Falso in bilancio: momento consumativo, conti d’ordine, persone offese ed elemento soggettivo

Ciro Santoriello
12 Giugno 2018

Per persona estranea al reato, il cui patrimonio non può essere interessato da un provvedimento di sequestro preventivo o di confisca, deve intendersi il soggetto che presenti questi tre requisiti a) non abbia partecipato alla commissione del delitto, b) non abbia tratto alcun vantaggio dal reato, c) ignori senza colpa che le cose di cui dispone siano il prodotto, il profitto o il mezzo per commettere un reato.
Massima

Per persona estranea al reato, il cui patrimonio non può essere interessato da un provvedimento di sequestro preventivo o di confisca, deve intendersi il soggetto che presenti questi tre requisiti a) non abbia partecipato alla commissione del delitto, b) non abbia tratto alcun vantaggio dal reato, c) ignori senza colpa che le cose di cui dispone siano il prodotto, il profitto o il mezzo per commettere un reato.

Il caso

La Cassazione finalmente pronuncia una decisione sul delitto di falso in bilancio senza affrontare il tema – già più volte venuto all'attenzione della Suprema Corte – della rilevanza penale delle valutazioni mendaci, ma soffermando su altri (pur importanti) profili di tale delitto ovvero l'individuazione del momento consumativo, la definizione dell'oggetto materiale del falso (in particolare, quali voci sono suscettibili di mendacio) ed infine la definizione dell'elemento soggettivo.

Il processo su cui è intervenuta la Cassazione concerneva un'accusa di falso in bilancio – formulata nella vigenza dell'art. 2621 c.c. prima della riforma del 2015 – formulata nei confronti di un amministratore di una S.r.l. il quale, nei bilanci della società relativi agli anni di esercizio fino al 2010, non aveva riportato nel conto d'ordine in calce allo stato patrimoniale, alla voce 'fondo rischi e vari', un rilevante importo, corrispondente al prezzo complessivo della vendita di appartamenti, effettuata negli anni dal 2000 al 2004, in relazione alla quale - in ciascuno dei contratti stipulati - la società aveva assunto l'impegno di prestare tutte le garanzie di legge, compresa la garanzia per evizione e il risarcimento dei danni di qualsiasi natura e specie, da escutere nell'ipotesi in cui la controversia pendente al cospetto del giudice amministrativo avente ad oggetto la legittimità del permesso di costruire si fosse conclusa con l'annullamento del titolo e con la demolizione del manufatto in cui erano collocate le singole unità immobiliari.

In primo grado, l'imputato veniva assolto per insussistenza del fatto in quanto si riteneva che la garanzia prestata dalla società nei confronti degli acquirenti non rientrasse tra quelle indicate dall'art. 2424, comma 3, c.c. - per le quali è previsto l'obbligo di appostazione nel conto d'ordine in calce allo stato patrimoniale -, venendo in rilievo, piuttosto, la garanzia per evizione che il venditore assume normalmente nei confronti del compratore, ai sensi degli artt. 1476, n. 3 e 1483 c.c. e del pari si escludeva che vi fosse un obbligo di iscrizione dell'importo del prezzo complessivo degli appartamenti discendente dalla norma di cui all'art. 2424-bis, comma 3, c.c. - che impone l'esposizione nello stato patrimoniale degli accantonamenti per rischi e oneri -, atteso che la pendenza di un giudizio di impugnazione avverso la sentenza del TAR che aveva annullato la concessione edilizia e la sospensione dell'efficacia della sentenza di annullamento adottata dal Consiglio di Stato non consentivano di ravvisare nella fattispecie una perdita o un debito certi di natura determinata o, comunque, di esistenza certa o probabile, che soli legittimano l'iscrizione dell'accantonamento in vista della loro copertura.

