Agevolazioni fiscali e fondazioni bancarie

15 Giugno 2018

Alle Fondazioni bancarie, nella disciplina precedente alla loro privatizzazione, non spettava l'agevolazione fiscale della riduzione alla metà dell'aliquota Irpeg, riconosciuta, ai sensi dell'art. 6, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, agli Enti che svolgono attività no profit, in particolare laddove la stessa Fondazione poteva comunque partecipare, grazie alla detenzione della quota di maggioranza, aell'amministrazione della banca, svolgendo un ruolo d'influenza sulla governance della cassa di risparmio conferitaria.
Massima

Alle Fondazioni bancarie, nella disciplina precedente alla loro privatizzazione, non spettava l'agevolazione fiscale della riduzione alla metà dell'aliquota Irpeg, riconosciuta, ai sensi dell'art. 6, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, agli Enti che svolgono attività no profit, in particolare laddove la stessa Fondazione poteva comunque partecipare, grazie alla detenzione della quota di maggioranza, aell'amministrazione della banca, svolgendo un ruolo d'influenza sulla governance della cassa di risparmio conferitaria.

Il caso

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10689/2018, è tornata sulla questione del trattamento fiscale delle fondazioni bancarie.

Nel caso di specie, unaFondazione di una Cassa di Risparmio aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, con la quale, in accoglimento dell'appello dell'Ufficio, era stata riconosciuta la legittimità del silenzio-rifiuto dell'Amministrazione finanziaria alla domanda, avanzata dalla Fondazione, di rimborso dell'IRPEG, versata per il periodo d'imposta 1/07/1997-30/06/1998, per avere applicato l'aliquota ordinaria (37%), in luogo di quella agevolata (18,5%), ai sensi dell'art. 6, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601.

Il giudice d'appello aveva escluso che alla Fondazione spettasse il rimborso, essendo l'agevolazione fiscale riconosciuta agli Enti che svolgono attività no profit e che non si ingeriscono nell'amministrazione delle banche partecipate; aspetto, quest'ultimo, non ravvisabile nella specie, visto che la Fondazione deteneva una quota di maggioranza del capitale dell'omonima Cassa di risparmio.

Nel presentare ricorso per cassazione la Fondazione contestava quindi la violazione dell'art. 6 d.P.R. n. 601/1973, nella versione vigente ratione temporis, per avere la sentenza erroneamente negato la sussistenza dei presupposti, oggettivi e soggettivi, per il riconoscimento dell'agevolazione fiscale, in considerazione della natura, delle finalità e dell'attività svolta dalla Fondazione, sottolineando, al riguardo, di avere documentato, nel giudizio di merito, attraverso la produzione degli estratti delle scritture contabili, la destinazione di gran parte del dividendo, percepito nel periodo d'imposta in questione, ad attività di promozione sociale e culturale, anziché di controllo e governo della partecipazione bancaria detenuta.

La questione

La questione in esame attiene alla asserita violazione dell'art. 6 d.P.R. n. 601/1973 e dell'art. 12 D.lgs. n. 356/1990, laddove, anteriormente alla riforma legislativa risultante dalla legge n. 461/1998, dal d.lgs. n. 153/1999 e dalla L. n. 448/2001, le Fondazioni bancarie non potevano beneficiare dell'agevolazione relativa alla riduzione alla metà dell'IRPEG, non essendo riconducibili tali soggetti di diritto ad alcuno degli enti individuati dal comma 1, dell'art. 6, d.P.R. n. 601/73.

La sentenza della Corte di Giustizia CE, in data 10 gennaio 2006, in causa C-222/04, intervenendo sulla materia delle Fondazioni bancarie regolate dalla normativa del 1990, aveva peraltro specificato che, nell'ambito del diritto della concorrenza, il concetto di «impresa» comprende qualsiasi ente che eserciti un'attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento e che il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è però sufficiente a configurare, ex se, un'attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso dà luogo soltanto all'esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio, nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un bene.

Viceversa, un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo, partecipando, direttamente o indirettamente, alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell'attività economica svolta dall'impresa controllata, spettando in ogni caso al giudice nazionale valutare, al fine di un'eventuale qualificazione come «impresa» della fondazione bancaria, se quest'ultima non solo detenesse partecipazioni di controllo in una società bancaria, ma esercitasse anche effettivamente tale controllo, intervenendo nella gestione, ed occorrendo, a tal fine, distinguere tra il semplice versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro e l'attività svolta direttamente in tali settori, in quanto, se nel primo caso è da escludere una qualificazione della Fondazione come "impresa", diversamente, quando una fondazione bancaria, agendo direttamente negli ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, effettua operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari, necessarie o opportune per realizzare gli scopi che le sono prefissi, essa può offrire beni o servizi sul mercato in concorrenza con altri operatori (ad esempio in settori come la ricerca scientifica, l'educazione, l'arte o la sanità).

E in tale ultima ipotesi la fondazione bancaria deve essere quindi considerata come un'impresa, in quanto svolge un'attività economica, in concorrenza con altri operatori.

