Usura bancaria e decreto ingiuntivo: poteri e limiti del rilievo officioso del giudiceFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 640
11 Giugno 2018
Decreto ingiuntivo ed oneri probatori
Il procedimento monitorio che muove dal deposito del ricorso per decreto ingiuntivo, disciplinato dagli artt. 633 e ss. c.p.c., è da sempre qualificato come procedimento speciale, caratterizzato dalla semplificazione del rito ed articolato secondo un sistema bifasico: la prima fase ha carattere esclusivamente documentale ed è destinata a concludersi, in ipotesi di accoglimento della domanda, con un provvedimento emesso dal giudice inaudita altera parte e destinato, se non opposto, ad assumere carattere di definitività; la seconda fase eventuale instaurata con l'opposizione ad opera del debitore ingiunto, da vita all'apertura di un procedimento ordinario di primo grado, a cognizione piena nel corso del quale, in contraddittorio con il soggetto nei confronti del quale è stato emesso il decreto, si procede alla compiuta delibazione della pretesa azionata. Occupandosi della prima fase, l'art. 633 c.p.c. disciplina le “condizioni di ammissibilità” della domanda che può essere proposta solo per ottenere tutela di un diritto di credito del quale si dia prova scritta ed avente ad oggetto una somma di denaro, una determinata quantità di cose fungibili ovvero una cosa mobile determinata. Tali presupposti processuali speciali propri della procedura monitoria devono coesistere alle comuni regole processuali inerenti la giurisdizione e la competenza del giudice. Il credito avente ad oggetto una somma di denaro deve essere liquido - vale a dire determinato nel suo ammontare sulla base di una semplice operazione aritmetica - esigibile nel senso che deve essere scaduto il termine previsto per l'adempimento. Inoltre, con specifico riguardo anche all'elemento della prova scritta, la sussistenza del credito, la sua determinazione quantitativa e le sue condizioni di esigibilità devono essere desumibili, sulla base di parametri obiettivi, dal contenuto dei documenti prodotti con il ricorso. Quanto al requisito della prova scritta, la nozione si ricava dal disposto degli artt. 634, 635 e 636 c.p.c. ed è stata la giurisprudenza di merito, nel corso del tempo, ad individuare tutta una serie di documenti in forza dei quali può essere emesso il decreto ingiuntivo (es. fatture e bolle di accompagnamento annotate nei libri contabili). In questa fase caratterizzata dall'assenza di contraddittorio il giudice ha un potere di controllo circa la completezza della documentazione depositata da cui desumere i requisiti di ammissibilità della domanda e può colmare la carenza di produzione documentale invitando il ricorrente ad integrarla ai sensi dell'art. 640, comma 1, con decreto succintamente motivato. Qualora il creditore non provveda entro il termine fissato dal giudice, la domanda può essere rigettata in tutti i casi di assenza dei presupposti richiesti dalla norma, sia nel merito che nel rito. Decreto ingiuntivo in materia bancaria
L'art. 50 del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 “Testo Unico delle Leggi in Materia Bancaria e Creditizia” prevede espressamente che «La Banca d'Italia e le banche possono chiedere il decreto d'ingiunzione previsto dall'art. 635 c.p.c. anche in base all'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido». Deve premettersi, e ciò al fine di scongiurare prassi diffuse tra gli istituti di credito, che la norma, con la previsione dell'obbligatorietà della produzione dell'estratto conto certificato ha sostituito il vecchio testo, in vigore prima dell'emanazione del Tub per il quale le banche potevano ottenere un provvedimento monitorio producendo il “saldaconto”, previsto dal vecchio Tub del 1936, all'art. 102, che così recitava: «L'Istituto di emissione e gli Istituti di credito di diritto pubblico possono chiedere il decreto di ingiunzione ai sensi dell'art. 3 del R.d. 7 agosto 1936, n. 1531 anche in base all'estratto dei loro saldaconti, certificato conforme alla scritturazioni da uno dei dirigenti dell'istituto interessato, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido». Il saldaconto era il documento contenente il saldo riassuntivo dei rapporti di conto corrente e consentiva la pronuncia del provvedimento monitorio, senza necessità di specificare le singole voci a debito ed a credito. