Prime riflessioni sull’equo compenso (e sulle clausole vessatorie). In particolare: il contenzioso assicurativo e della Rc auto
12 Giugno 2018
La determinazione e la misura dei compensi professionali integra un tema che, al di là della sua facile ed intuitiva “presa” mediatica, sottende la difficile calibratura di interessi non sempre facili a comporsi.
L'attività professionale, ça va sans dire, si fonda su di una seria e responsabile messa a disposizione dell'utenza di competenze specialistiche acquisite in settori sovente cardinali sotto il profilo del loro generale impatto economico sociale (si pensi, tra tutte, all'esercizio delle professioni sanitarie). Si tratta, normalmente, di attività tanto impegnative quanto “rischiose”, sia sotto il profilo attivo che passivo, implicando (in caso di prestazione non adeguata o di insuccesso) tanto un pericolo di danno per il cliente quanto un rischio di responsabilità risarcitoria a carico del professionista. Di qui, l'esigenza di reperire una regola di responsabilità equilibrata, stigmatizzata dal nostro codice civile nella celebre formula dell'art. 2236 c.c. (a mente del quale se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà il prestatore d'opera non risponde dei danni, salvo il caso di dolo o colpa grave); formula, questa, tesa a mantener vivo il sacro e pieno principio della responsabilità individuale del professionista senza tuttavia mortificarne l'iniziativa nei casi più complessi (quelli in cui la sua competenza qualificata sarebbe ancor più utile, e quindi meritevole di esser posta al riparo da un eccessivo spauracchio risarcitorio). Sullo sfondo di tale norma si stagliava – e si staglia – l'idea basilare dell'importanza sociale del lavoro professionale, motore dinamico del progresso e di una scienza che si sviluppa anche attraverso la continua esplorazione, presa in carico, e neutralizzazione esperienziale di rischi operativi (rischi man mano alleggeriti e sintetizzati nell'ambito di sempre nuovi approcci protocollari e metodici).
A far, poi, da pendant alla naturale implicazione bilaterale di rischio sottesa all'attività del professionista (per il professionista medesimo e per il suo cliente) si è inserita in tempi assai più recenti, la previsione dell'obbligo di assicurazione della responsabilità professionale, di cui all'art. 3, comma 5 lett. e) d.l. n. 138/2011: un obbligo, anch'esso bipartisan, in quanto teso a proteggere tanto l'esercente quanto (e diremmo, forse, soprattutto data la formulazione testuale della norma) il suo cliente. Obbligo che, quanto ai professionisti legali è stato cristallizzato nell'art. 12 della l. n. 247/2012.
Evidente che, in tutto questo fervido contesto ideale, l'assunzione del rischio della responsabilità professionale ed il relativo costo (anche in termini di prezzo del nuovo obbligo assicurativo) dovrebbe riflettersi in modo adeguato sulla misura dell'onorario di volta in volta richiesto per lo svolgimento delle attività oggetto di incarico. Ed è anche al filtro di tali considerazioni evolutive (di cui costituisce paradigmatico esempio la vicenda della responsabilità medica e della sua assicurazione obbligatoria di “nuova generazione”) che andrebbe letta la regola sancita dall'art. 2233 c.c. (comma 2), anch'essa figlia di una chiara considerazione del valore sociale dell'apporto libero professionale e della necessità di garantire che la misura del relativo compenso sia comunque “adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione”.
Il parametro dell'“importanza e del decoro della professione” costituisce dunque formula aperta che non può non tener conto dell'evoluzione dei fattori poc'anzi menzionati, dovendosi ragguagliare anche, e forse soprattutto, alla (sempre più) sensibile assunzione di responsabilità sottesa all'accettazione dell'incarico. Ciò al netto, ovviamente di tutti gli altri – diversi – costi/oneri che, endemici allo svolgimento dell'attività libero professionale (si pensi, tra gli altri, all'adempimento degli obblighi formativi di legge), ne condizionano ulteriormente l'andamento economico.
Quanto poi, e in particolare, all'avvocato, egli – in linea di principio – è chiamato a svolgere una funzione essenziale nella realizzazione della missione della giurisdizione, quale strumento di tutela sociale della collettività. Come noto tanto la citata legge professionale quanto il Codice deontologico elevano la professione legale al ruolo di “garante” del cittadino, quanto all'”effettività della tutela dei diritti” (art. 2, comma 2, l. n. 247/2012): garanzia che non può prescindere da una condotta tecnicamente qualificata ed eticamente orientata. In questo contesto si collocano, del resto, l'obbligo di aggiornamento costante, l'onere di probità, il principio della “libertà, autonomia ed indipendenza” nell'esercizio di una professione che si caratterizza proprio per la sua elevata funzione di strumento di tutela protettiva e sociale. Quando si accenna dunque alla complessità dell'organizzazione dell'attività professionale dell'avvocato – dalla strutturazione dell'“azienda forense”, al ruolo dei collaboratori e del personale dipendente, agli obblighi assicurativi ed alla subordinazione del professionista alle regole delle leggi e deontologiche – non si abbracciano soltanto i profili propri di una qualunque attività libero professionale: tutte queste peculiarità della professione forense sono da leggere in un contesto principalmente sociale ed etico ove il legale diviene – o dovrebbe divenire, se rispettasse fedelmente la sua “missione” – lo strumento essenziale ed imprescindibile, come detto, della miglior tutela del cittadino. È, perciò, anche alla realizzazione di questa complessa ed articolata struttura professionale con finalità socio-protettive che va rivolto il compenso che l'avvocato ha diritto di chiedere al cliente. Quale corrispettivo di una prestazione socialmente utile, ove rivolta eticamente anzitutto all'effettiva realizzazione di interessi costituzionalmente garantiti (la tutela giurisdizionale dei clienti e, ci sia consentito dire, almeno entro certi limiti, delle loro controparti, nell'ambito di un corretto e non abusivo esercizio della dialettica defensionale). Ed è in questo contesto di fondo che si cala quell'approccio difensivo e categoriale a matrice ordinistica che, volto a preservare la corretta applicazione dei principi sanciti dal codice civile, si è sovente tradotto nell'elaborazione di criteri mercuriali, da intendersi quali misure di riferimento del compenso adeguato ed equo: criteri che si sarebbero voluti inderogabili onde impedire al gioco concorrenziale, ove eccessivamente spinto, potesse condurre alla disintegrazione, in fatto, della regola di cui all'art. 2233 c.c. In gioco vi era, dunque, la rivendicazione di una dignità e responsabilità professionale che non avrebbe dovuto esser svilita da compensi incongrui e tali da rischiar di indurre un adeguamento “al ribasso” dell'impegno prestazionale, con conseguente appiattamento – anche qualitativo – del livello dei servizi in concreto erogati.
Orbene, nella proposizione di cui sopra si pone, in tutta la sua evidenza, la contrapposizione tra l'impostazione protezionistica di partenza e la visione esclusivamente (e diremmo asseritamente) “pro concorrenziale” del fenomeno: una visione che vorrebbe consentire il più ampio accesso possibile alla professione anche alle “giovani leve”, la cui più grande forza di penetrazione sul mercato non risiede, il più delle volte, nella credibilità professionale (un poco offuscata dalla ridotta esperienza) bensì nella loro disponibilità ad abbassare, e molto, il livello delle proprie pretese di compenso. Al riguardo – ed in guisa di sintesi della tesi “liberista” – merita di esser riportata la posizione espressa recentemente dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, proprio a commento (e serrata critica…) delle proposta di legge sull'equo compenso. Ci riferiamo alla nota n. AS1452, del 24 novembre 2017 con cui l'AGCM ha sostenuto che l'intervento di riforma avrebbe determinato un'ingiustificata «inversione di tendenza rispetto all'importante ed impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio e a favore del quale l'Autorità si è costantemente pronunciata». A detta dell'Autorità, invero, le tariffe professionali fisse e minime costituirebbero una grave restrizione della concorrenza, in quanto impedirebbero ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti facendo leva sul prezzo della prestazione. E in quest'ottica «l'effettiva presenza di una concorrenza di prezzo nei servizi professionali non può in alcun modo essere collegata ad una dequalificazione della professione, giacché, come più volte ricordato dall'Autorità, è invece la sicurezza offerta dalla protezione di una tariffa fissa o minima a disincentivare l'erogazione di una prestazione adeguata e garantire ai professionisti già affermati sul mercato di godere di una rendita di posizione determinando la fuoriuscita dal mercato di colleghi più giovani in grado di offrire, all'inizio, un prezzo più basso» . Sarebbero dunque proprio i così detti “newcomer” ad essere pregiudicati dalla reintroduzione delle tariffe minime in quanto «vedrebbero drasticamente compromesse le opportunità di farsi conoscere sul mercato e, in definitiva, di competere con i colleghi affermati che dispongono di maggiori risorse per l'acquisizione di clientela, anche di particolare rilievo». E comunque, per concludere, le misure restrittive introdotte ex lege non risponderebbero in alcun modo a quei principi di proporzionalità concorrenziale che, predicati in sede Europea, dovrebbero in ogni caso sostenerne la “tenuta” sul piano legale.