Questa conclusione veniva “ribaltata” in appello, laddove, pur dichiarandosi l'intervenuta prescrizione del reato, l'imputato era condannato al risarcimento del danno in favore delle parti civili, ritenendosi sussistendo in capo all'amministratore l'obbligo di iscrizione dell'importo del ricavato della vendita degli appartamenti, sia ai sensi dell'art. 2424, comma 3, c.c. che a norma dell'art. 2424-bis c.c. In particolare, la Corte d'appello osservava come la garanzia che la società si era impegnata a prestare nei confronti degli acquirenti all'atto della sottoscrizione dei contratti di compravendita non era quella per evizione tipica - prevista dagli artt. 1476 n. 3 e 1483 c.c. -, ma una atipica e ulteriore, assimilabile alle garanzie prese in considerazione dall'art. 2424, comma 3, c.c. ed inoltre l'impegno contrattualmente assunto dalla società venditrice per l'ipotesi che gli acquirenti avessero subito lo spossessamento dei beni immobili acquistati era, in ogni caso, rilevante ai sensi dell'art. 2424-bis, comma 3, c.c., posto che prudentemente l'amministratore avrebbe dovuto iscrivere nello stato patrimoniale l'ammontare complessivo del prezzo degli appartamenti sotto la voce 'accantonamenti per rischi e oneri', dal momento che la perdita che la società avrebbe potuto subire a seguito dell'accertamento definitivo della illegittimità della concessione e dell'ordine di demolizione del manufatto, con conseguente attivazione delle garanzie prestate in favore dei singoli acquirenti, doveva ritenersi se non certa almeno probabile atteso l'iter del contenzioso amministrativo.

La sentenza era impugnata in cassazione lamentandosi in primo luogo che il reato si era estinto per prescrizione in data anteriore alla pronuncia di primo grado: la contravvenzione di cui all'art. 2621 c.c. – si ricorda che i fatti si sono svolti prima della riforma del 2015 - doveva considerarsi un reato istantaneo, suscettibile di consumarsi in relazione a ciascun esercizio al momento del deposito del bilancio, con la conseguenza che, poiché le vendite avevano avuto luogo sino al 2004, l'ultimo dei fatti in contestazione si era consumato al più tardi il 30 aprile 2005, essendo irrilevanti (ai fini dell'individuazione del momento consumativo del reato) eventuali successive dichiarazioni di conferma della comunicazione falsa, che non integrano nuova violazione della medesima disposizione di legge, né, tantomeno, rilevano agli effetti della continuazione o della permanenza – per cui la reiterazione delle omissioni contestate nei bilanci relativi agli anni di esercizio successivi al primo doveva considerarsi inidonea ai fini della consumazione di ulteriori reati di cui all'art. 2621 c.c.. Veniva inoltre contestato l'obbligo di iscrizione delle garanzie prestate dalla società venditrice a favore degli acquirenti, le quali non erano di matrice autonoma e volontaria, alla stregua delle fideiussioni o degli avalli o delle garanzie reali prese in considerazione dall'art. 2424, comma 3, c.c., ma costituivano l'oggetto delle obbligazioni connaturate al contratto di compravendita, con la conseguenza che le stesse avrebbero comunque operato, trovando la loro fonte nella legge, ancorché non fossero state esplicitate negli atti negoziali; del pari i suddetti impegni contrattualmente assunti non avrebbero imposto all'amministratore alcun obbligo di iscrizione degli accantonamenti per rischi ed oneri, atteso che la perdita cui si riferisce la norma di cui all'art. 2424-bis, comma 3, c.c. è quella determinata da una situazione diversa e ulteriore rispetto a quella conosciuta dalle parti al momento della stipula del negozio, suscettibile, appunto, di trasformare in perdita la garanzia prestata. Veniva poi denunciata una carente motivazione con riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo, anche alla luce della particolare pregnanza con cui l'atteggiamento volontaristico era descritto nella previgente previsione normativa. Da ultimo, si evidenzia come fosse da escludere il risarcimento in capo alle parti civili in quanto costoro avevano agito come creditori dell'impresa da cui promanava il bilancio asseritamente mendace ed i creditori non figurano tra i soggetti suscettibili di ricavare nocumento dalle condotte tipizzate nell'art. 2621 c.c. - tra questi avendo il legislatore individuato esclusivamente i soci e il pubblico -, poiché a tutela delle lesioni patrimoniali subite dai creditori della società era stato previsto il delitto di cui all'art. 2622 c.c. e dal tenore della sentenza impugnata non emergeva neppure quale fosse il collegamento eziologico tra il mendacio bilancistico per omissione contestato all'imputato e il danno patrimoniale subito dalle parti civili concludenti.

