garanzia della prova testimoniale così come richiesta ed ammessa, vanno perciò distinti - a rigore – dall'ipotesi prevista dall'art. 281-ter c.p.c., laddove è eccezionalmente concesso al giudice «di disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità».

In questo caso, infatti, la deroga al principio dispositivo diviene evidente, posto che il giudice può direttamente formulare la prova ed i capitoli su cui il teste che egli stesso ha ammesso sarà chiamato a deporre.

Proprio questa radicale eccezione ad un principio tanto fondamentale del processo civile impone una interpretazione restrittiva della norma, tale da renderne di fatto molto raro l'utilizzo e con la duplice avvertenza di:

a) non poter essere impiegata per sanare decadenze nelle quali le parti sono già incorse, pena uno stravolgimento delle regole processuali;

b) dover riguardare unicamente fatti che le parti abbiano espressamente menzionato e posto a base di domande ed eccezioni, non potendo la norma avere lo scopo di ricercare genericamente la “verità” storica o la presenza o meno di accadimenti ai quali le parti non hanno fatto riferimento.

In giurisprudenza si è così affermato che «il potere d'ufficio di cui all'art. 281-ter c.p.c. è attribuito al giudice monocratico unicamente in chiave sussidiaria, ossia per acquisire elementi ulteriori utili alla decisione rispetto a quelli già articolati e dedotti dalle parti. Esso non può in alcun caso essere esercitato per supplire a carente allegazione difensiva» (Trib. Piacenza, 27 giugno 2013, n. 4636). Va ricordato, sul punto, che la stessa Corte cost., 14 marzo 2003, n. 69, con una decisione interpretativa di rigetto, aveva rilevato che (nella specie) «la questione è priva di rilevanza per essere stata sollevata dopo che si erano maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti e pertanto in una situazione processuale in presenza della quale l'applicabilità dell'art. 281-ter c.p.c. vulnererebbe il principio della parità delle armi delle parti in causa, mai potendo il potere officioso del giudice risolversi in un mezzo per aggirare, in favore di una parte e in danno dell'altra, gli effetti del maturarsi delle preclusioni».

Il confronto dei testimoni

Pur così ricostruito l'ambito dei poteri officiosi in cui si muove la possibilità per il giudice di disporre il confronto dei testimoni, va subito aggiunto che la possibilità prevista dall'art. 254 c.p.c. costituisce una mera facoltà discrezionale, il cui utilizzo o mancato utilizzo non può prestare il fianco ad autonomi motivi di impugnazione in Cassazione.

Si è infatti rilevato che «il mancato esercizio - da parte del giudice del merito - della facoltà di disporre il confronto tra testimoni, attribuita dall'art. 254 c.p.c. non può essere censurato in sede di legittimità, stante il suo carattere prettamente discrezionale» (Cass. civ., sez. II, 15 marzo 2012, n. 4140, così anche Cass. civ., sez. III, 18 giugno 1985, n. 3665).

Se tale decisione è puramente discrezionale, si è - del pari - ritenuto che anche la rinuncia a disporre il confronto dei testi, in un primo momento richiesto dal giudice, sia esso stesso una facoltà puramente discrezionale, che si riconduce a quel principio del libero convincimento del giudice che potrebbe portare lo stesso a ripensare in ordine alla rilevanza del confronto, ad esempio perché si è avveduto della presenza di documenti che consentono, già di per sé, di dare maggior credito all'uno piuttosto che all'altro dichiarante: «l'art. 254 c.p.c. attribuisce al giudice di merito una mera facoltà discrezionale di procedere al confronto tra testimoni, conferendogli, perciò, anche il potere di recedere dal disposto confronto per motivi sopravvenuti di qualsiasi genere (compresa l'opportunità di non ritardare ulteriormente la decisione della causa), senza che l'esercizio di siffatto potere possa formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione» (Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2009, n. 14538).