In verità, proprio allargando la visuale al contesto Europeo, non può non richiamarsi quanto stabilito dalla Corte Giustizia nella storica sentenza n. 94 del 5 dicembre 2006; sentenza distintasi per la bella capacità di analisi della peculiare, e per il vero un poco singolare, situazione dei servizi forensi nella nostra penisola. Così la Corte, pur avendo osservato che la fissazione di minimi tariffari costituisce indubbia restrizione alla libera prestazione dei servizi, si è subito affrettata a dichiararne – comunque – la possibile legittimità: ciò nella misura in cui tal restrizione sia stata dettata da motivi imperativi di interesse pubblico e, in particolare dall'esigenza di «tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia». E spicca, tra le pieghe della motivazione della sentenza, il passaggio in cui si rimarca il rischio che una eccessiva liberalizzazione tariffaria possa indurre gli avvocati «in un contesto come quello del mercato italiano, … caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati iscritti ed in attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell'offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi forniti».
Del resto, tornando alle nostre considerazione personali, erodere sistematicamente i livelli tariffari non equivale di per sé al reperimento di quell'equo compenso che pur sarebbe ben predicabile (almeno per riportare in “asse” il sistema, riequilibrando anche taluni eccessi parcellatori a cui in passato avevamo spesso assistito). Ben al contrario, lavorare a bassa marginalità di remunerazione costringe, evidentemente, il professionista a limitare l'accesso a risorse comunque indispensabili al fine di fornire la propria miglior prestazione (mezzi strumentali e collaborazioni in primis). Di più, il “tempo” dedicato al servizio non potrebbe che comprimersi, inducendo ad un sempre maggior ricorso a supporti telematici automatizzati, in luogo del faticoso, ma (vivaddio, pur sempre) utile apporto del proprio personalissimo contributo intellettuale (ed è proprio su quel contributo, non lo si dimentichi, che risulta costruita la disciplina del contratto d'opera professionale di cui agli artt. 2230 e ss c.c.).
Ma vi è di più: se è vero, come è vero, che il rispetto del gioco concorrenziale è essenziale alla propulsione e miglior erogazione di servizi professionali di qualità, è altrettanto vero che il metodo dei “larghissimi” contratti quadro - entro la cui cornice vengono omogeneizzate la prestazione e la retribuzione di un ben copioso numero di avvocati (come avviene nel settore bancario ed assicurativo) – pare addirittura antinomico a quei principi di libera ed utile concorrenza fissati, tra l'altro, anche dell'art. 3, comma 6 d. lgs. n. 138/2011.
Non di minor rilievo nella nostra disamina deve essere la osservazione pratica delle conseguenze realizzatesi in più di dieci anni dalla legge abrogatrice delle tariffe forensi rispetto alla evoluzione del mercato. L'evoluzione degli iscritti agli albi professionali, il ricambio generazionale e il subingresso di “nuove leve” sulla spinta di una maggiore competitività tariffaria si sono all'evidenza dimostrate vane aspettative. Lungi dal voler riportare in questo contesto una statistica evolutiva del mercato della professione forense, che tra l'altro presenterebbe elementi non lineari e certi, basti qui considerare che – sul piano pratico – l'unica vera conseguenza diretta della novella del 2006 si è tradotta in una distonia di ruolo tra richiedente la prestazione ed offerente, soprattutto in quelle realtà macroeconomiche ed aziendali caratterizzate da un forte peso contrattuale che si è immediatamente sbilanciato a favore di queste ultime. La realtà odierna è fatta di contratti imposti dai grandi gruppi industriali e finanziari al settore legale, secondo parametri economici che si denotano per i loro profili altamente riduttivi tanto nei valori economici di base, quanto nella regolamentazione interpretativa ed applicativa della tariffa imposta.
Di contro la competizione interna tra studi legali è stata caratterizzata non dalla elevazione di una matrice per così dire qualitativa dello studio professionale offerente, bensì da una maggiore o minor disponibilità ad accettare una revisione al ribasso del compenso (ove l'elemento caratterizzante il rapporto professionale e la continuità dello stesso è stato per lo più quello della adesione incondizionata ai diktat aziendali dei “grandi” clienti), con ciò snaturando le regole base di una competizione concorrenziale che era una delle aspirazioni (illusorie) della riforma del 2006 che abrogò i minimi tariffari. Una corsa al ribasso che, si ribadisce, mal si concilia con le regole proprie della funzione sociale e di qualità etica della professione forense e che è, semmai, chiaro marcatore tipico di una insana liberalizzazione del mercato.
Non ultima, la considerazione che in linea generale, ed al di fuori dei contesti contenziosi di larga scala, non si è affatto assistito ad una introduzione nel mercato e nel settore della assistenza legale ai grossi gruppi industriali e finanziari, di nuove realtà professionali: le grandi operazioni, le consulenze stragiudiziali ad alto valore strategico sono rimaste, tutto al contrario, di appannaggio di quei pochi studi legali dal marchio consolidato, lasciando al resto del mercato lo scontro fratricida sulle pratiche a bassa marginalità di guadagno.
Alla luce di tali considerazioni, può dunque fondatamente ritenersi che la forte contrapposizione tra l'impostazione difensiva sottesa alla fissazione dei minimi tariffari e la propensione liberistica propugnata, in senso contrario, dall'AGCM, non sottenda in realtà interessi così divergenti: la tutela dei così detti “newcomers” non passa certo attraverso la sistematica disintegrazione dei livelli tariffari (con le evidenti controindicazioni sopra segnalate e la conseguente e progressiva perdita di prestigio, decoro e rango dell'intero comparto professionale di appartenenza) bensì mediante l'individuazione di soluzioni equilibrate, che contemperino libertà dell'offerta e tutela minima dei livelli professionali. Il tutto avendo l'accortezza di “non far di tutte le erbe un fascio” e di distinguere gli ambiti in cui si possa accordar privilegio all'una od all'altra, anche in considerazione della tipologia del cliente destinatario della prestazione professionale (sia esso consumatore, professionista o “grande cliente” d'impresa) e delle differenti asimmetrie che connotano i relativi rapporti negoziali.
In questo senso, la nuova legge sull'equo compenso sembra superare le criticità rilevate, sul piano concorrenziale, dalla AGCM, andando ad impattare – in modo peraltro non insuperabile – non l'intero “mondo” delle prestazioni professionali ma soltanto determinate aree di servizio: quelle che – riservate a clienti “master” di grandi dimensioni, specie nel comparto assicurativo e bancario – riguardano un settore in cui lo svilimento dell'apporto professionale è parso, nell'ultima decade, sempre più serio e condizionato da fattori patologici di sistema meritevoli di esser sanati. Proprio l'obiettivo di ridare equilibrio a questa distonia dei rapporti commerciali (e del conseguente depauperamento di una qualità soggiogata al valore tariffario incondizionatamente imposto dal cliente) è la ratio primaria della l. n. 172 del 2017 che in quest'ottica deve essere letta, tanto sul piano interpretativo ed applicativo, quanto su quello del doveroso onere di riguardo al quale ogni esercente la professione forense risulta sottoposto per dovere deontologico ed etico.
