Tutela in caso di licenziamento illegittimo per mancato repechage e discrezionalità del giudice nell’applicare la tutela reale attenuata
14 Giugno 2018
Massima
“La verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento" concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore; pertanto la "manifesta insussistenza" va riferita ad una evidente e facilmente verificabile assenza di detti presupposti, a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui all'art 18, co. 4, ove tale regime non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”. Il caso
La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, correlato all'avvenuta riorganizzazione aziendale mediante esternalizzazione del servizio ove era assegnata la lavoratrice, in cui il giudice del merito, accertata l'“insufficienza probatoria” con riguardo all'adempimento dell'obbligo di repechage, ha applicato la tutela indennitaria “forte” di cui all'art.18, co. 5, L. n. 300/1970. Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, assumendo che la violazione dell'obbligo di repechage avrebbe dovuto essere sanzionata con la tutela reale “attenuata” di cui all'art.18, co. 4, L. n. 300/1970, sul presupposto che tale obbligo costituirebbe un requisito essenziale di legittimità del licenziamento, la cui mancanza integra una ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto” posto a base del recesso datoriale, ai sensi e per gli effetti di cui all'art.18, co. 7, L. n. 300/1970. La questione
La questione da esaminare è se ed in che termini nella scelta della tutela applicabile in caso di illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'inosservanza dell'obbligo di repechage da parte del datore di lavoro possa integrare un'ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto”, idonea a consentire l'applicabilità della tutela reintegratoria “attenuata” di cui all'art.18, co. 4, L. n. 300/1970. Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento si inserisce in una questione assai dibattuta in dottrina e giurisprudenza in ordine alla interpretazione dell'art. 18, co. 7, L. n. 300/1970, così come modificato dal co. 42 dell'art. 1 della Legge n. 92/2012. Come è noto, la predetta disposizione prevede la reintegra come sanzione solo eventuale, a cui il giudice “può” accedere solo nel caso in cui accerti “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, con residuale applicazione generalizzata della tutela indennitaria “forte”, di cui all'art.18, co. 5, della Legge n. 300/1970. Si tratta dunque di interpretare a cosa il legislatore abbia inteso riferirsi con l'espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. L'art. 18, co. 7, cit., non aggiunge alcuna specificazione limitandosi ad indicare come “fatto” quello posto a base del licenziamento, senza tuttavia tener conto del fatto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede non solo la presenza di una ragione economica non contingente a base della riorganizzazione aziendale, ma anche la sussistenza di un nesso di causalità tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro del lavoratore licenziato e l'impossibilità di una ricollocazione di quest'ultimo in mansioni equivalenti (o anche inferiori, in caso di patto di demansionamento).
Ebbene, in disparte la considerazione diffusa in dottrina secondo cui l'espressione “manifesta insussistenza” sarebbe inutilmente ridondante, atteso che i fatti o esistono o non esistono, per cui, sul piano logico, nulla distingue un fatto insussistente da uno manifestamente insussistente, deve in questa sede evidenziarsi come la norma di cui all'art.18, co. 7, Legge n. 300/1970 si presenti di problematica interpretazione, nel momento in cui pone in comparazione concetti tra loro non del tutto omogenei, laddove fa riferimento, da un lato, alla insussistenza del “fatto” indicato nella comunicazione di licenziamento (che, se manifesta, consente la tutela reintegratoria “attenuata”) e, dall'altro, alle residuali ipotesi di insussistenza del “giustificato motivo oggettivo” (che danno luogo alla sola tutela risarcitoria). In un simile contesto, si è detto che un ruolo fondamentale va attribuito alla collocazione del repechage nella prima ovvero nella seconda alternativa (fatto materiale o sua valutazione giuridica).
Secondo un primo orientamento, nel “fatto posto a base del licenziamento” sarebbero sussumibili esclusivamente le circostanze relative alle ragioni produttive-organizzative ed alla soppressione del posto (ovviamente legate dal relativo nesso causale): pertanto, se tali circostanze risultano manifestamente insussistenti (nel senso di una loro evidente e significativa “inconsistenza”, quantitativa e qualitativa, così come risultante dalla prova a carico del datore di lavoro ed anche per quanto riguarda la sua intrinseca idoneità a giustificare il licenziamento) potrà operare la tutela reintegratoria (in tal senso, Trib. Milano, 5 novembre 2012 e 29 marzo 2013, Trib.Genova 14 dicembre 2013).