Al contrario, si è ritenuto che il potere di disporre il confronto sussista unicamente riguardo ai testimoni, non essendo previsto dall'art. 254 c.p.c. né da altra disposizione processuale la possibilità, per il giudicante, di disporre il confronto fra diversi consulenti tecnici: «in tema di consulenza tecnica è consentito al giudice del merito, quando, con apprezzamento insindacabile, lo ritenga utile ai fini della decisione, disporre l'integrazione delle indagini espletate con altri accertamenti, o addirittura la rinnovazione delle stesse con la nomina di altri consulenti, ma non il confronto tra i consulenti utilizzati, non previsto neanche come mera facoltà discrezionale del giudice dalle norme di rito (diversamente da quanto dispone l'art. 254 c.p.c. per i testimoni)» (Cass. civ., 9 novembre 1982, n. 5888).

Casistica

CASISTICA

Discrezionalità

Il mancato esercizio - da parte del giudice del merito - della facoltà di disporre il confronto tra testimoni, attribuita dall'art. 254 c.p.c. non può essere censurato in sede di legittimità, stante il suo carattere prettamente discrezionale (Cass. civ., sez. II, 15 marzo 2012, n. 4140).

L'art. 254 c.p.c. attribuisce al giudice di merito una mera facoltà discrezionale di procedere al confronto tra testimoni, conferendogli, perciò, anche il potere di recedere dal disposto confronto per motivi sopravvenuti di qualsiasi genere (compresa l'opportunità di non ritardare ulteriormente la decisione della causa), senza che l'esercizio di siffatto potere possa formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione(Cass. civ., sez. III, 22 giugno 2009, n. 14538).

Assoluzione in sede penale e giudizio di attendibilità del teste

L'assoluzione del testimone dal reato di falsa testimonianza in sede penale non rende, di per sé, veritiera la dichiarazione resa dal medesimo in sede civile perché, indipendentemente dalla formula assolutoria, non viene meno in capo al giudice civile il potere-dovere di valutarne l'attendibilità, subendo deroghe il principio della libera valutazione delle prove nei soli casi stabiliti dalla legge (Cass. civ., sez. VI, 30 settembre 2016, n. 19357).

Prova testimoniale d'ufficio

Il potere d'ufficio di cui all'art. 281-ter c.p.c. è attribuito al giudice monocratico unicamente in chiave sussidiaria, ossia per acquisire elementi ulteriori utili alla decisione rispetto a quelli già articolati e dedotti dalle parti. Esso non può in alcun caso essere esercitato per supplire a carente allegazione difensiva (Trib. Piacenza, 27 giugno 2013, n. 4636).

Modalità di deduzione

Le formalità relative alla deduzione ed all'assunzione della prova testimoniale, in quanto stabilite non per ragioni di ordine pubblico ma per la tutela degli interessi delle parti, danno luogo, per il caso di loro violazione, a nullità relative e, dunque, non rilevabili d'ufficio dal giudice, dovendo essere eccepite nella prima udienza successiva a quella in cui si sono verificate, ove la parte interessata non era presente all'udienza. Nel caso in cui, invece, quest'ultima era presente all'assunzione della prova ed aveva assistito all'atto istruttorio senza formulare opposizione, la nullità, ove esistente, deve considerarsi sanata (Cass. civ., sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292).

Testimonianza de relato ex parte

La deposizione “de relato ex parte”, con cui si riferiscano circostanze sfavorevoli alla parte medesima, ha la natura giuridica di prova testimoniale di una confessione stragiudiziale fatta a un terzo, se supportata dal relativo elemento soggettivo, in quanto tale liberamente apprezzabile dal giudice ai sensi dell'art. 2735, comma 1, secondo periodo, c.c., nonché sufficiente a fondare, anche in via esclusiva, il convincimento del giudice ed a suffragare altra testimonianza "de relato" (Cass. civ., sez. lav., 19 gennaio 2017, n. 1320).

Valutazione della prova espletata

L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. civ., sez. I, 2 agosto 2016, n. 16056).

Riferimenti
  • Caterbi, Artt. 244 – 257 bis, in Comm. cod. proc. civ. a cura di P. Cendon, Milano, 2012;
  • Giabardo, Nota in tema di prova testimoniale civile, in Giur. it., 2013, 1863;
  • Giordano, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano, 2013;
  • Viola, La testimonianza nel processo civile, Milano, 2012.