Di converso, e questo non può esser sottaciuto, la rivendicazione – stigmatizzata a livello normativo – della necessità di garantire una remunerazione adeguata al rango, importanza e qualità dell'apporto professionale dell'avvocato potrebbe incidere, indirettamente, sul regime della sua responsabilità verso il cliente: come a dire che (noblesse oblige) al sacrosanto diritto a percepire un compenso allineato alla complessità e rilevanza della professione debba corrispondere una omogenea assunzione di responsabilità. E in questo senso, la parabola evolutiva della giurisprudenza potrebbe in qualche modo, pro futuro, risentirne, inducendo oggi qualche timore circa la possibilità che la stessa non segua traiettorie equilibrate e che la deriva accusatoria a cui già si è assistito nel comparto medico possa incontrare, qui, una qualche replica imitatoria. Al di là dei ragionamenti teorici vi è un inconfutabile dato di fatto: la prassi di un certo mercato professionale, ed in particolare di quello degli esercenti la professione legale (connotato, come ben rilevato anche dalla Corte di Giustizia, da una straordinaria, atipica e forse abnorme popolazione forense rispetto alle esigenze effettive del bacino di utenza nazionale), ha conosciuto, specie nell'ultima decade ed in costanza della generale recessione economica che ne ha accompagnato lo sviluppo, una singolare omogeneizzazione tariffaria, soprattutto nei comparti influenzati dalla teorica possibilità di serializzare le prestazioni, in quanto ripetitive ed a basso contributo di originalità nella gestione dei singoli casi. Il pensiero corre al settore bancario, in cui la drammatica crisi di risorse e l'altrettanto drammatica mole delle posizioni di credito in sofferenza, ha condotto alla necessità di intervenire su costi delle azioni legali di recupero attraverso il convenzionamento di professionisti disposti ad accettare il pagamento di tariffe “di saldo”, non sempre controbilanciate dal numero di incarichi loro assegnati. Ma vi è un altro settore in cui il tema del convenzionamento al ribasso si pone, oggi, con particolare urgenza: quello dei costi di assistenza legali nel campo assicurativo e, in particolare, nel settore della gestione della sinistrosità dell'assicurazione obbligatoria automobilistica. Proprio in quest'ultimo ambito di attività, peraltro, il problema assume sfaccettature peculiari ed assai più complesse, tali da implicare un ragionamento allargato e teso a far emergere le vere e più profonde cause di un fenomeno che merita di esser risolto nel suo complesso, e non invece attraverso l'applicazione di “pezze” certamente insufficienti.
Muovendo dal presupposto di partenza, ossia la necessaria presa d'atto dell'abnorme numerosità della popolazione dei professionisti legali sul territorio nazionale, ben si comprendono le ragioni, diremmo sociali, che inducono molti degli avvocati “in difficoltà” a presidiare – e talvolta alimentare – i settori in cui si presenta con maggior frequenza una richiesta di assistenza. A maggior ragione in quei contesti in cui, a torto o ragione, si ritiene che la prestazione da offrire sia tecnicamente “più semplice”.
Il contesto della sinistrosità stradale costituisce, da sempre, emblema di un tal discutibile approccio all'attività forense: il “circo barnum della litigiosità” (come a suo tempo definito da Marco Rossetti in “Nuove norme in tema di assicurazione r.c.a. e di danno biologico” in Corriere Giuridico 5/2001 p. 587) nutre disparati players del “servizio” ai danneggiati: un servizio che non sempre viene reso in modo davvero etico, dovendosi purtroppo talvolta assistere a controversie alimentate più per soddisfare le esigenze locupletative dei vari interessi professionali coinvolti che per soddisfare adeguatamente le esigenze di ristoro delle vittime della strada. Il confine, in certi ambiti, tra lecito ed illecito e tra massimizzazione della tutela e frode è sovente labile. Così come talvolta appare incerta la linea di demarcazione tra il corretto accesso alla tutela giurisdizionale e l'abuso del processo.
Il tema attiene, dunque, ai costi legali pretesi dai professionisti che tutelano i danneggiati in caso di sinistro: costi che, valorizzati quale autonoma componente del danno risarcibile (o quale corollario del principio di soccombenza, di cui all'art. 91 c.p.c.), incidono in modo severo sugli andamenti tecnici del ramo della rc auto. Si tratta, in realtà, di costi spesso riconosciuti – nella fase della liquidazione stragiudiziale e della formulazione dell'offerta “congrua” – in modo pressoché automatico, anche qualora correlati ad interventi non sempre indispensabili (si pensi ai danni di modesta entità al veicolo). Non solo, tali oneri vengono talvolta enfatizzati tramite architetture operative non sempre necessitate (si consideri, al riguardo, il noto fenomeno della cessione sistematica del credito a favore degli autoriparatori, specie a fronte di servizi – non richiesti – di noleggio di mezzi sostitutivi).
Rimane il fatto che buona parte di tali maggiori oneri professionali, in linea di principio superflui, trovano il più delle volte linfa nella malpractice liquidativa di quelle imprese che non riescono ad ossequiare in tempi rapidi ed in modo davvero efficiente le pretese risarcitorie dei danneggiati (anche laddove fondate e facilmente istruibili). Insomma, è lo stesso comparto assicurativo a costituir, in buona parte, causa del suo stesso male, non essendo sempre in grado di offrire risposte idonee a tacitare i danneggiati ed a paralizzarne eventuali tendenze speculative. Esempio paradigmatico di tale inadeguatezza strutturale va ravvisato nella scarsa capacità dimostrata dal mercato assicurativo di sfruttare le evidenti potenzialità introdotte, a far tempo, dal 2006, dalla nuova procedura di risarcimento diretto (artt. 149 e 150 cod. ass. e d.P.R. n. 254/2006). Come noto, tale innovazione procedurale, applicabile a certe categorie di sinistri “minori”, mirava a sfruttare le virtuose potenzialità connesse alla gestione della fase liquidativa da parte della stessa compagnia dell'assicurato danneggiato (la cosiddetta impresa “gestionaria”) che interveniva per conto dell'impresa “debitrice” (quest'ultima da intendersi quale la compagnia del responsabile civile). Tale “stratagemma” operativo avrebbe dovuto consentire:
Ma soprattutto, l'“indennizzo diretto” avrebbe dovuto indurre ad un cospicuo risparmio proprio dei costi legali: in un contesto in cui l'esigenza di assistenza va ragguagliata alla “minor” rilevanza, sul piano quantitativo e qualitativo dei danni oggetto di risarcimento diretto, i costi di tutela legale non avrebbero dovuto esser nemmeno riconosciuti, a patto che la compagnia gestionaria prendesse davvero in carico – diremmo meglio: accudisse – il proprio assicurato/danneggiato fornendogli tutta la assistenza tecnica ed informativa necessaria a dar piena soddisfazione alle proprie legittime ambizioni risarcitorie. In sostanza nessun danno risarcibile correlato all'assistenza legale avrebbe potuto esser invocato dal danneggiato, a favore del quale tale assistenza avrebbe dovuto esser resa direttamente, e senza costi aggiuntivi, dalla propria impresa assicurativa (art. 9 d.P.R. n. 254/2006) Ciò, nei fatti, non è quasi mai avvenuto: le potenzialità della nuova procedura non sono mai state veramente sfruttate ed, anzi, la maggior parte delle liquidazioni stragiudiziali in regime di risarcimento diretto sono state effettuate continuando a remunerare una intermediazione legale che ben avrebbe potuto e forse dovuto essere meglio arginata (e che invece le compagnie si sono accollate al prevalente fine di non incorrere in contenziosi giudiziali ritenuti, dopo tutto, antieconomici).
Tale evidente distorsione non è, però, la sola che connota il settore. Anche, e forse soprattutto, al di fuori dell'indennizzo diretto, il severo peso dei costi legali risponde a logiche di gestione del sinistro talvolta non commendevoli, anzi. Così, pure nell'ambito delle procedure “ordinarie” e nei rapporti con i terzi danneggiati, l'approccio finanziario alla liquidazione del danno da parte di molte imprese (comunque inclini a favorire la via della transazione rispetto ai rischi ed ai maggiori oneri di causa) finisce sovente per assecondare la non sempre condivisibile impostazione mercatoria seguita da taluni players del mercato del “risarcimento” del danno; non è dunque raro che, in questi contesti la trattativa per la definizione del sinistro si focalizzi anche sul quantum del compenso legale dovuto ai plaintiff's lawyers, quale vera e propria chiave di accesso a conciliazioni liquidative non sempre perequate (stante la possibilità che il risultato finale della transazione finisca per pregiudicare, anziché soddisfare, l'interesse finale del danneggiato). Il tutto senza che l'avente diritto – il danneggiato – sia posto davvero in grado di conoscere ed apprezzare l'ammontare e l'effettiva correttezza del compenso riconosciuto dalla compagnia al proprio legale. Il fatto, poi, che, nella prassi, tale compenso sia frequentemente computato in termini percentuali (rispetto alla sorte capitale delle altre voci di danno) ha contribuito ad impedire lo sviluppo di forme risarcitorie alternative non basate sulla mera equivalenza monetaria di una lump sum ma sulla “presa in carico” del danneggiato e sull'erogazione (forse più etica, certamente utile) di servizi specificamente diretti al recupero funzionale del bene leso (quali, ad esempio, la diretta effettuazione di prestazioni di cura attraverso strutture sanitarie selezionate e convenzionate con l'impresa assicurativa).