Le questioni

Le questioni affrontate nei ricorsi per cassazione sono diverse e, nonostante come detto più volte, la decisione sia stata emessa con riferimento alla previgente disciplina in tema di falso in bilancio, esse presentano ancora un significativo interesse.

Quanto al profilo attinente il momento consumativo del reato di falso in bilancio, è pacifico che il reato di falso in bilancio abbia carattere istantaneo e si perfezioni, di massima, nel momento in cui la comunicazione ed il suo contenuto fuoriescono dalla sfera di disponibilità dell'autore per rendersi fruibile ai suoi destinatari. In tal senso, mentre nel caso di comunicazioni orali il momento consumativo del reato in discorso coincide praticamente con quello stesso della dichiarazione, nel caso di comunicazioni scritte non è sufficiente per la realizzazione dell'illecito la semplice formazione del documento ideologicamente falso laddove il documento medesimo sia poi rimasto nello esclusivo dominio dei suoi autori.

Sulla scorta di quanto affermato, dunque, occorre ritenere che il delitto in parola si perfeziona solo nel momento in cui l'atto viene messo a disposizione di coloro cui è destinato, mentre non è indispensabile la conoscenza effettiva di tale documento, circostanza che del resto sarebbe difficile da dimostrare considerata la massa indeterminata di destinatari che possono essere interessati alla lettura di tale atto. D'altronde che il delitto in parola si consumi una volta assicurata la potenziale conoscibilità dell'atto è conclusione è coerente con la natura di reato di pericolo che assume tale illecito ed effettivamente la messa a disposizione del bilancio è sufficiente incidere, appunto nella forma del pericolo, sul bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice - senza che sia necessario che i destinatari della comunicazione siano stati tratti effettivamente in inganno, né tanto meno che, in conseguenza della frode, abbiano compiuto atti dispositivi pregiudizievole.

La messa a disposizione dell'atto va garantita attraverso l'assunzione delle tipiche forme prescritte in proposito dalla normativa, nel senso che occorre che il bilancio sia depositato a norma di legge perché solo in tal modo i soci ed i terzi vengono legalmente a conoscenza del suo contenuto; in particolare, è da ritenere sufficiente che il progetto del bilancio sia depositato presso la sede della società giacché è a partire da tale momento, sia pure solo con riferimento alla posizione dei soci, che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale è posto significativamente in pericolo. Stante tale considerazione in ordine al momento consumativo del delitto è da ritenere che quando nell'assemblea dei soci convocata per l'approvazione definitiva del bilancio gli amministratori forniscano chiarimenti o replichino a richieste di chiarimenti formulate dai soci, ribadendo il (contenuto del) falso presente nella bozza di bilancio di cui si chiede l'approvazione, le affermazioni mendaci degli amministratori non integrino una nuova fattispecie di reato, ma rappresenti un mero post factum non punibile.

Quanto all'elemento soggettivo richiesto per la sussistenza del reato di falso in bilancio, oggetto di discussioni e polemiche fin dall'ormai risalente introduzione di tale delitto nel nostro ordinamento (NAPOLEONI, I reati societari. III. Falsità nelle comunicazioni sociali ed aggiotaggio societario, Milano 1996, 316, nonché LA MONICA, Manuale di diritto penale commerciale, Milano 1993, 670), il legislatore del 2001, in occasione della riscrittura degli artt. 2621 e 2622 c.c., richiese la sussistenza in capo all'agente di un dolo specifico intenzionale, tipizzato dall'espressione “con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, il quale andava ad aggiungersi ovviamente al dolo generico avente ad oggetto gli elementi strutturali del fatto – e cioè la volontà di esternare, secondo le modalità descritte, dati contabili mendaci, nonché quella di arrecare un danno alle persone offese rientranti nelle categorie indicate dalla norma (Nel senso che “la soluzione di forte delimitazione della fattispecie incriminatrice anche sul piano soggettivo attraverso la costruzione di un dolo dai contorni precisi, va[da] inquadrata nella iper-reazione legislativa ad anni di incertezze giurisprudenziali che avevano reso evanescente qualunque capacità selettiva dell'avverbio ‘fraudolentemente'”: MUSCO, I nuovi reati societari, Milano 2002, 63).