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che: «l'estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della Banca opposta, contenente la dichiarazione che il credito è vero e liquido, ovverosia il documento ex art. 50, d.lgs. n. 385/1993 (Tub), è cosa diversa dall'estratto di saldaconto di cui all'art. 102, l. 7 marzo 1938, n. 141, […], mentre l'estratto conto vero e proprio, di cui all'art. 50 del d.lgs. n. 385/1993 (Tub), ha l'efficacia probatoria prevista dall'art. 1832 c.c.» (Cass. civ., n. 6705/2009 e Cass. civ., n. 12509/2009). In linea con le indicazioni della Corte di cassazione anche la giurisprudenza di merito ha aderito a tali principi precisando che: «Il certificato di saldaconto finale redatto dalla banca ed a firma di una dirigente della medesima - relativamente allo scoperto di conto corrente - era sufficiente a legittimare l'emissione di decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 1823, comma 2, c.c. prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo del 1° settembre 1993, n. 385, Testo Unico delle leggi in. materia bancaria, il quale, a norma dell'art. 50 (decreto ingiuntivo) prescrive adesso che il decreto di ingiunzione previsto dall'art. 633 c.p.c. debba essere richiesto esclusivamente "in base all'estratto conto […]” e non più in base al solo saldaconto o estratto genericamente indicante la posizione debitoria in essere al momento dell'emissione dello stesso» (Trib. Torino 28 maggio 2013; conf. Trib. Novara 23 febbraio 2014; Trib Rovigo 30 aprile 2014).
Oltre all'estratto conto che, appunto, reca l'annotazione delle operazioni dall'accensione del rapporto fino all'emersione della morosità, alla decadenza dal beneficio del termine fino al suo passaggio a sofferenza, è necessario che la banca produca anche copia del contratto da cui si genera il rapporto, e ciò al fine di consentire al giudice di verificare la completezza della documentazione. La copia del contratto, in particolare, consente al giudice di accertare la validità delle clausole contrattuali e delle condizioni applicate al mutuo o al contratto di finanziamento ovvero al contratto di conto corrente, anche affidato. Ed invero, il contratto costituisce la fonte del diritti di credito fatti valere nel giudizio ed è necessario che sia chiaramente e dettagliatamente individuato il tasso di interesse applicato, la commissione di massimo scoperto, il tasso di mora, eventuali oneri assicurativi, penali e altri oneri accessori. Il deposito di tale atto è fondamentale ed è determinante ai fini della concessione del provvedimento monitorio, poiché nella materia bancaria vige la regola, sancita dall'art. 117 del Testo Unico, a norma del quale i contratti sono redatti per iscritto a pena di nullità rilevabile d'ufficio. Tra i controlli che sono demandati al giudice nella fase del monitorio, rientra sicuramente la verifica dei tassi di interessi, corrispettivi e moratori, che siano mantenuti entro il tasso soglia, ai fini di accertare la non ricorrenza della cd. usura bancaria di tipo “genetico” vale a dire quella che è rinvenibile direttamente in contratto la cui sanzione, per tutti i contratti di finanziamento, è quella sancita dall'art. 1815 c.c. (per una estensione della portata della norma a tutti i contratti di finanziamento assimilati al mutuo si veda Cass. civ., 22 giugno 2016, n. 12965). L'art. 644 c.p. e la legge di interpretazione autentica hanno esclusa la rilevanza della usurarietà sopravvenuta prescrivendo che l'usura debba essere rilevata unicamente al momento della sua pattuizione, vale a dire al momento in cui gli stessi sono convenuti indipendentemente dal loro pagamento. Nei casi di conto corrente, e non di mutuo a tasso fisso, ogni qualvolta la banca eserciti lo ius variandi ciò equivale a nuova pattuizione ai fini dell'usura. Dovendosi approntare una nozione di usura genetica è tale quella che è rinvenibile nella fonte del rapporto e da origine ad una nullità parziale per contrarietà a norma imperativa di legge. La relativa sanzione è sancita dall'art. 1815, comma 2, c.c. per il quale «se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi» rendendo il finanziamento da oneroso a gratuito in ossequio al disvalore che accompagna il fatto parimenti rilevante penalmente. Uno dei temi maggiormente dibattuti che assume refluenze importanti nell'enucleare i confini del controllo del giudice che emette il decreto ingiuntivo, attiene alle concrete modalità di accertamento del