Dunque, se è vero che i costi della sistematica intermediazione legale nella rc auto hanno impattato ed impattano in modo anomalo sugli andamenti tecnici del ramo (e, di conseguenza, sul livello dei premi) è altrettanto vero che tra le cause di tale distorsione va ravvisata una insufficiente attività di riqualificazione delle procedure liquidative da parte di quelle stesse imprese che lamentano, a viva voce, l'insostenibilità del fenomeno.
Ebbene, tutte le considerazioni che precedono non sono eccentriche rispetto al tema dell'equo compenso: tutto al contrario, si pongono – rispetto a quello – nei termini sostanziali di un vero e proprio antecedente causale. Ed invero non sembra ci si sbagli troppo nell'affermare che il mondo dell'industria assicurativa della rc auto abbia voluto reagire al problema di cui sopra non intervenendo sui fattori critici poc'anzi esaminati, né provando a ristabilire una miglior relazione etica con i professionisti legali dei danneggiati. Ben al contrario, ciò che si è provato a fare è stato un esercizio di sostanziale compensazione dei maggior costi correlati alle attività dei legali dei danneggiati con una severa contrazione degli onorari riconosciuti ai propri “fiduciari”, incaricati di seguire le liti – soprattutto in fase giudiziale – per conto delle compagnie. Qui, proprio qui, hanno trovato genesi quelle “convenzioni” con cui – sfruttando la propria leva negoziale e muovendosi sulla scia delle liberalizzazioni “Bersaniane” – le imprese assicurative della rc auto hanno inteso regolare, asetticamente, i rapporti con tutti i loro numerosissimi legali di parte, omogeneizzandone, al ribasso, i compensi e sollecitando un'adesione imposta, o comunque proposta in termini di “prendere o lasciare”.
L'effetto, singolare ed un poco perverso, di questa antinomica e bipolare relazione con il mondo legale, si riassume nella poco comprensibile (ma davvero sperequata) distanza tra i compensi riconosciuti – in modo talvolta automatico – agli avvocati (ed anche ai patrocinatori non iscritti, per l'assistenza stragiudiziale…) delle parti danneggiate rispetto a quelli accordati, su base convenzionale, ai propri fiduciari. Il tutto a parità sostanziale di prestazione. O forse neppure, se è vero – come è vero – che i professionisti di parte assicurativa sono normalmente prescelti perchè muniti di competenze specifiche che non sempre si ritrovano tra coloro i quali assistono i danneggiati.
Dove si colloca, dunque, la giusta misura del compenso equo? Forse a metà strada tra le (poco sostenibili) regole tariffarie imposte nelle convenzioni unilateralmente predisposte dalle imprese assicurative e le diverse – e talvolta troppo disinvolte – liquidazioni accordate ai professionisti dell'“attivo”. Il dubbio non è di poco momento: ed anzi coinvolge interessi di così larga scala da dover esser affrontato con urgenza e cautela. Il tutto, ovviamente, considerando l'impatto della novella di legge, che andremo tra breve ad esaminare in sintesi nei suoi contenuti sostanziali e nelle sue potenziali implicazioni interpretative ed operative. Ci sia concessa, comunque, una breve ricognizione storiografica della materia.
Fino all'anno 2006 la regolazione del compenso per l'attività del professionista forense, non altrimenti determinata dalla volontà negoziale delle parti, era disciplinata secondo i criteri stabiliti dall'art. 2233 c.c. e dalle leggi che via via si succedettero nella regolamentazione del principio di base della generazione della tariffa. Il sistema si reggeva sull'assioma, ritenuto elemento essenziale e di garanzia della indipendenza dell'avvocato e della predicabilità del suo ruolo sociale ed etico del quale si è detto, della inderogabilità dei minimi tariffari.
La pulsione liberalizzatrice (per certi aspetti sorprendente ed inusuale nella ispirazione assai protettiva che ancora oggi regge la gran parte delle professioni ordinistiche) sfociò come detto nella legge “balneare” n. 248 del 4 agosto 2006 (di conversione del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006) che abrogò la norma che disponeva l'inderogabilità al ribasso dei minimi tariffari, ammettendo di contro il così detto “patto di quota lite”. La sorte delle tariffe forensi era dunque segnata e le stesse vennero definitivamente abolite con l. n. 27 del 24 marzo 2012 (di conversione dell'art. 9 del d.l. n. 1 del 24 gennaio 2012). La stessa l. n. 27/2012 disponeva che in mancanza di pattuizione, o nel caso in cui si debba procedere alla liquidazione delle spese di soccombenza, il giudice è tenuto a fare riferimento ai parametri stabiliti con decreto del Ministero di Grazia e Giustizia che propone ancora oggi le relative tabelle.
L'abrogazione delle vecchie tariffe aveva dunque scoperto un nervo sensibile e vitale della macchina giurisdizionale, lasciando non regolamentati quei profili tariffari comunque indispensabili al suo corretto e lineare svolgimento.
Con D.M. giustizia n. 140 del 20 luglio 2012 vennero introdotti i parametri tariffari per le professioni ordinistiche e, quanto agli avvocati, i criteri oggi applicabili sono stati introdotti, circa le regole di base dalla legge professionale e, quanto ai valori veri e propri, n. 55 del 10 marzo 2014, su proposta nel CNF e da aggiornare periodicamente. Da ultimo, il D.M n. 37 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 26 aprile 2018, sancisce i nuovi parametri per la liquidazione dei compensi per gli avvocati in seguito alla proposta del Consiglio Nazionale Forense approvata dal Ministero della Giustizia. Tale novità introduce un principio di inderogabilità di un certo rilievo, a prescindere ed a latere della disciplina dell'equo compenso: il divieto di abbassare le (nuove) tariffe oltre ad una certa percentuale pone a carico del professionista un tema dai potenziali impatti e riflessi deontologici e disciplinari. La nuova disciplina in materia di equo compenso: i tratti salienti
Eccoci dunque, e finalmente, all'istituto dell'equo compenso disciplinato dal nuovo art. 13-bis della legge professionale forense (norma dapprima inserita dall'art. 19-quaterdecies, del d.l. 16 ottobre 2017, n. 148 e quindi modificata con la Legge Bilancio 2018 (l. 27 dicembre 2017, n. 205). Si tratta, senza dubbio, di una disposizione chirurgica in quanto mirata e realizzata al precipuo fine di porre rimedio alle specifiche criticità sopra disaminate: quelle proprie del convenzionamenti tariffari sotto il cui cappello i grandi players del mercato assicurativo e bancario hanno, specie negli ultimi anni, omogeneizzato al ribasso le prestazioni dei propri avvocati fiduciari, affievolendo ogni possibilità di negoziazione individuale e di valorizzazione specifica dei singoli apporti professionali.
In verità, pur nata per quello specifico contesto operativo (professioni legali da un lato e comparto bancario e assicurativo dall'altro) la disposizione è stata estesa anche alle prestazioni, in quanto compatibili, degli altri professionisti di cui all'art. 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81 (intendendosi per tali quelli iscritti agli ordini e collegi, purché agli stessi siano applicabili parametri tariffari stabiliti in sede regolamentare). E comunque la nuova disciplina trova applicazione anche nei confronti delle «imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003»(intendendosi per tali le imprese che occupano più di 250 persone od il cui fatturato annuo supera i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo supera i 43 milioni di EUR.)