Secondo la maggioranza della dottrina, nel delitto in parola, accanto al dolo specifico attinente il profilo decettivo della comunicazione, la norma – facendo uso di una formula linguistica presente in molte altre fattispecie criminose presenti nel nostro ordinamento, come ad esempio per il delitto di furto ex art. 624 c.p. - espressamente richiedeva anche la sussistenza di una volontà di trarre profitto dalla condotta di falso (FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622), in I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di Giarda e Seminara, Cedam, 2002, 272; ROSSI, Illeciti penali nelle procedure concorsuali, Giuffrè, 2014, 284; AMBROSETTI-MEZZETTI-RONCO, Diritto penale dell'impresa, Zanichelli, 2012, 142), mentre secondo la giurisprudenza era necessario – oltre al dolo generico (rappresentazione del mendacio) e al dolo specifico rispetto ai contenuti dell'offesa, qualificata da ingiusto profitto – il “dolo intenzionale” di inganno dei destinatari, per cui, ad esempio, si è ritenuto sussistere il dolo intenzionale (nei confronti dei creditori) nella rappresentazione tranquillizzante dello stato finanziario della società quando invece la stessa era sommersa da debiti e da impellenti ingiunzioni, e il soggetto agente era stato costretto a ricorrere ad espedienti rischiosi pur di lucrare qualche garanzia e l'allargamento del fido (Sez. V, 24 novembre 2010, n. 2784, in C.E.D. Cass., n. 249258). In ogni caso, la descrizione dell'elemento soggettivo introdotta nel 2002 – ed in particolare l'utilizzo dell'espressione “intenzione” – impediva in modo radicale di far ricorso, per consentire l'applicazione della sanzione penale, alla categoria del dolo eventuale, il che presumibilmente era il principale obiettivo che il legislatore dell'epoca intendeva perseguire, soprattutto per evitare non tanto la responsabilità dell'autore materiale, ma piuttosto degli altri componenti degli organi collegiali che avessero adottato le delibere nelle quali era contenuta l'informazione falsa (ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, Bologna 2010, 284).

Con la riforma del 2015, il legislatore, per certi aspetti, pare aver confermato la scelta, risalente al 2002, di descrivere con maggior rigore l'elemento soggettivo necessario per la sussistenza del reato de quo, ma al contempo ha ritenuto di dover rinunciare alla presenza di un dolo (intenzionale) di inganno, elemento che d'altronde appariva ridondante e superfluo sul piano della tipizzazione già in precedenza per effetto del momento soggettivo insito nel requisito delle modalità idonee a indurre altri in errore. Il delitto di false comunicazioni sociali oggi contempla dunque, accanto al dolo generico, il fine specifico di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto; erede dell'originario avverbio “fraudolentemente” di cui appunto la finalità di ingiusto profitto costituiva secondo la tradizionale interpretazione un aspetto insieme agli altri due rappresentati dall'intento ingannatorio (animus decipiendi) e di danno (animus nocendi).

L'elemento di novità di maggiore spessore è comunque rappresentato dalla comparsa nella disposizione dell'avverbio “consapevolmente”, il quale “non deve essere considerato tautologico, un mero doppione del concetto di rappresentazione/previsione, ma svolge un ruolo nella corretta interpretazione della disposizione incriminatrice” (GAMBARDELLA, Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali: fra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, in Cass. Pen., 2015, n. 218.3, par. 10).