Invece, nelle “altre ipotesi” in cui si accerti che comunque “non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo” andrebbero annoverate le violazioni dell'obbligo di repêchage e dei criteri di scelta, che daranno luogo alla tutela meramente risarcitoria. Ciò in quanto, diversamente opinando, il “fatto posto a base del licenziamento” finirebbe con il coincidere con lo stesso giustificato motivo oggettivo, in tal modo sostanzialmente privando di contenuto l'alternativa sopra descritta e la correlata graduazione delle tutele, dando ingresso inevitabilmente alla sola tutela reintegratoria, con una interpretatio abrogans della bipartizione voluta dal legislatore. Secondo tale impostazione, in altri termini, l'espressione “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” si riferirebbe all'ipotesi in cui il datore di lavoro abbia addotto motivi economici inesistenti nella comunicazione del licenziamento (fatto dal quale esula ogni valutazione circa il rispetto del repechage e l'applicazione dei criteri di correttezza e buona fede), mentre la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo sarebbe riferibile al caso in cui, pur in presenza di validi motivi economici, il datore di lavoro non abbia rispettato le altre regole che rientrano nella nozione di giustificato motivo oggettivo circa la possibilità di reimpiegare altrimenti il lavoratore e circa il rispetto degli artt. 1175 e 1375 c.c. (v. Tribunale Milano, ord. 28 novembre 2012; Tribunale Roma, ord. 8 agosto 2013; Tribunale Modena, ord. 26 giugno 2013).
Altro orientamento, invece, muovendo dal presupposto della perdurante validità del principio del licenziamento per motivi economici quale extrema ratio, ha ritenuto di attribuire all'obbligo del repechage carattere costitutivo dell'esistenza stessa del giustificato motivo oggettivo, imponendo, in caso di sua violazione, la reintegra. Secondo tale impostazione, l'obbligo di repechage rappresenta un “elemento costitutivo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo”, con la conseguenza che, qualora venga accertata la sua violazione, la fattispecie si colloca nell'area della “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento. Si è sostenuto pertanto che il repechage, “in quanto attinente alla dimensione del “fatto” organizzativo, rimane coessenziale alla valutazione della “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: se il repechage è possibile, il fatto posto a base del licenziamento dovrebbe essere valutato come manifestamente insussistente”.
Il carattere manifesto dell'eventuale insussistenza del fatto afferirebbe pertanto anche all'aspetto della non ricollocabilità del lavoratore in altro posto in azienda, configurandosi il repechage (cui è equiparabile la violazione dei doveri di correttezza e buona fede) quale elemento costitutivo dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, la cui violazione imporrebbe dunque la tutela reintegratoria (v. Tribunale Reggio Calabria, sez. lav., 03/06/2013). Osservazioni
Con la sentenza in commento, la Corte di vertice ha aderito alla seconda delle impostazioni sopra descritte, evidenziando che, nell'intento di delimitare la portata applicativa del settimo comma dell'art. 18 cit., “nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra […] sia l'esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”, per cui “il riferimento legislativo alla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”.
In tale prospettiva, può quindi affermarsi che la sussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” va valutata (anche) sulla base del rispetto, da parte datoriale, dell'obbligo di reinserimento del lavoratore in altro ambito organizzativo compatibile dell'impresa. Tale impostazione delinea il licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio, subordinata all'impossibilità per il datore di lavoro di attribuire al lavoratore una posizione lavorativa di pari livello professionale (o anche, con il consenso del lavoratore, di un livello inferiore, qualora ciò costituisca l'unica alternativa possibile al licenziamento) (v., sul punto, Trib. Larino, 18.10.2014).
La Suprema Corte, oltre ad aver chiarito che l'obbligo di repechage va correttamente collocato nell'ambito del “fatto” la cui insussistenza consente la tutela reintegratoria, ha altresì fornito utili indicazioni, sia pur senza addentrarsi nel dibattito interpretativo sopra decritto, per precisare il significato dell'espressione “manifesta insussistenza”, ed ha a tal fine richiamato la ratio legis di limitare ad ipotesi residuali il ricorso alla tutela reintegratoria, identificando il concetto di “manifesta insussistenza”, sul piano squisitamente probatorio, in “una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.
In realtà, già precedentemente la S.C., pur giungendo a diverse conclusioni, aveva seguito tale percorso logico-argomentativo, muovendo dalla considerazione che la cd. tutela reintegratoria “attenuata” può trovare applicazione “esclusivamente nel caso in cui il "fatto posto a base del licenziamento" non solo non sussista, ma anche a condizione che detta "insussistenza" sia "manifesta"” e giungendo così alla conclusione che “l'intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici” (v. Cass. sez. lav., 8 luglio 2016, n. 14021).
La ratio della disposizione, secondo tale impostazione, è evidentemente quella di sanzionare con maggiore rigore un comportamento datoriale non solo illegittimo, ma di particolare gravità, che per tale ragione lo obbliga al ripristino del rapporto e non al solo pagamento dell'indennità risarcitoria.