L'obiettivo dichiarato è, come anticipato, quello di liberare i professionisti convenzionati dal giogo di accordi loro imposti quale ineludibile condizione di accesso alla rete dei fiduciari (soprattutto) di banche e compagnie: vorrà, peraltro, il lettore prender nota che in questo intervento, mirato sulla rc auto, si disaminerà ogni questione al filtro della particolare situazione del settore “contenzioso assicurativo automobilistico”.
In quel settore, invero, dilagano quelle convenzioni che, oggi così diffuse nel loro utilizzo sostanzialmente generalizzato, sono prese di mira dalla nuova norma in modo esplicito. La novella legislativa non riguarda invece eventuali accordi individuali, specificamente negoziati dall'impresa con singoli professionisti. Così recita, infatti, il comma 1 dell'art. 13-bis: «Il compenso degli avvocati iscritti all'albo, nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività di cui all'articolo 2, commi 5 e 6, primo periodo, in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, è disciplinato dalle disposizioni del presente articolo, con riferimento ai casi in cui le convenzioni sono unilateralmente predisposte dalle predette imprese». Dunque la redazione di contratti singoli, anche in assenza di formali convenzioni quadro alle quali ricondurli, non sfugge alla regola dell'equo compenso se non per effetto di una effettiva “personalizzazione” di ciascun singolo contratto e, come detto, dell'effettiva negoziazione dello stesso. Diversamente, assisteremmo ad una troppo facile elusione formale della disposizione Si deve comunque, trattare di convenzioni “unilateralmente predisposte” dalla compagnia assicurativa e quindi sottoposte alla semplice accettazione da parte del legale che intenda aderirvi, senza possibilità di incidere sul contenuto dell'accordo. Prendendo, peraltro, spunto da ciò che avviene nella prassi, il comma 3 dell'art. 13-bis si affretta a chiarire che «le convenzioni di cui al comma 1 si presumono unilateralmente predisposte dalle imprese di cui al medesimo comma salva prova contraria». Tale prova contraria può ritenersi integrata dalla prova della specifica trattativa intercorsa tra le parti nella formazione dell'accordo convenzionale: ciò può desumersi indirettamente dal comma 7, a mente del quale «Non costituiscono prova della specifica trattativa ed approvazione di cui al comma 5 le dichiarazioni contenute nelle convenzioni che attestano genericamente l'avvenuto svolgimento delle trattative senza specifica indicazione delle modalità con le quali le medesime sono state svolte». Al riguardo è appena il caso di osservare che tal disposizione, dettata in tema di clausole vessatorie, risulta in qualche modo acefala: ed infatti, dopo l'intervento di modifica effettuato con la legge di bilancio, il comma 5, a cui la norma si riferisce, non contempla più alcun riferimento alla specifica trattativa (quale modalità di superamento della presunzione di vessatorietà di alcune clausole convenzionali). Più in generale, è interessante rilevare come le modifiche da ultimo apportate (dalla legge di Bilancio) al testo originario dell'art. 13-bis scontino qualche pressapochismo e crassi errori di coordinamento.
Rimane il fatto che per superare la presunzione di “unilaterale predisposizione” della convenzione è alla regola probatoria prevista dal comma 7 che par doversi attingere. Per sostenere che si tratti di un accordo effettivamente negoziato, e non unilaterale, non basterà dunque limitarsi ad affermarlo in contratto, raccogliendo la semplice dichiarazione di conferma del professionista in tal senso. Sarà invece necessario dar atto e ripercorrere i passaggi attraverso i quali quella trattativa si è effettivamente svolta. Né varrà, a raggiungere lo scopo, fornire la semplice prova che la proposta sia pervenuta dal professionista piuttosto che dalla compagnia: non è la paternità dell'iniziativa convenzionale ma l'elaborazione unilaterale dei contenuti dell'accordo ad imporre l'applicazione dell'art. 13-bis. Potrebbe valutarsi la possibilità di ricorrere a schemi convenzionali “aperti” e a contenuto modulare, dal contenuto variegato e componibile, comunque rimesso alla libera opzione dei possibili aderenti, chiamati a scegliere tra le diverse categorie di attività o di servizio richieste (in funzione, magari, delle loro inclinazioni o comprovate esperienze: giudici di prossimità, altri giudici di merito, giurisdizioni di legittimità, tematiche complesse in tema di danno alla persona, problematiche surrogatorie, sinistri esteri e così via). Perché tal soluzione si possa collocare al di fuori dell'ambito di applicazione della nuova disposizione sarebbe necessario che la composizione finale della convenzione rifletta davvero le attitudini e le scelte personali di ciascun singolo professionista: quanto più personalizzato, tanto più l'accordo non potrà dirsi unilateralmente predisposto. Ed a contrario, quanto più di fatto tra loro simili, i singoli contratti – ancorché presentati, ciascuno, quale esito di un percorso di personalizzazione – risulteranno comunque, in concreto, fortemente “orientati” dalle scelte fatte, unilateralmente, dai detentori della leva negoziale. Occorrerà poi distinguere le condizioni generali previste nelle convenzioni dal loro momento esecutivo: nulla vieterebbe di rimettere la determinazione del compenso “incarico per incarico” e dietro presentazione di apposito preventivo. Qui l'eventuale predisposizione unilaterale della convenzione non inciderebbe, ovviamente, sulla tema del compenso ma sulla questione, non sovrapponibile, delle eventuali clausole vessatorie. Anche in questa ipotesi, peraltro, il rilascio di preventivi standard, tutti eguali e tra loro conformi, darebbe luogo alla stessa problematica di cui sopra, tradendo, in fatto, l'esistenza a monte di accordi tariffari convenzionali. Il rango, poi, dell'interlocutore professionale (ove particolarmente elevato) potrebbe deporre per una sorta di presunzione all'incontrario, rafforzando l'idea che l'accordo sia stato effettivamente negoziato.
Ciò posto, le imprese assicurative si trovano innanzi ad un bivio: o personalizzare gli accordi, dando vita a enne negoziazioni individuali non facili a gestirsi sul piano logistico (anche in vista dell'allestimento di sistemi gestionali utili anche nella fase esecutiva degli accordi medesimi), oppure mantenere i “classici” impianti convenzionali, adeguandoli alla regola del compenso equo ed espungendo dal testo le clausole vessatorie indicate dall'art. 13-bis. La ratio delle nuove disposizioni tende – come detto in apertura – ad un difficile obiettivo di ricalibratura e bilanciamento dei rapporti professionali sinallagmatici, con particolare riferimento alla misura dei compensi in relazione alla quantità, qualità e concreto contenuto sostanziale del lavoro svolto (art. 13-bis, comma 2). Ora, quando un compenso può definirsi equo, secondo i parametri indicati dalla nuova legge? Occorre anzitutto sgombrare il campo da equivoci: il riferimento ai parametri tariffari di cui al D.M. n. 55/2014 (riferimenti particolarmente stringenti, attesa la modifica di cui all'art. 1 comma 487 della legge di bilancio 2018 e considerato il requisito di conformità ivi introdotto) non è di per sé esaustivo. Occorre infatti che, pur collocandosi all'interno di questi parametri, il compenso risulti –come accennato – proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale. Tale principio di proporzionalità induce alcune complessità applicative non trascurabili, rendendo disagevole la fissazione di standard retributivi uniformi (magari ai minimi od ai medi della tariffa) a fronte di prestazioni tra loro differenti per contenuto professionale e livello di difficoltà (pur a parità di scaglione di valore). Viene enfatizzata, dunque la necessità che il compenso sia – diremmo eticamente – ragguagliato allo sforzo professionale di volta in volta richiesto. Il che, è bene segnalarlo, oltre ad ispirarsi ai principi di cui all'art. 25 e ss. del Codice Deontologico (nonché alla disciplina codicistica in tema di prestazioni d'opera intellettuale.), vale anche – indirettamente – a richiamare il professionista al rispetto di regole di ingaggio fiduciarie, altamente qualitative (in quanto ragguagliate al rango del proprio impegno professionale) ma non sproporzionate nemmeno a suo vantaggio. In questo senso l'art.13-bis, limita la regola della nullità di protezione (a favore dell'avvocato) al solo tema delle clausole vessatorie: per l'equo compenso, invece, la nullità (parziale, ex artt. 1339 e 1419 c.c.) pare esser rilevabile d'ufficio, e persino a prescindere dal fatto che la sproporzione sia eventualmente a vantaggio dell'avvocato.