tasso usuraio in contratto e quali oneri e voci del costo del finanziamento rilevino nel rapporto con il tasso soglia. A riguardo, già con sentenza n. 350/2013 la Corte di cassazione ha chiaramente enunciato che gli interessi di mora rilevano ai fini dell'usura, utilizzando i seguenti argomenti essenziali: argomento letterale – gli artt. 1815 e 644 fanno riferimento agli interessi usurai pattuiti a qualunque titolo - il d.l. n. 394/2000 contiene lo stesso riferimento e dunque gli interessi moratori non possono non rilevare ai fini di verificare il superamento del tasso soglia, seppur gli stessi debbano essere analizzati separatamente rispetto agli interessi compensativi. La giurisprudenza di merito assolutamente maggioritaria ritiene che gli interessi di mora rilevino ai fini del calcolo del TEG (Tasso Effettivo Globale) contrattuale, trattandosi usura prevalentemente genetica, sebbene si è concordi nel ritenere che gli stessi non debbano essere inclusi nel TEGM (Tasso Effettivo Globale Medio) che, misurando il costo normale del credito praticato alla clientela, non entrino nel paniere di voci che la Banca d'Italia assume rilevanti come rappresentative del “normale costo del credito” e ciò si tradurrebbe in un effettivo “calmiere” del mercato creditizio. La illiceità degli interessi moratori determina un fenomeno di nullità parziale ai sensi dell'art. 1419 c.c., per cui restano dovuti gli interessi corrispettivi, indipendentemente dal fatto che la banca abbia o meno preteso gli interessi moratori e non sarebbe possibile la sommatoria che costituisce solo un sistema di calcolo. La questione era stata già risolta positivamente dalla Cass. civ., 4 aprile 2003, n. 5324, la quale aveva precisato che devono intendersi usurari i tassi di interesse, a qualunque titolo, che superano il limite fissato dalla legge, quindi anche se relativi ad interessi moratori con l'effetto che gli interessi moratori concorrono, insieme alle altre voci, alla determinazione del TEG contrattuale da rapportare alla soglia di usura. Tale impostazione è stata recentemente confermata con pronuncia Cass. civ., sez. VI, 6 marzo 2017, n. 5598, con la quale si è ritenuta erronea la decisione del tribunale che aveva ritenuto in maniera apodittica che il tasso soglia non fosse stato superato per il solo fatto che non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori. Uno dei temi maggiormente dibattuti in seno alla giurisprudenza di merito involge il profilo della concreta determinazione dei tassi usurai e se, oltre gli interessi, ai fini di verificare se il costo di un finanziamento sia o meno usurario, rilevino anche altre voci controverse quali la commissione di massimo scoperto, CMS (oggi sostituita dalla commissione istruttoria veloce CIV si veda l. n. 2/2009 e nuovo art. 117-bis TUB) ovvero gli oneri assicurativi. Ed infine, rientrano nel calcolo del tasso ai fini dell'usura anche gli oneri assicurativi previsti in contratto. Le Istruzioni della Banca d'Italia dell'agosto del 2009 specificano che, al fine del calcolo dei TEGM, bisogna considerare, in particolare, oltre alla commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e le spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all'erogazione del credito, anche «le spese per assicurazioni o garanzie intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito ovvero a tutelare altrimenti i diritti del creditore (ad es. polizze per furto e incendio sui beni concessi in leasing o in ipoteca)». Le istruzione della Banca d'Italia 2009, hanno incluso gli oneri assicurativi nel calcolo del TEG, alle seguenti condizioni: «Se la conclusione del contratto avente ad oggetto il servizio assicurativo è contestuale alla concessione del finanziamento ovvero obbligatoria per ottenere il credito o per ottenerlo alle condizioni contrattuali offerte, indipendentemente dal fatto che la polizza venga stipulata per il tramite del finanziatore o direttamente dal cliente». Sul tema è intervenuta recentemente la Cass. civ., 5 aprile 2017, n. 8806, che ha chiaramente incluso le spese per polizze assicurative o per altre garanzie imposte dalla banca per assicurare il rimborso del credito nella valutazione del tasso d'usura, richiamando il disposto stesso dell'art. 644 c.p., e il carattere “onnicomprensivo” della norma in questione, che individua quale unico limite al computo delle spese quello del “collegamento con l'operazione di credito”.
