Le domande nuove in appello nelle cause di risarcimento del danno
06 Giugno 2018
Premessa
Come noto, l'art. 345, comma 1, c.p.c. stabilisce che nel giudizio di appello non possono essere proposte domande nuove a pena di inammissibilità, rilevabile d'ufficio dal giudice. La norma è principalmente volta ad assicurare la garanzia del doppio grado di giurisdizione ed, in tale parte, se non sotto il profilo formale, la norma non è stata oggetto, nella storia del codice di procedura vigente, a significative modificazioni (v., tra i molti, Cappelletti, 1 ss.; Pizzorusso, 33; Ricci E.F., 59). Tornando alla problematica di carattere più generale afferente le domande nuove inammissibili in appello, ai fini della valutazione della novità delle stesse, la giurisprudenza di legittimità appare incline a fare riferimento in linea di principio ai criteri indicati in dottrina per l'identificazione della domanda giudiziale, ovvero i soggetti ed, in particolare, il petitum e la causa petendi. Infatti, si è al riguardo ritenuto che è domanda nuova, inammissibile in appello ai sensi del comma 1 dell'art. 345 c.p.c., quella che alteri anche uno soltanto dei presupposti della domanda, introducendo un petitum diverso o più ampio (v., tra le altre, Cass. civ., n. 514/2006) ovvero comporti un mutamento della causa petendiche, ove impostata su presupposti di fatto e su conseguenti situazioni giuridiche non prospettati in precedenza, comporti l'immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l'oggetto sostanziale dell'azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (cfr. Cass. civ., n. 18513/2007). Nell'ambito delle numerose questioni correlate al divieto di nuove domande in sede di gravame, peculiari sono quelle poste dalle domande di risarcimento del danno, nell'ambito di un sistema bipolare, nel quale l'interrogativo sotteso a queste brevi considerazioni si fonda sulla conseguente possibilità di configurare in termini unitari, da un lato, la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, a prescindere dalle singole voci di carattere “descrittivo” nella quale si articola, e, da un altro, quella di risarcimento dei danni patrimoniali. Le domande nuove eccezionalmente ammesse in sede di gravame
Lo stesso art. 345 c.p.c. precisa che in appello possono domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti successivamente alla pronuncia della stessa. Il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce debito di valore e, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, quale era all'epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. A tal riguardo, non appare superfluo ricordare che, rispetto alla richiamata deroga al generale principio del divieto della proposizione di domande nuove in appello, la giurisprudenza di legittimità ha tradizionalmente operato una distinzione in materia di risarcimento dei danni proprio tra debiti di valore e debiti di valuta, ritenendo che soltanto nel primo caso la rivalutazione, avendo la funzione di reintegrazione patrimoniale, non costituisce una domanda nuova, ma realizza il petitum originario e lo sviluppo logico della domanda proposta, di talché può essere liquidata d'ufficio anche in appello (cfr., tra le altre, Cass. civ., n. 5567/2009; Cass. civ., n. 4010/2006; Cass. civ., n. 2796/2000). Inoltre, poiché la liquidazione va effettuata in valori monetari attuali, per cui il riconoscimento degli interessi legali sulle somme rivalutate non richiede una espressa domanda dell'interessato, che resta inclusa in quella di integrale risarcimento inizialmente proposta, di talché la richiesta avanzata per la prima volta in appello non viola l'art. 345 c.p.c., atteso che nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi cd. compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell'impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell'illecito, e che l'esplicita richiesta deve intendersi esclusivamente riferita al valore monetario attuale ed all'indennizzo del lucro cessante per la ritardata percezione dell'equivalente in denaro del danno patito (Cass. civ., n. 25615/2015).
Sempre in tema di limitazioni rispetto al generale divieto di proposizione di domande nuove in appello, si ritiene, sotto un distinto profilo, che la domanda di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza è ammissibile in grado d'appello solo qualora nel giudizio di primo grado sia stata proposta un'azione di danni e gli ulteriori danni richiesti in appello trovino la loro fonte nella stessa causa e siano della stessa natura di quelli già accertati in primo grado, mentre per converso la nuova pretesa, se priva di tali essenziali e restrittivi requisiti, implicando nuove indagini in ordine alle ragioni poste a base della domanda iniziale ed ampliamento del relativo petitum, costituisce inammissibile domanda nuova (Cass. civ., n. 5067/2010). Tuttavia, la vittima di lesioni personali può domandare nel giudizio di appello, senza violare il divieto di ius novorum previsto dall'art. 345 c.p.c., sia il risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni, ma manifestatisi dopo la sentenza di primo grado, ad esempio i danni correlati all'aggravamento della patologia derivante dalle lesioni subite (Cass. civ., n. 8292/2008), sia il risarcimento dei danni la cui esistenza, pur precedente alla sentenza impugnata, non poteva essere rilevata con l'uso dell'ordinaria diligenza.
