Il paradigma della continuità aziendale

11 Giugno 2018

È la scienza aziendalistica – recepita nei principi contabili e di revisione – a delineare (ma non a definire) il principio di continuità aziendale: l'attitudine dell'impresa ad operare in una situazione di normale funzionamento, in una prospettiva temporale di almeno due esercizi (ISA Italia 570). Per normale funzionamento intendendosi la capacità dell'impresa di realizzare, attraverso lo svolgimento dell'attività caratteristica (oggetto sociale), flussi economico-finanziari idonei a dare compiutezza al proprio ciclo produttivo e, dunque, a far fronte regolarmente alle obbligazioni aziendali.

È la scienza aziendalistica – recepita nei principi contabili e di revisione – a delineare (ma non a definire) il principio di continuità aziendale: l'attitudine dell'impresa ad operare in una situazione di normale funzionamento, in una prospettiva temporale di almeno due esercizi (ISA Italia 570).

Per normale funzionamento intendendosi la capacità dell'impresa di realizzare, attraverso lo svolgimento dell'attività caratteristica (oggetto sociale), flussi economico-finanziari idonei a dare compiutezza al proprio ciclo produttivo e, dunque, a far fronte regolarmente alle obbligazioni aziendali.

La continuità è un postulato cardine posto a presidio della corretta formazione del bilancio d'esercizio: a mente dell'art. 2423-bis, comma 1, c.c., le valutazioni contabili devono essere fatte nella prospettiva della continuazione dell'attività d'impresa (nello stesso senso, i principi contabili internazionali: IAS 1, § 25).

Ne consegue che ove le prospettive future non consentano di ritenere sussistente il requisito della continuità, le valutazioni fino a quel momento operate dall'imprenditore per esprimere i valori di bilancio debbano essere adeguate in funzione della mutata prospettiva liquidatoria e/o di cessazione dell'attività aziendale.

E ciò al fine di dare una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria dell'impresa, nonché del risultato economico dell'esercizio (art. 2423, comma 2, c.c.).

Se per le imprese stabilmente redditizie e meritevoli sotto il profilo creditizio, la sussistenza della continuità è sostanzialmente presupposta (IAS 1, § 26), per le imprese di standing inferiore occorre verificarne, nel concreto, la sussistenza tramite l'applicazione di indicatori economico-finanziari (ISA Italia 570, Linee Guida, §A2).

L'organo di amministrazione è dunque chiamato ad effettuare una valutazione circa la sussistenza della continuità, dovendo fornire opportune informazioni in sede di redazione del bilancio qualora emergano incertezze significative, tali da far dubitare, in modo rilevante, sulla capacità dell'impresa di operare in normale funzionamento.

È, poi, compito del revisore esaminare l'adeguatezza delle informazioni di bilancio, valutando se tale compendio informativo consenta agli stakeholders di conoscere se l'impresa sia in grado o meno di dare compiuta esecuzione al proprio ciclo produttivo e, dunque – come detto –, di far fronte con regolarità alle proprie obbligazioni.

Ci si chiede se il venir meno della continuità aziendale rappresenti – di per sé – una causa di scioglimento del contratto societario, considerato che nel nostro ordinamento vige la “tipicità” delle cause di scioglimento (art. 2484, comma 1, c.c.) e che fra queste non è annoverata, almeno in via diretta ed espressa, la mancanza (recte, il venir meno) della continuità aziendale.

L'art. 2484, comma 1, n. 2), c.c. annovera, fra le cause di scioglimento, la sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, ciò peraltro solo ove l'assemblea, da convocarsi senza indugio a cura degli amministratori, non abbia deliberato le opportune modifiche statutarie.

La Suprema Corte, sul punto, ha adottato un'interpretazione restrittiva, circoscrivendo la fattispecie “dissolutiva” della sopravvenuta impossibilità di raggiungere l'oggetto sociale ai soli casi di oggettiva ed assoluta impossibilità giuridica e/o materiale (Cass., civ. sez. I, 15 luglio 1996, n. 6410; Cass., civ. sez. I, 6 aprile 1991, n. 3602).