L'orientamento giurisprudenziale della Corte di legittimità, formatosi a seguito della predetta sentenza del Giudice di Lussemburgo, tendente a valutare in concreto la sussistenza, anche per le Fondazioni, del requisito oggettivo della "esclusività" dello scopo di interesse sociale, indicato dall'art 10 bis L. n. 1745/1962 per la fruizione dell'esenzione dalla ritenuta d'acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, nonché dall'art. 6, comma 1, d.P.R. n. 601/73, per l'applicazione dell'agevolazione IRPEG, aveva poi ricevuto definitiva conferma dalla sentenza della Corte di Cassazione, resa a Sezioni Unite (sentenza n. 1576/2009), che aveva statuito l'inapplicabilità delle agevolazioni fiscali alle Fondazioni costituite secondo la disciplina dell'art. 12 D.Lgs. n. 356/1990, non trovando applicazione retroattiva la successiva disciplina di riforma del sistema creditizio, che aveva attribuito a tali enti, ai sensi dell'art. 12 d.lgs. n. 153/1999 ed ove si fossero adeguati alle nuove prescrizioni, la qualifica di fondazioni con personalità giuridica di diritto privato, così estendendo ad esse il regime tributario proprio degli enti non commerciali, in quanto "gli enti di gestione delle partecipazioni bancarie, quali risultanti dal conferimento delle aziende di credito in apposite società per azioni e gravati dall'obbligo di detenzione e conservazione della maggioranza del relativo capitale ai sensi della L. n. 218/1990 ed in base all'art. 12 d.lgs. n. 356/1990, a causa del particolare vincolo genetico che le univa alle aziende scorporate, non possono essere assimilati nè alle persone giuridiche di cui all'art. 10-bis L. n. 1745/1962 (che perseguono esclusivamente scopi di beneficenza, educazione, istruzione, studio e ricerca scientifica), ai fini della esenzione dal versamento della ritenuta d'acconto sugli utili, nè agli enti ed istituti di interesse generale aventi scopi esclusivamente culturali, di cui all'art. 6 d.P.R. n. 601/1973, ai fini del riconoscimento della riduzione a metà dell'aliquota sull'IRPEG …" (cfr. Cass. Sez. V, n. 12243/2010; id. Sez. 5, n. 16842/2013).

E a dire il vero, già prima, Cass. Sez. V, sentenza n. 5740/2007, era stata molto chiara nell'affermare che il carattere d'impresa commerciale della Fondazione restava escluso solo:

1) dalla previsione, statutaria o legale, dell'esclusività dei predetti scopi,

2) dalla dimostrazione che tali attività fossero state effettivamente svolte,

3) e che la fondazione non avesse alcuna possibilità d'influire, quale azionista maggioritario o non maggioritario o in virtù di accordi parasociali o di patti di sindacato, sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese da essa partecipate.

Vero è che, prima dell'intervento, nel 2009, della citata sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, in effetti, l'orientamento giurisprudenziale sulla tematica in esame era stato particolarmente altalenante.

In un primo momento, infatti, i giudici di legittimità avevano accolto la tesi delle fondazioni bancarie, riconoscendo il beneficio della riduzione alla metà dell'aliquota IRPEG, giusta disposto del D.P.R. n. 601/1973, art. 6, attesane la natura di enti dotati di personalità giuridica con finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, che si limitavano ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della propria azienda bancaria ad una società per azioni ed a destinare i relativi dividendi agli scopi statutari senza fini lucrativi (vedi Cass. Sez. V, n. 6607/2002).

A tale prima sentenza ne erano poi seguite altre, di analogo tenore, che, a supporto della tesi favorevole alle fondazioni, avevano anche utilizzato, in chiave interpretativa, la successiva riforma di privatizzazione delle fondazioni di origine bancaria, attuata con il D.Lgs. n. 153 del 1999 e secondo le quali il beneficio della riduzione alla metà dell'aliquota IRPEG, riservata ai soggetti elencati nel D.P.R. n. 601/1973, art. 6, spettava anche alle fondazioni bancarie, in considerazione delle finalità di interesse pubblico e di utilità sociale perseguite e considerato che l'amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell'azienda bancaria non costituiva comunque attività commerciale, come anzi anche confermato dal fatto che la normativa di riforma precludeva alle Fondazioni qualsiasi ingerenza nell'esercizio dell'attività bancaria e quindi anche la possibilità di operare come “holding”, esercitando in modo indiretto tale attività.

Secondo tali prime pronunce, del resto, sulla base del D.Lgs n. 153/1999, art. 12, comma 2, costituente disposizione di natura interpretativa, tale regime agevolativo era applicabile anche alle fondazioni già esistenti al momento dell'entrata in vigore della disposizione e con riferimento ai pregressi anni d'imposta, purché tali soggetti, anche in conformità della Decisione della Commissione CE (del 22 agosto 2002, C-2002-3118), avessero svolto la loro attività senza scopo di lucro, secondo un giudizio di meritevolezza oggetto di accertamento in fatto (così Cass. 19365/2003, secondo la quale, peraltro, l'ambito applicativo dell'agevolazione in esame coincideva anche con quello di cui alla L. n. 1745/1962, art. 10 bis).