Ecco dunque che la ricerca del parametro dell'equità non può esser condotta solo sulla base del “mercuriale di legge”, né tantomeno omogeneizzando (o peggio appiattendo) all'estremo compensi relativi a prestazioni non omogenee per tipologia e impegno richiesto. A tal riguardo, si pone, quale effetto indiretto, la necessità di tener conto quale tertium comparationis il valore di quelle liquidazioni “mercatorie” di cui abbiamo già diffusamente detto poc'anzi: liquidazioni effettuate dalle imprese assicurative non a favore dei loro fiduciari bensì dei patrocinatori degli aventi diritto (specie se terzi danneggiati, a fronte di azioni dirette). A parità sostanziale di prestazione (quelle di assistenza attiva o passiva a fronte di un medesimo sinistro) la prassi di mercato ed il riconoscimento da parte delle compagnie di compensi ai legali di controparte spesso ben più elevati di quelli stabiliti nelle “convenzioni fiduciarie”, ben potrebbe costituire un benchmark di equità a cui riferirsi per ottener dal Giudicante l'applicazione di tariffe più vicine ai livelli massimi che a quelli minimi del D.M. 55/2014, recentemente novellato. Ed invero, la misura degli onorari accordati dalle imprese ai patrocinatori delle loro controparti può ben intendersi come un parametro ritenuto dalle stesse imprese come corretto ed equo (pena il rischio di sentirsi addebitare la violazione di quel fondamentale principio di sana e prudente gestione che pur dovrebbe presidiar la loro attività). Ciò potrebbe comportare effetti davvero insidiosi per i bilanci delle compagnie e per la stessa tenuta di sistemi assicurativi sostenibili.
La testuale formulazione dell'art. 13-bis, comma 2 induce, peraltro, altri dubbi applicativi. Secondo la disposizione, invero, «si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6».
Il requisito della conformità al prescrizioni del DM, introdotto con la legge di Bilancio, sostituisce la più lasca impostazione precedente, a mente della quale il compenso equo doveva semplicemente ragguagliarsi ai riferimenti ministeriali, senza necessariamente conformarvisi. Vien dunque da chiedersi se tal esigenza di conformità sia da leggersi in termini davvero tanto stringenti da non consentire mai, in nessun caso, di collocarsi al di sotto dei minimi di legge. Ovvero se il riferimento alla quantità e qualità del lavoro svolto possano esser considerata non solo in relazione ai singoli incarichi ma anche alla modulazione complessiva dei compensi previsti dalla convenzione (e delle attività, potenzialmente diverse, colà ricomprese). Il che potrebbe autorizzare la fissazione di compensi modulari, in cui all'eventuale contenimento di certi onorari per determinate prestazioni di base corrisponda una miglior valorizzazione di altri (riferiti a prestazioni di rango superiore). Così come l'eventuale garanzia di continuità del rapporto convenzionale (a contenuti sostanziali minimi garantiti) potrebbe giustificare alcuni ribassi tariffari. E' opportuno rilevare che tali formule, pur astrattamente proponibili unilateralmente dalla compagnia, paiono idealmente – e meglio –calarsi in contesti effettivamente negoziati dalle parti. E, come abbiamo visto, la “negoziazione” della convenzione esclude, ove effettiva e dimostrabile, l'applicazione dei nuovi vincoli normativi, almeno in tema di equo compenso. Convenzioni e clausole vessatorie
La riforma di legge, che sin qui è stata considerata quasi esclusivamente sotto il profilo dell'equo compenso riguarda sostanzialmente due ambiti correlati ma distinti: quello, appunto, del corrispettivo e quello delle clausole vessatorie, così come disciplinate in particolare dai commi 4, 5 e 6 dell'art.13-bis. Il comma 4, in particolare, evoca il generale concetto di “significativo squilibrio” sinallagmatico a detrimento della parte “debole” del rapporto negoziale: «Ai fini del presente articolo si considerano vessatorie le clausole contenute nelle convenzioni di cui al comma 1 che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell'avvocato». Eventuali sbilanciamenti di posizione dovrebbero dunque esser valutati, in termini generali, anche tenendo conto dell'ammontare della retribuzione in concreto offerta al professionista.
Il successivo comma 5 specifica poi clausole tipizzate nella loro vessatorietà. Si tratta in particolare delle clausole che consistono: a)nella riserva al cliente della facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto; c) nell'attribuzione al cliente della facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive che l'avvocato deve eseguire a titolo gratuito; d)nell'anticipazione delle spese della controversia a carico dell'avvocato;
Si tratta, dopo la modifica introdotta dalla legge di Bilancio, di pattuizioni ontologicamente vessatorie, a prescindere dalla loro specifica negoziazione e/o approvazione. Il che rende del tutto illogico il perdurante disposto del successivo comma 6, rimasto nella penna del legislatore per un evidente difetto di coordinamento… Per una interessante disamina della casistica ricorrente, e delle clausole che, in odore di vessatorietà, si ritrovano in molte convenzioni oggi in uso si rinvia alla preziosa ricognizione proposta dal Prof. Guido Alpa nel proprio lavoro “L'equo compenso per le prestazioni professionali forensi” (pgg. 7 e seguenti del fascicolo titolato “Seminario pratico di approfondimento e di applicazione della normativa sull'equo compenso” pubblicato a cura del CNF in http://www.consiglionazionaleforense.it/documents/25901/435385/Fascicolo+Equo+Compenso+-+versione+online.pdf/1d61b3e3-bc45-4dab-8f55-632c55f269db). Uno dei temi di maggiore interesse è quello che riguarda l'efficacia delle nuove disposizioni dell'art. 13-bis sui rapporti già esistenti tra compagnie e avvocati. Si tratta di comprendere – lato imprese – quali e quante attività in passato “contabilizzate” o “riservate” a condizioni economiche “favorevoli” (o, comunque, ritenute “eque” prima dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni) possano oggi essere oggetto di potenziale ricalcolo e di pretesa di integrazione del compenso pattuito (o già ricevuto) da parte dei professionisti. Lo stesso ragionamento vale, specularmente e in termini inversi, per gli avvocati che potrebbero domandarsi se esista la possibilità di richiedere una revisione del compenso anche per incarichi, già svolti in parte, conclusi, fatturati e non.
In assenza di una chiara indicazione di legge, diverse sembrano le opzioni interpretative astrattamente percorribili:
Anticipando le conclusioni, quest'ultima lettura della disposizione sembra la più aderente all'interpretazione sistematica e finalistica della stessa. Prima di chiarire il perché, proviamo a comprendere le ragioni per cui le opzioni interpretative precedenti non convincono a pieno. Applicare la regola solo alle convenzioni stipulate successivamente all'entrata in vigore della riforma, oltre a dilazionare oltremodo il termine di efficacia della stessa, creerebbe strane differenziazioni tra legali di compagnia che già abbiano firmato accordi generali con le compagnie e tutti gli altri che entrino in rapporto con le stesse dopo la riforma. Ma, ancor di più, potrebbe condurre al paradossale esito per cui, a fronte di una convenzione di durata poliennale, il professionista resterebbe per anni (per assurdo, un lustro o un decennio) a dover prestare attività a condizioni non eque ai sensi di legge. Il tutto con deroga e contrasto con l'art. 1339 c.c. per cui: «Le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge o da norme corporative, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti».
Non convince, però, nemmeno la tesi per cui siano recuperabili e quindi da ricalcolarsi tutte le attività passate svolte in base a convenzioni (non più) “eque” in termini di compenso. La disposizione di cui all'art. 13-bis ruota intorno all'idea che debba limitarsi il potere forte di compagnie, banche e grandi imprese nel negoziare condizioni contrattuali di loro favore nei confronti dei professionisti. La previsione, peraltro, è in linea con gli artt. 2 e 3 della l. 81/2017 (c.d. Jobs Act per gli autonomi) che già riporta un catalogo di clausole vessatorie nei rapporti tra committente e lavoratori autonomi e che estende l'applicazione dell'istituto dell'abuso di dipendenza economica a questi rapporti. Data questa premessa, pare corretto sostenere che se in passato la negoziazione dei compensi era libera e rimessa alla negoziazione delle parti – salvo forse casi estremi – non parrebbe corretto intervenire a ritroso su contratti che abbiano già esaurito i propri effetti e che non scontavano, al tempo della loro stipula, alcun profilo di contrasto con l'ordinamento. Il tutto salvo sostenere che questa nuova disposizione, almeno per quanto attiene all'equo compenso abbia natura interpretativa autentica (tra gli altri) dell'art. 2233, comma 2, c.c. per cui: «In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione», previsione presto seguita nel comma che segue dal requisito formale della forma scritta per cui: «Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali».