In primo luogo, la nuova previsione incriminatrice, riferendosi l'espressione "consapevolmente" all'atteggiamento interiore del soggetto agente – unitamente al fatto che la norma richiede poi che la condotta abbia una concreta idoneità ad ingannare -, indica chiaramente che il legislatore, diversamente da quanto si sosteneva nella vigenza dell'art. 2621 del 1942, ha inteso separare il profilo fraudolento e decettivo della comunicazione dalla volontà ingannatoria che deve caratterizzare la volontà dei redattori del bilancio. Ciò significa che, ai fini dell'integrazione del delitto di false comunicazioni sociali, occorre in primo luogo che il soggetto voglia esporre o occultare la presenza di fatti non veritieri ma altresì che sia al contempo consapevole che tale condotta di mendacio è assunta in maniera idonea ad indurre altri in errore: per pronunciare una decisione di condanna dunque occorre anche dimostrare la consapevolezza, sotto il profilo soggettivo, della circostanza che il bilancio è stato redatto in maniera significativamente fraudolenta, in grado dunque da influire sulla corretta e cosciente autodeterminazione dei destinatari della comunicazione sociale (Contra, MUCCIARELLI, Le nuove false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., 21, secondo cui "gli estremi del tipo di relazione ai quali la norma ora richiede una consapevolezza piena e certa sono proprio quelli attinenti all'esposizione non conforme al vero o falsa per reticenza, non altrettanto può dirsi in ordine alla idoneità ricettiva. Quest'ultimo estremo, oltre ad essere separato dall'avverbio "consapevolmente" da una, (che segnala l'autonomia del sintagma), concerne una modalità della condotta in ci correlata con la falsità, che però non deriva immediatamente dal comportamento dell'agente stesso: sicché uno stato di dubbio circa la concreta idoneità dei ricettiva non pare bastevole a far venir meno al momento rappresentativo del dolo").

In secondo luogo, proprio la ritenuta necessità che il dolo del singolo investa anche l'idoneità ricettiva della comunicazione comporta che il soggetto agente debba sapere di esporre notizie dati mendaci inerenti - non da qualsiasi circostanza della persona giuridica da lui amministrata, ma - vicende di particolare rilevanza, la cui corretta conoscenza e cioè essenziale per i lettori del bilancio per comprendere quali siano le condizioni economiche, patrimoniali e finanziarie della società.

Come detto, nella nuova formulazione della norma non compare il richiamo all'intento di trarre profitto dalla condotta di falso. Tuttavia, non si tratta di una modifica di particolare rilevanza, sia in quanto il dolo specifico di trarre profitto è normalmente insito in una condotta di falso esposizione di dati economici e sia perché quale che sia l'intento che il soggetto agente persegue esso si colora di illiceità per il solo fatto di essere perseguito con uno strumento antigiuridico.

Il punto centrale dell'innovazione è comunque rappresentato dalla circostanza che, comparendo dalla norma l'avverbio "consapevolmente" per descrivere l'atteggiamento soggettivo del responsabile del falso, deve ritenersi esclusa la possibilità di far ricorso, qualora si voglia prevenire ad una decisione di condanna, alla discussa categoria del dolo eventuale. Evidentemente, parlare di dolo eventuale con riferimento ai soggetti che materialmente redigono il bilancio e che quindi provvedono alla redazione dello stesso era conclusione già insostenibile nella vigenza della disciplina del delitto di false comunicazioni sociali risalente al 1942: per costoro infatti, proprio perché autori del mendacio, non ha senso sostenere che gli stessi si sarebbero semplicemente rappresentati l'eventualità che i dati economici che andavano a comunicare non fossero veritieri; a maggior ragione, tale conclusione vale con riferimento ai titolari di una funzione di controllo - quali ad esempio i componenti del collegio sindacale o i componenti del consiglio di amministrazione privi di deleghe esecutive e comunque estranei alla predisposizione del bilancio -, per il cui riconoscimento di una responsabilità penale è richiesta una consapevolezza piena e certa circa la sussistenza di estremi del fatto tipico, con il che si deve ritenere che "le situazioni nelle quali l'agente versi in uno stato di dubbio implicano perciò solo il venir meno del momento rappresentativo del dolo” (MUCCIARELLI, Le nuove false comunicazioni, cit., 21; SEMINARA, La nuova riforma in tema di delitto contro la pubblica amministrazione, associazioni di tipo mafioso e falso in bilancio. La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. Pen. Proc., 2015, 783), superando in tal modo tesi giurisprudenziale che attribuiva rilevanza ai cosiddetti "segnali di allarme", posto che “tutte le volte nelle quali situazioni di non univoca interpretazione si presentano alla gente, fomentando il dubbio, l'accertamento giudiziale dovrà riconoscere il venir meno del dolo, con la conseguenza – facilmente pronosticabile – che i già malcerti criteri di apprezzamento dei citati “segnali d'allarme” mostreranno ancor di più la loro inadeguatezza” (MUCCIARELLI, Le nuove false comunicazioni, cit., 21).