Indi, la verifica dell'usura non è operazione agevole che può essere assolta dal giudice del monitorio il quale deve emettere un provvedimento inaudita altera parte giacché, talune voci di costo tra quelli indicati, operano nel corso del rapporto e si atteggiano in maniera differente in ragione dell'operatività in concreto delle varie clausole contrattuali. Ed allora ne discende che al momento della verifica documentale il giudice può certamente rilevare l'esistenza di un tasso usurario in contratto, con un'operazione agevole di mero raffronto tra i tassi previsti in contratto (TEG o TAN e tassi moratori) e il tasso soglia, pubblicato sul sito della Banca d'Italia riferito all'epoca della stipulazione del contratto, avendo cura di enucleare il tasso soglia per la tipologia di operazione conclusa dal cliente con l'istituto bancario. L'assunto, d'altra parte, è confermato dal rilievo di ordine pubblico che connota la materia in esame censurata sia in ambito penale, con una fattispecie di reato di portata criminosa rilevante, sia in ambito civile con la sanzione di gratuità dell'operazione di finanziamento senza che possa farsi ricorso all'inserzione automatica di clausole prevista dall'art. 1339 c.c., volta a sostituire il tasso usuraio con quello legale a cui vi osta proprio il chiaro disposto dell'art. 1815 c.c.. Il rilievo officioso, in sede di procedimento monitorio, è stato, peraltro, ampiamente sperimentato dalla giurisprudenza di merito, anche rispetto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, la cui nullità veniva sollevata d'ufficio ogniqualvolta emergeva dalle clausole contrattuali una disimmetria evidente tra capitalizzazione a favore della banca (interessi debitori) a cadenze trimestrale, e quella a favore del correntista a cadenza annuale, in violazione della condizione di reciprocità, sancita dall'art.6 della delibera CICR 9.2.2000, prevista quale deroga alla sanzione di nullità comminata, nei casi di violazione del divieto di anatociscmo, dall'art. 1283, c.c.. (si veda Cass. civ., Sez. Un., n. 21095/2004; per il rilievo d'ufficio della illegittima capitalizzazione degli interessi debitori in sede di procedimento monitorio si veda Trib. Grosseto 28 luglio 2006). La materia dell'usura bancaria e la rilevabilità d'ufficio della clausola di previsione dei tassi inserita nel contratto trova fonte diretta nei principi espressi da una importante pronuncia del Giudice di legittimità che, seppur occupandosi, per ovvi motivi, del giudizio di opposizione, ha tuttavia precisato: «il principio, reiteratamente enunciato da questa Corte, secondo cui nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto da una banca nei confronti di un correntista la nullità delle clausole del contratto di conto corrente bancario che rinviano alle condizioni usualmente praticate per la determinazione del tasso d'interesse o che prevedono un tasso d'interesse usurario è rilevabile anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 1421 c.c., qualora vi sia contestazione, anche per ragioni diverse, sul titolo posto a fondamento della richiesta degli interessi, senza che ciò si traduca in una violazione del principio della domanda, il quale esclude che, in presenza di un'azione diretta a far valere l'invalidità di un contratto, il giudice possa rilevare d'ufficio la nullità per cause diverse da quelle dedotte dall'attore (cfr. Cass. civ., sez. 1, 8 marzo 2012, n. 3649; Cass. civ., 25 novembre 2010, n. 23974; Cass. civ., 10 ottobre 2007, n. 21141). L'opposizione determina infatti l'instaurazione di un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice non deve limitarsi a