Per quanto attiene alle successive tre letture, in termini di applicazione temporale, dell'art. 13-bis, tutte poggiano sulla convinzione per cui le nuove previsioni trovino applicazione anche per le convenzioni già in essere. In questo senso, al di là delle considerazioni già svolte, depone il comma 3 dell'art. 19–quaterdecies del d.l. 148/2017 (introduttivo nell'ordinamento dell'art. 13-bis della l. 247/2012) per cui, sebbene in tema di rapporti con la PA, si chiarisce che la disposizione vale per ogni incarico (si badi, non “convenzione”) successivo alla nuova regola. Si legge infatti in tale previsione che: «La pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
Le norme in commento in tema di equo compenso sembrano quindi distinguere in termini di “matrice” e “applicazione” tra convenzione e incarico. Se questa lettura fosse accolta, e non si volesse limitare l'applicazione della regola citata alla sola pubblica amministrazione, potremmo dire di avere un argomento letterale forte per sostenere che l'art. 13-bis debba trovare applicazione anche per le convenzioni precedenti alla sua promulgazione e sicuramente per gli incarichi conferiti in esecuzione della stessa successivamente alla sua entrata in vigore.
Più complesso comprendere se la regola possa valere anche per gli incarichi precedenti, ma ancora in corso (dovendosi intendere su cosa si intenda per “incarico in corso”, se quello che richiede di compiere ancora ulteriori attività forensi o quello semplicemente da fatturare). In assenza di precedenti noti, si dovrebbe ragionevolmente escludere che un incarico già concluso (in termini di azioni e compiti) prima della novella legislativa, ma non ancora fatturato all'entrata in vigore della stessa, possa dirsi ancora in corso. Per cominciare, la fattura è un atto unilaterale e ricognitivo dell'avvenuto pagamento (che per assurdo potrebbe essere inadempiuto da parte del professionista). In più, il pagamento presuppone una richiesta in tal senso da parte del professionista, anche questo atto unilaterale e spontaneo del professionista e non nella diretta disponibilità del debitore che altrimenti sarebbe esposto a interessi moratori ex re, per il sol fatto che il proprio legale abbia completato entro una tal data le proprie attività, senza però domandare alcunché. Ammettere, quindi, che la mancata richiesta di pagamento o la mancata fatturazione al tempo dell'entrata in vigore della legge per incarichi già svolti e terminati finirebbe per premiare la mera potestatività e attesa del professionista nel richiedere il dovuto. Più delicato il caso in cui il professionista abbia già richiesto il pagamento prima della novella e la compagnia, in mora, non avesse ancora provveduto al pagamento prima dell'entrata in vigore del 13-bis. Ma anche qui, dato che il legale aveva già richiesto il pagamento degli onorari prima della riforma, non parrebbe peregrino sostenere che proprio tale azione sia riprova dell'avvenuto compimento dell'incarico ricevuto ante nuova normativa sull'equo compenso. Esistono, poi, ulteriori argomenti per sostenere che in presenza di pattuizione a monte sul compenso dovuto per un determinato incarico, in analogia con quanto avviene in materia di preventivo professionale, le parti abbiano già fissato ex ante le rispettive obbligazioni, senza possibilità di rivederne la portata (limitatamente all'incarico conferito) pena il tradimento del convincimento della controparte sul costo dell'assistenza, salvo quello che diremo a breve.
Sussistono dunque validi argomenti per sostenere che la disciplina sull'equo compenso trovi applicazione anche per le convenzioni stipulate antecedentemente alla riforma ma solo per i nuovi incarichi che saranno applicazione delle stesse, potendosi di converso escludere che la stessa esplichi efficacia anche per quelli già esauriti (da intendersi come tali anche quelli per cui manca solo il pagamento o la fattura). Resta da comprendere se la novella possa intervenire pro rata per gli incarichi in essere per cui si debbano compiere ancora attività forensi in ragione del mandato ricevuto (es. eseguire la sentenza, impugnare, …).
Se è vero che il compenso è stato pattuito a monte al tempo dell'incarico, e quindi valgono le giuste considerazioni sull'affidamento di controparte, è vero anche che alcune nuove attività processuali (pur riferite allo stesso incarico precedente alla legge) anche di lungo corso verrebbero ad essere remunerate in modo non equo. Si pensi per assurdo alla durata di un procedimento civile di particolare complessità, in questo caso, si dovrebbe ammettere che il compenso dovuto legato alla chiusura delle attività (che potrebbe avvenire tra qualche anno) sarà ancora regolato da una convenzione nel frattempo divenuta vessatoria e non equa. In assenza di interpretazioni autentiche pare doversi ragionevolmente propendere per questa applicazione pro rata anche agli incarichi precedenti al 13-bis per le attività compiute successivamente all'entrata in vigore dello stesso. In questo senso, sembra deporre anche il dettato normativo richiamato in precedenza in tema di PA nella parte in cui sembra chiarire quanto già ovvio per chi si occupi di attività forense (e cioè che l'incarico non è sempre un unicum, ma l'insieme di tante e diverse attività). Si legga in tal senso il passo per cui: «La pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». La distinzione tra prestazioni rese e incarico in ragione del quale sono rese è evidente. Se, qui, però, il legislatore - per ragioni di buon andamento dell'amministrazione e per non obbligarla a rivedere i bilanci degli enti – sembra tranciante nel riferire l'applicazione ai soli nuovi incarichi professionali, la limitazione non sembra dover operare per le prestazioni ancora da rendere post legge in ragione di incarichi precedenti in favore delle singole compagnie di assicurazione (anche per ragioni di interpretazione sistematica, dato lo specifico riferimento alla sola PA in un articolo in cui si tratta di tutte le convenzioni in essere con compagnie, banche e grandi imprese).
In conclusione, quindi, l'interpretazione più coerente con la ratio e il testo della nuova disposizione in tema di equo compenso e vessatorietà parrebbe essere, almeno in via di prima lettura, quella per cui la stessa trovi applicazione anche per le convenzioni stipulate precedentemente sia per nuovi incarichi sia per le prestazioni ancora da rendere in funzione di incarichi conferiti precedentemente alla novella in commento. Non vi è dubbio, dunque, che la disciplina dell'equo compenso possa recare impatti di assoluto rilievo nel settore della rc auto, inducendo ad una rivisitazione complessiva delle politiche di remunerazione, da parte delle imprese di assicurazione, (non solo) delle proprie reti professionali fiduciarie (ma anche) dei legali attivi nella tutela degli aventi diritto alle prestazioni assicurative risarcitorie o indennitarie.
Sorprende, dunque, che una riforma di tale potenziale impatto non abbia ancora dato vita ad energici scossoni o, quantomeno, a proficui dibattiti volti ad orientare l'applicazione in modo coerente ed utile al sistema (obbligatoriamente) assicurato della rc auto: si tratta, in realtà, di una “ghiotta” occasione per riparare alcune tra le più evidenti distonie settoriali e per cercare nuovi equilibri e calibrature, anche tali da influire, almeno indirettamente, sulla conduzione etica delle liquidazioni a favore dei danneggiati. Il tutto, magari, accordando il giusto peso alle trattative stragiudiziali ed alle procedure di offerta (dentro e fuori l'indennizzo diretto) nonché al possibile ruolo dei professionisti nell'ambito della procedura obbligatoria di negoziazione assistita (d.l. 132 del 2014). Quel che sino ad oggi si è registrato è una sorta di sur place, una attesa singolare di entrambe le parti in gioco (imprese ed ordini) onde comprendere come muoversi in concreto. Ciò ripetesi, per quel che attiene in particolare al settore della rc auto, laddove invece, per quel che attiene ai temi più generali – non può che nuovamente segnalarsi l'esaustivo e profondo commento del Prof. Guido Alpa (l'equo compenso cit.) nell'ambito del seminario pratico organizzato dal CNF lo scorso 18 aprile.