Le soluzioni giuridiche

La decisione della Cassazione accoglie le censure difensive con riferimento al solo profilo inerente l'omessa motivazione circa la sussistenza dell'elemento soggettivo, giacché la Corte Suprema trova insufficiente argomentare sul punto sostenendo semplicemente che la prova del dolo che aveva animato il soggetto agente doveva ricavarsi implicitamente dal rilevante importo del dato contabile taciuto. Richiamando arresti giurisprudenziali precedenti, i giudici di legittimità osservano – con affermazioni che mantengono la loro attualità anche con riferimento alla nuova versione dell'art. 2621 c.c. che descrive l'elemento soggettivo in termini decisamente meno pregnanti rispetto al passato – che nel delitto di falso in bilancio il dolo non può ritenersi provato sulla scorta della sola violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio, né può ravvisarsi nello scopo di far vivere artificiosamente la società, dovendo, invece, essere desunto da inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili.

A prescindere da tale aspetto, maggiore interesse rivestono però gli altri profili presi in considerazione nella decisione in parola. In primo luogo, va evidenziato come la Cassazione, nel respingere l'eccezione di prescrizione avanzata dalla difesa, nega che la reiterazione in bilanci successivi di una informazione mendace già presente in bilanci anteriori rappresenti una sorta di post factum non punibile e ciò in quanto le informazioni societarie che hanno ad oggetto dati contabili riferibili ad entità economicamente valutabili, suscettibili di incidere sulla situazione patrimoniale dell'azienda anche negli anni di esercizio successivi a quello in cui l'entità è venuta ad esistenza, devono essere necessariamente riportate nei documenti societari che si rivolgono ai soci e al pubblico, onde consentire ai predetti destinatari di compiere consapevolmente le proprie scelte nei rapporti con l'impresa. In sostanza, la reiterazione della falsità in più bilanci comporta la commissione di una pluralità di violazioni della fattispecie incriminatrice dell'art. 2621 c.c. e ciò in quanto ogni bilancio è, in relazione alle comunicazioni in esso contenute, suscettibile di ingannare i lettori dello stesso e ciò a prescindere che il medesimo mendacio fosse già presente nei bilanci presentati negli anni precedenti.

Proprio alla luce di questa concezione funzionale e dinamica del bilancio – che comporta, come detto, la penale rilevanza di una reiterazione in più comunicazioni del medesimo falso -, può apprezzarsi, secondo la Cassazione, anche la valenza significativa della corretta informazione circa l'esistenza di un credito vantato da terzi nei riguardi della società, il cui adempimento è di pertinenza degli esercizi successivi (la Corte fornisce un esempio di tale considerazione richiamando l'interesse alla trasparente ostensione di tale posta passiva di un istituto creditizio che deve erogare un finanziamento alla società e che ha necessità di conoscere l'esatto ammontare del patrimonio sul quale poter fare affidamento a garanzia del rientro della somma da finanziare), sicchè l'omessa ostensione di dati contabili imposti per legge, suscettibili di incidere sulla consistenza del patrimonio dell'impresa nel tempo, e quindi anche negli esercizi successivi rispetto all'esercizio in cui i valori economici sono venuti ad esistenza - quali quelli riferiti alle garanzie assunte dalla società nei confronti degli acquirenti degli appartamenti da essa venduti -, è suscettibile di integrare singoli reati istantanei di falso in bilancio, riferiti a ciascun anno di esercizio, fino al momento in cui la condotta reticente non venga a cessare. Per questa ragione, secondo la Cassazione, le garanzie assunta dalla società nei confronti degli acquirenti delle singole unità immobiliari, per l'ipotesi che questi avessero dovuto subire lo spossessamento dei beni immobili acquistati per effetto del definitivo accertamento della illegittimità del permesso di costruire rilasciato alla società venditrice – a prescindere dalla circostanza che tali garanzie fossero o meno assimilabili alla garanzia per evizione di cui agli artt. 1476 n. 3 e 1483 c.c. – dovevano essere inserite nello stato patrimoniale tra 'gli accantonamenti per rischi e oneri' destinati a coprire perdite e debiti di esistenza certa o probabile indeterminati nella data di sopravvenienza ai sensi dell'art. 2424-bis, comma 3, c.c.