Nella decisione in disamina, la Corte di vertice ha preso posizione, muovendo dal presupposto che il rapporto tra la tutela indennitaria (quinto comma) e la tutela reintegratoria “attenuata” (quarto comma) va ricostruito in termini di rapporto regola/eccezione, ed ha così qualificato il ripristino del rapporto di lavoro quale ipotesi residuale rispetto alla regola generale della tutela risarcitoria. In tale prospettiva ermeneutica, ha quindi affermato che, pur in presenza di una non pretestuosa motivazione economica posta a base del recesso, l'“insufficienza probatoria” con riguardo all'adempimento dell'obbligo di repechage è da sola idonea ad integrare un connotato di particolare evidenza nell'insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, posto che “il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata”, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata di cui dell'art. 18, co. 4, L. n. 300/1970. Ma il novum della sentenza in disamina è anche costituito dal primo tentativo di operare una delimitazione della discrezionalità del giudice nell'applicazione del regime di tutela reale attenuata. È infatti noto che, nel caso in cui si accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il settimo comma dell'art. 18 prevede che il giudice “può” applicare la tutela reintegratoria di cui al quarto comma. Ne consegue che la “manifesta insussistenza del fatto” costituisce un antecedente necessario – ma non sufficiente – per l'esercizio del potere del giudice di applicare la tutela reintegratoria ovvero indennitaria. Posto che la suddetta disposizione non si preoccupa di orientare l'esercizio di tale potere discrezionale, una prima impostazione interpretativa, propensa a valorizzare il tenore letterale della norma, aveva sostenuto che, in tale ipotesi, il giudice disporrebbe di un potere discrezionale di ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto.
A tale orientamento se ne era contrapposto un altro, teso invece a valorizzare una impostazione di tipo sistematico, secondo la quale, invece, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento, il giudice sarebbe comunque obbligato a disporre la reintegrazione, in considerazione del fatto che, in una disciplina complessivamente volta a rendere tassative le ipotesi che danno luogo alla reintegrazione nel posto di lavoro, sarebbe del tutto illogico riconoscere al giudice stesso un così esteso potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione nel posto di lavoro, senza che la norma stessa abbia minimamente specificato i criteri in base ai quali il giudice dovrebbe esercitare tale potere discrezionale (v. Tribunale Roma, ord.19.03.2014, est. Sordi).
La sentenza in disamina aderisce alla tesi della non obbligatorietà della tutela reintegratoria, affermando che “L'applicazione della tutela reale richiede un ulteriore vaglio giudiziale”, e si pone così in contrasto con altra precedente pronuncia, che era giunta a conclusioni opposte (v. Cassazione civile, sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528).
In quest'ordine di concetti, la S.C., constatata l'impossibilità di individuare criteri nella norma in esame, ha ritenuto di individuare un parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, mediante ricorso ai principi generali dell'ordinamento in materia di risarcimento del danno, con particolare riguardo al concetto di “eccessiva onerosità”, al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 c.c.) ovvero di diminuire l'ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 c.c.). Ciò al fine di “di valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa”. In buona sostanza, secondo la Cassazione, “Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria”.
Tale impostazione, pur apprezzabile nel tentativo di orientare l'esercizio del potere discrezionale secondo parametri di ragionevolezza ed oggettività, desta non poche perplessità, in ragione del fatto che il criterio proposto non attiene a circostanze coeve all'epoca del licenziamento, ma si sostanzia in una valutazione di “eccessiva onerosità” della tutela reintegratoria riferita “al momento di adozione del provvedimento giudiziale” ed alla “struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa”. Applicando tale criterio, quindi, ben può accadere che più licenziamenti intimati contestualmente dallo stesso datore di lavoro e dichiarati invalidi per le medesime ragioni trovino prospettive rimediali del tutto differenti a seconda del momento in cui venga adottato il provvedimento giudiziale.
Così come ben può avvenire che lo stesso licenziamento dichiarato invalido in entrambi i gradi di giudizio sia oggetto di differenti conseguenze sanzionatorie in appello (rispetto al primo grado) non per ragioni attinenti ad una diversa valutazione dei fatti che lo hanno determinato, ma solo perchè nelle more del giudizio si sia verificata una modificazione della struttura organizzativa dell'impresa che comporti una diversa valutazione sul parametro dell'eccessiva onerosità. Né può sottacersi il rischio che il datore di lavoro, dinanzi ad una serie di licenziamenti invalidi, trovi economicamente conveniente ridimensionare la struttura organizzativa dell'impresa per far confluire nell'area della eccessiva onerosità recessi che sarebbero stati altrimenti destinatari di tutela reintegratoria. In definitiva, il parametro proposto dalla Cassazione, nella sua eccessiva elasticità, finisce con il vanificare lo sforzo ermeneutico di delimitare la discrezionalità del giudice, determinando la ineludibile necessità di fissare ulteriori criteri tesi ad evitare che situazioni identiche siano destinatarie di trattamenti rimediali tra loro poco compatibili e forieri di irragionevoli disparità di trattamento, anche in virtù di possibili opportunistiche condotte datoriali, in evidente contrasto con quei canoni di ragionevolezza ed oggettività che proprio la sentenza in commento ha posto a fondamento delle conclusioni cui è pervenuta.
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