Domande nuove vietate ed ammesse in appello nelle controversie di risarcimento del danno: casistica
Si è già evidenziato, in termini generali, che una domanda è nuova e rientra nel divieto di cui al comma 1 dell'art. 345 c.p.c. ove ne sia modificato il petitum e/o la causa petendi, ossia gli elementi identificativi “oggettivi” della domanda giudiziale (v., in arg., tra gli altri, Cerino Canova 138 ss.; Satta 823 ss.; Verde 6). Ne deriva che la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello per ampliare l'originaria domanda di risarcimento di danni per responsabilità extracontrattuale, dipendendo da elementi di fatto diversi da quest'ultima circa l'accertamento della responsabilità e la determinazione dei danni (cfr. Cass. civ., n. 18299/2016).
La rilevanza della natura unitaria del danno alla persona
In ordine gli effetti della giurisprudenza sull'unitarietà della categoria del danno non patrimoniale sulle domande di risarcimento di detto pregiudizio, si pongono, a fronte della netta affermazione da parte delle Sezioni Unite del principio per il quale il danno non patrimoniale costituisce categoria unitaria, pur suscettibile di ripartizione in determinate voci o categorie aventi tuttavia valenza soltanto descrittiva (Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008), il delicato problema della natura di domanda nuova della richiesta in sede di gravame di una determinata voce di danno non oggetto di domanda in primo grado. Invero, prima dell'intervento delle Sezioni Unite, in sede applicativa non erano emerse significative incertezze circa l'inammissibilità in appello della richiesta di risarcimento di determinate voci attualmente ricondotte nell'ambito dell'unitaria categoria del danno non patrimoniale. A titolo esemplificativo, si può richiamare innanzitutto l'orientamento per il quale assunto, posto che il danno alla vita di relazione, consistente nella impossibilità o difficoltà per il danneggiato di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale, è risarcibile quale danno non patrimoniale all'interno della categoria non del danno morale, ma del danno biologico, come autonoma componente del danno alla salute, da valutarsi distintamente nella determinazione complessiva della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento, ne consegue che, ai fini del riconoscimento del danno alla vita di relazione e della sua risarcibilità, è necessario che il richiedente abbia quanto meno allegato l'esistenza di tale autonoma categoria di danno nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, non essendo sufficiente a tale scopo domandare genericamente il risarcimento del danno biologico iure proprio, e non potendo l'autonoma allegazione essere formulata per la prima volta in appello, ostandovi il divieto di introdurre domande nuove sancito dall'art. 345 c.p.c. (Cass. civ., n. 14852/2007). In senso analogo, si è ritenuto, sempre prima dell'intervento delle Sezioni Unite, che poiché il danno esistenziale deve intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto inducendolo a scelte di vita diverse, quanto all'espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, da quelle che avrebbe compiuto ove non si fosse verificato il fatto dannoso, non costituisce una componente o voce né del danno biologico né del danno morale, ma un autonomo titolo di danno, il cui riconoscimento non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio della natura e delle caratteristiche del pregiudizio medesimo, in mancanza di tale allegazione nel giudizio di primo grado, la domanda proposta per la prima volta in appello e volta al risarcimento del danno esistenziale costituisce domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (Cass. civ., n. 2526/2007, in Resp. civ. prev., 2007, 1279, con nota di Chindemi). Per vero, poste tali premesse, occorre anche ricordare, in generale, che la giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto che in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, l'unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell'ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni cagionatigli da un determinato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta, non potendo, tuttavia, tale principio trovare applicazione quando l'attore ab initio o durante il corso del giudizio abbia esplicitamente escluso il riferimento della domanda a tutte le possibili voci di danno, dovendosi coordinare il principio di infrazionabilità della richiesta con quello della domanda (Cass. civ., n. 22987/2004). A nostro sommesso parere la soluzione da preferire, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite che ha da alcuni anni ormai definitivamente ricondotto ad unità la categoria del danno non patrimoniale, sia quella di non ritenere nuova la domanda mediante la quale in appello vengano dedotte nuove voci di danno non patrimoniale (ad esempio, danno estetico) non precedentemente formulate in primo grado, non integrando tali voci di danno una pluralità e diversità strutturale di petitum costituendone soltanto articolazioni e categorie interne, fermo il dovere per la parte attrice di effettuare tempestivamente le allegazioni in fatto sulle quali si fondano le proprie deduzioni (ossia entro la prima memoria di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c.) (cfr. Giordano, 39 ss.).
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