Quanto alla possibilità che i creditori di una società che redige un bilancio falso possano essere danneggiati da tale condotta, la sentenza – pur censurando la decisione di merito nella parte in cui non spendeva alcuna parola in ordine alle ragioni per le quali si dovesse ritenere che il danno patrimoniale lamentato dalle parti civili derivasse dalla mancata ostensione in bilancio dei dati contabili relativi alle garanzie contrattualmente assunte o degli accantonamenti prudenzialmente effettuati dall'amministratore e non dall'inadempimento della garanzia per evizione – ribadisce (sulla scorta dell'insegnamento delle S.U., 31 marzo 2016, n. 22474) che tra i destinatari del bilancio suscettibili di ricevere un nocumento dalle condotte di falsificazione delle informazioni societarie essenziali e rilevanti previste e punite dall'art. 2621 c.c., figurano non solo i soci e il pubblico ma anche i creditori delle compagini imprenditoriali esercitate in forma collettiva, deve riconoscersi che nella sentenza impugnata.

Conclusioni

La decisione in commento merita deciso apprezzamento, giacché le risposte che la Cassazione ha fornito ai plurimi profili esaminati sembrano tutte corrette e conformi tanto alle tesi prevalenti in dottrina che a consolidati orientamenti della giurisprudenza.

In particolare, particolarmente condivisibili sembrano le riflessioni che i giudici di legittimità dedicano alla funzione del bilancio quale strumento con cui l'impresa porta a conoscenza di terzi non solo lo stato attuale delle condizioni economiche, patrimoniali e finanziarie dell'azienda, ma anche le prospettive future della stessa (nelle parole della Cassazione: “lo 'Stato Patrimoniale' è chiamato a fornire una "fotografia" del capitale dell'azienda, rappresentandone, si, la situazione istantanea alla data di bilancio, ma evidenziandone anche …la destinazione [per cui] il bilancio nel suo complesso deve essere redatto in ossequio ai principi di continuità, di prudenza e di competenza, proprio allo scopo di realizzare la funzione di rispecchiare, in maniera fedele, la situazione economica, finanziaria e patrimoniale di un'azienda destinata a protrarre la sua attività negli anni successivi”). La conseguenza di tale impostazione è, dunque, che l'obbligo di veridicità del bilancio deve riguardare non solo le vicende passate dell'azienda e le conseguenze economiche e finanziarie che sono derivate da attività già poste in essere e che hanno esaurito i loro effetti sul patrimonio dell'azienda ma anche le informazioni societarie che hanno ad oggetto dati contabili riferibili ad entità economicamente valutabili, suscettibili di incidere sulla situazione patrimoniale dell'impresa anche negli anni di esercizio successivi a quello in cui l'entità è venuta ad esistenza, la cui conoscenza è indispensabile per i lettori della comunicazione sociale onde compiere consapevolmente le proprie scelte nei rapporti con l'impresa.

Evidentemente, mentre la rappresentazione degli effetti economici già venuti in essere sarà agevole, in quanto si tratterà semplicemente di riprodurre in valori numerici tali risultati, nel caso di una rappresentazione delle prospettive future dell'azienda si tratterà essenzialmente di esplicitare in bilancio – ed in particolare nello stato patrimoniale e nella nota integrativa – delle valutazioni delle quali però è comunque possibile – come riconosciuto dalle Sezioni Unite – predicare un giudizio di falsità ed irragionevolezza (Cass., sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474).

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