verificare se l'ingiunzione sia stata legittimamente emessa, ma deve procedere all'accertamento del credito azionato nel procedimento monitorio, sulla base del titolo posto a fondamento della domanda, la cui nullità può dunque essere rilevata anche d'ufficio, rientrando tra i compiti del giudice la verifica in ordine alla sussistenza delle condizioni dell'azione (cfr. Cass. civ., sez. 1, 21 dicembre 2007, n. 27088; Cass. civ., 31 agosto 2007, n. 18453). In tale giudizio, d'altronde, il debitore, pur rivestendo formalmente la qualità di attore, assume la posizione di convenuto in senso sostanziale, configurandosi la domanda proposta dal creditore come una ordinaria azione di adempimento, rispetto alla quale l'eventuale deduzione della nullità da parte dell'opponente non si pone come autonoma domanda o eccezione, ma come mera difesa, volta a sollecitare l'esercizio del potere ufficioso del giudice, il quale non subisce pertanto limitazioni in relazione alle cause d'invalidità fatte valere dalla parte (cfr. Cass. civ., sez. 1, 9 gennaio 2013, n. 350; 28 ottobre 2005, n. 21080)» (Cass. civ., 30 ottobre 2013 n. 24483 in motivazione). Ora, ancorché tali enunciati presuppongano un giudizio già instaurato e il pieno contraddittorio delle parti, la previsione di un potere del giudice di travalicare i limiti della domanda e di far valere comunque la nullità parziale del contratto anche per motivi diversi da quelli oggetto di contestazione ogniqualvolta le relative clausole contengano pattuizioni contrarie alle regole normative – e tali devono ritenersi quelle che “rinviano ad usi su piazza” del tutto indeterminate e contrarie ai canoni previsti dalla legge 17 febbraio 1992, n. 154, art. 4 o quelle usuraie che violano il combinato disposto degli artt. 2l.n. 108/1996 e 644 c.p. – induce a ritenere che tale potere debba e possa essere esercitato anche senza contraddittorio delle parti, nella fase preventiva di controllo documentale propedeutica all'emissione del decreto ingiuntivo, allorquando emerga una nullità di tipo “genetico”, che risponda ad interessi di ordine pubblico e che incida in tutto o in parte sulla pretesa creditoria azionata rendendola inesistente perché contra ius. In questi casi, il giudice, applicando il disposto dell'art. 1815 c.c. e nell'ambito di applicazione dell'art. 640 c.p.c., potrà richiedere al creditore di rideterminare il credito fatto valere nel ricorso per decreto ingiuntivo per il solo capitale ovvero per il capitale e gli interessi corrispettivi in tutti i casi in cui l'usurarietà riguardi solo gli interessi moratori. In conclusione
La ricostruzione operata postula certamente un ampliamento dei poteri officiosi del giudice in una fase del procedimento caratterizzata dall'assenza di contraddittorio ma la conclusione non può essere diversa se si concorda con l'assunto per il quale alcune forme di nullità genetica, nella materia bancaria, rispondono ad interessi di ordine pubblico e danno vita ad un copioso contenzioso, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, che potrebbe essere in qualche modo deflazionato attraverso un preventivo e corretto esercizio del potere di controllo in una fase anticipata, volta all'emissione di un provvedimento, sovente con effetti dirompenti e lesivi degli interessi patrimoniali del cliente (si pensi all'avvio delle procedure esecutive nel caso di decreti muniti della clausola della provvisoria esecuzione ovvero alle iscrizioni al CRIF o alla segnalazione alla Centrale rischi), che possa contenere una determinazione dell'entità del credito il più possibile conforme alle previsioni normative vigenti nella materia in esame. |