Un (diverso) orientamento di prassi, adottando una lettura estensiva della nozione di sopravvenuta impossibilità, ritiene che ad assumere rilevanza ai fini dell'integrazione della causa di scioglimento in oggetto sia anche l'impossibilità di tipo economico, sempreché la stessa si connoti di caratteri di irreversibilità (Assonime, “Il caso n. 15/2017”: La perdita di continuità aziendale quale causa di scioglimento delle società di capitali).

Chi scrive ritiene più aderente al sistema l'interpretazione di tipo restrittivo (impossibilità giuridica e/o materiale): attrarre nell'alveo delle causa di scioglimento del vincolo societario l'impossibilità economica di raggiungere l'oggetto sociale genererebbe, infatti, rilevanti interferenze sul piano della funzione riorganizzativa/risanatoria dell'impresa in crisi.

In ogni caso – convergendo l'attenzione sul diritto della crisi d'impresa e dell'insolvenza –, il venir meno della continuità aziendale, ove anche solo in via temporanea e/o reversibile, impone agli organi sociali di adottare una mutata prospettiva sotto il profilo delle strategie d'impresa.

La “discontinuità” reversibile (crisi ed inizio della fase “crepuscolare”), che può ben verificarsi prescindendo dal verificarsi della tipica causa di scioglimento, rappresentata dalla perdita del capitale sociale, si caratterizza per la tendenziale compromissione dell'equilibrio economico-finanziario dell'impresa, frutto di rilevanti criticità nella dinamica della gestione aziendale.

La crisi aziendale, ove non gestita in modo appropriato e/o a motivo di strutturali, e non superabili, né “governabili”, punti di degenerativa debolezza nell'assetto aziendale, conduce all'insolvenza, ovvero – secondo la tipica concezione di stampo finanziario, rilevabile dalla lettera della stessa norma (art. 5 l. fall.) – alla impossibilità di soddisfare regolarmente le obbligazioni d'impresa.

La continuità aziendale – muovendo dalla scienza aziendalistica – viene, così, ad assumere una funzione di paradigma nel diritto commerciale e, più in particolare, in quello della crisi d'impresa e dell'insolvenza.

Al sorgere della fase crepuscolare dell'impresa, l'organo di amministrazione ha il dovere di adottare le cd. misure di allerta, peraltro ancor prive – in attesa dell'auspicata attuazione della Riforma delle procedure concorsuali – di una sistematica disciplina positiva.

Misure che possono sintetizzarsi nella gestione conservativa delle risorse patrimoniali (garanzia per tutti i creditori sociali) e nella tutela, per quanto ancor sussistente, del cd. going concern (valore di funzionamento aziendale), in base a criteri prudenziali di gestione – con un opportuno bilanciamento di tutti gli interessi in gioco (impresa, compagine sociale, creditori), in un quadro di compiuta attività informativa.

Misure alle quali, poi, ove la fase crepuscolare muti verso un progressivo peggioramento, sino all'ipotizzabile dissesto, si accompagna il dovere per gli amministratori di astenersi dalla prosecuzione dell'attività aziendale, salvo che ciò non avvenga all'interno di una soluzione prevista dal vigente diritto concorsuale – pena l'incorrere nelle conseguenze di legge, anche di natura penale.

Ed è in questo contesto, in conclusione, che si innestano – nell'ambito della Riforma organica della disciplina della crisi d'impresa e dell'insolvenza (L. n. 155/2017) –, da una parte, i dettagliati strumenti di allerta e composizione assistita, volti a risolvere in via anticipata la crisi d'impresa, dall'altra, le opportune misure “premiali”, sia di natura patrimoniale, sia di natura personale, in favore dell'imprenditore che abbia tempestivamente avviato le procedure preventive secondo le norme del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.

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