Rimanendo nel solco dei rapporti assicurativi è interessante osservare come il mercato registri qualche voce – lato imprese – orientata a sottovalutare il problema, confidando nella perdurante soggezione - di fatto – dei professionisti al potere contrattuale della compagnia: di talché l'obiettivo del mantenimento del rapporto fiduciario finirebbe per indurre una sorta di acquiescenza, da parte dei legali fiduciari, alle condizioni oggi stabilite negli accordi convenzionali, con conseguente disapplicazione in concreto della norma. Orbene, una tal aspettativa pare del tutto miope e insostenibile.
Non vi è, invero, chi non veda come l'ultima versione della legge (così come modificata dall'art. 1, comma 487, lett. d), legge 27 dicembre 2017, n. 205) ha visto abrogare il comma 9 dell'originaria disciplina, che prevedeva un termine di decadenza biennale (dalla data di sottoscrizione della convenzione) decorso il quale l'azione di nullità non avrebbe potuto esser esercitata utilmente. In assenza di quel termine – che circoscriveva e molto l'orizzonte temporale del rischio di riqualificazione temporale del contratto da parte del professionista – il mantenimento di clausole di compenso inique e dunque potenzialmente nulle, espone le imprese al rischio di sentire dichiarare, anche a distanza di anni (e magari in occasione della prima crisi del rapporto fiduciario…) il diritto dei propri professionisti di ottenere un differenziale tariffario stabilito dal giudice in applicazione a quanto stabilito dall'art. 10 della legge. A mente di tale norma infatti: «Il giudice, accertate la non equità del compenso e la vessatorietà di una clausola a norma dei commi 4, 5 e 6 del presente articolo, dichiara la nullità della clausola e determina il compenso dell'avvocato tenendo conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'art.13, comma 6».
Come ben osservato dalla migliore dottrina, l'azione di nullità non è soggetta a prescrizione (ex art. 1422 c.c.) ed è dunque esperibile liberamente in ogni momento dal professionista: l'eliminazione del blocco decadenziale rafforza il disegno legislativo e l'obiettivo di «conferire pienezza ed effettività alla tutela del lavoro autonomo» esponendo «maggiormente i cd. “committenti forti” al pregiudizio derivante dalla declaratoria di nullità delle clausole vessatorie» (Alpa cit). Trattandosi di nullità di protezione, ed operando “soltanto a vantaggio dell'avvocato” la stessa può esser fatta valere certamente da quest'ultimo e non invece dalla sua controparte contrattuale. Da comprendere se sussista la possibilità, per il giudice, di rilevarla ex officio (ai sensi dell'art. 1421 c.c.), in assenza di esplicita previsione in tal senso da parte del legislatore (a differenza di quanto stabilito dall'art. 36 comma 3 del Codice del Consumo in tema di nullità di protezione).
Al riguardo merita di esser richiamato l'orientamento stigmatizzato dalle Sezioni Unite sin dal 2012 (Cass. civ., Sez. Un. 4 settembre 2012 n. 14828) a mente del quale la nullità di protezione, al pari delle altre nullità negoziali, è diretta funzionalmente alla tutela di interessi generali; tutela che non esclude, ed anzi impone, al Giudice il rilievo d'ufficioso del vizio, sia pur tenendo conto della particolare dinamica protettiva che la governa, lasciando al soggetto (debole) nel cui interesse la nullità è disposta il diritto di scegliere o meno se avvalersene. In questo senso, come ben specificato ancora una volta dalle Sezioni Unite due anni più tardi (Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 2014 n. 26242) deve sostenersi che pur a fronte dell'eventuale rilievo d'ufficio l'avvocato manterrebbe la facoltà di non avvalersene, nonostante la sua invalidità (con il che impedendo al Giudice di dichiararla in sentenza, quand'anche officiosamente rilevata).
Rimane il fatto che la regola della nullità di protezione imprescrittibile, in luogo dell'originaria decadenza (e ferma la sottostante prescrizione decennale del diritto di “ripetizione”) espone le imprese che optino per il mantenimento dello status quo (a fronte di convenzioni non negoziate ed inique) ad un rischio latente davvero importante, in quanto trascinato nel tempo: rischio da non sottovalutarsi, specie in ottica di Solvency 2. Nel pesare tale rischio, comunque non trascurabile, occorre poi interrogarsi quale sia il regime di prescrizione applicabile e da quando il relativo termine decorra.
A parere di chi scrive, la richiesta di applicazione del compenso equo (e di pagamento dei differenziali maturati nel tempo sulla minor tariffa convenzionale), è ontologicamente incompatibile con la prescrizione presuntiva breve triennale di cui all'art. 2956 c.c.: qui la presunzione (di pagamento, oltre la scadenza del termine) non ha ragione d'essere, sussistendo – di base – una presunzione opposta di mancato pagamento di compensi neppure previsti dal contratto tra società e professionista.
Dovrebbe dunque valere la prescrizione ordinaria decennale. E quale il momento di decorrenza? Il momento di compimento della prestazione? Oppure può ipotizzarsi che, lo squilibrio di posizione contrattuale posto a base della disciplina, assoggetti l'avvocato ad una situazione di sudditanza tal da non consentire, in fatto, di far valere – per tutto il pregresso e senza limiti - il proprio diritto in corso di rapporto (diritto, a questo punto, esercitabile soltanto una volta interrotta la relazione con il cliente)? Secondo quest'ultima idea, dunque, i crediti “differenziali” non si prescriverebbero per tutto il periodo di spiegamento del rapporto di lavoro ma sarebbero invece rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto stesso. Ora una tal suggestione trae spunto dai principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di lavoro subordinato (a far tempo dalla nota sentenza della Consulta n. 63 del 10 giugno 1966). Sennonchè ritenere che l'avvocato possa versare in quella medesima condizione di soggezione psicologica in cui si troverebbe il lavoratore, nel rapporto di lavoro subordinato privatistico, ci pare davvero uno sforzo argomentativo tanto spinto da risultare vano.
L'avvocato, per definizione, non può essere equiparato al dipendente e la sua eventuale condizione di soggezione contrattuale va comunque ragguagliata tanto al suo dovere di difendere, anche sotto il profilo deontologico, il decoro e la dignità professionale dell'ordine di appartenenza, quanto alla sua capacità tecnica ed alla sua (almeno teorica) padronanza degli strumento di tutela dei propri diritti contrattuali. Proprio a fronte di tal padronanza, lasciare nella disponibilità del professionista la possibilità di eleggere il momento in cui dar corso alla propria domanda di riqualificazione tariffaria potrebbe aprire la via a condotte speculative non certo commendevoli. E dunque riteniamo che la prescrizione – ordinaria – decorra, ordinariamente, anche in corso di rapporto (laddove lo stesso sia di carattere convenzionale e tal da legare il professionista all'impresa per un dato periodo e per una potenziale pluralità di incarichi).
D'altra parte non possono non considerarsi – lato avvocati – i profili più marcatamente deontologici del loro agire, in conformità ai principi ordinistici, prima ancora che in applicazione della (o in reazione alla) nuova norma in tema di equo compenso. Ed in questo senso non possono non apprezzarsi i recentissimi, autorevoli, passi con cui il CNF ha iniziato ad affrontare il tema, impegnandosi a monitorare il rispetto dei principi di fondo che presidiano la riforma Alla luce di quanto sopra, l'inazione non pare scelta del tutto oculata, anche dal punto di vista delle imprese di assicurazione. Meglio, al contrario, avviare un dialogo, sfruttare il momento e cogliere le indubbie opportunità che la nuova disciplina presenta per affrontare a tutto tondo il complesso problema dell'etica dei servizi legali nel settore della rc auto: siano essi a favore o “contro” le imprese assicurative, purché in ottica di sostenibilità complessiva del sistema obbligatorio, e della funzione sociale, dell'assicurazione automobilistica. Il tutto, alla fine, riportando l'avvocato al centro della sua più autentica vocazione professionale, restituendogli il ruolo di garante di una effettiva (e, perché no?, innovativa) tutela degli interessi a vario titolo coinvolti nella sinistrosità stradale: con ciò provando ad obliterare la triste abitudine ad affrontare la materia (ed i diritti sottostanti) alla stregua di un esercizio a ciclostile di difese precompilate. |