Inoltre, in base a tale primo indirizzo giurisprudenziale, l'amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell'azienda bancaria costituiva attività strumentale, che forniva le rendite necessarie per il perseguimento degli scopi statutari e non ne formava invece l'oggetto principale (Cass., Sez. V, n. 19445/2003).

La chiave di volta era peraltro stata, a ben vedere, un'Ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 8319 del 30 aprile 2004, con la quale la Cassazione, premesso che, ove in via interpretativa si fosse affermata l'applicazione dei benefici fiscali menzionati anche alle Fondazioni bancarie, sulla base dell'affermata natura non commerciale di tali enti e del carattere d'interpretazione della L. n. 153 cit., si poteva ipotizzare un contrasto di tale sistema normativo sia con le norme e i principi del Trattato CE in materia di concorrenza e della disciplina degli aiuti di Stato (artt. 87 e 88), aveva allora effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'UE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, ponendo il seguente quesito: "se le Fondazioni bancarie italiane, per essere titolari di partecipazioni di controllo di società bancarie, in relazione ad una quota assai rilevante che tali soggetti hanno sul mercato, e potendo destinare il ricavato della dismissione di tali partecipazioni all'acquisto in imprese non bancarie, anche per perseguire la finalità dello sviluppo economico, siano sottoposte alla disciplina comunitaria della concorrenza, da un lato, e a quella stabilita in materia di aiuti di Stato, da un altro”.

Con sentenza 10 gennaio 2006, nel procedimento C-222/04, instaurato sulla base del citato rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia, come visto, stabiliva dunque che "nell'ambito del diritto della concorrenza il concetto di impresa comprende qualsiasi ente che eserciti un'attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento” e che "costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato”.

E veniva evidenziato come una fondazione bancaria, che controlla il capitale di un'impresa bancaria, benchè non possa svolgere direttamente l'attività bancaria, deve assicurare la “continuità operativa” tra se stessa e la banca controllata, per cui vi devono essere disposizioni che prevedano che alcuni membri del comitato di gestione od organo equivalente della fondazione bancaria siano nominati nel consiglio di amministrazione, e alcuni membri dell'organo di controllo nel collegio sindacale della società bancaria e la fondazione bancaria deve comunque destinare una determinata quota dei proventi derivanti dalle partecipazioni nella società bancaria ad una riserva finalizzata alla sottoscrizione degli aumenti di capitale di tale società, oltre a potere investire la riserva, in particolare, in titoli della società bancaria controllata.

Le norme in esame rendevano possibile quindi lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario, dimostrando l'esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie.

In definitiva, con la riforma Amato, gli enti conferenti, anziché gestire direttamente l'azienda bancaria, mediante un modello organizzativo di tipo pubblicistico, come era avvenuto per il passato, hanno continuato a svolgere tale attività utilizzando un nuovo modello organizzativo privatistico (quello della spa), mantenendo saldamente nelle proprie mani le leve di comando. Gli enti conferenti, a fronte del conferimento dell'azienda di proprietà, hanno ottenuto azioni rappresentative (in tutto o in quota ampiamente maggioritaria) del medesimo titolo di proprietà: una semplice cartolarizzazione, che non spostava gli assetti della governance.

Il D.Lgs. n. 153/1999, art. 12, detta quindi la disciplina fiscale solo per i "nuovi" enti privatizzati (e sempre che tali enti si siano adeguati alle prescrizioni dettate dalla riforma di privatizzazione e, quindi, in primo luogo alla dismissione delle partecipazioni di controllo).

Solo con la disciplina disposta dal Dlgs n. 153/99 la situazione è infatti stata sostanzialmente modificata, come dimostrato per esempio dall'art. 5 dello stesso decreto, il quale ha stabilito che il patrimonio delle fondazioni fosse totalmente vincolato al perseguimento degli scopi statutari (mentre in precedenza, gli enti conferenti potevano anche costituire riserve finalizzate alla sottoscrizione di aumenti di capitale delle società conferitarie).

Le soluzioni giuridiche

Tanto premesso, tornando al caso in commento, secondo la Suprema Corte, il ricorso era infondato.

La Corte richiama del resto anche altra sentenza delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. n. 5069/2016), che ha dato continuità all'indirizzo giurisprudenziale sopra visto, affermando anche, tra le altre, che:

a) incombe sulla Fondazione che reclami l'applicazione dell'agevolazione fiscale, l'onere di dimostrare (secondo il comune regime della prova ex art. 2697 c.c.) la sussistenza dei presupposti, soggettivi e oggettivi, per potere fruire del beneficio e, quindi, di provare, per un verso, la propria coerenza statutaria e, sotto altro profilo, il concreto espletamento, nell'anno in questione, di attività finalizzata al raggiungimento, in via esclusiva, di scopi di beneficienza, educazione, studio e ricerca scientifica;

b) l'accertamento, in ordine all'attività concretamente svolta dalla Fondazione, è indispensabile per verificare la compatibilità del beneficio con la disciplina comunitaria, trattandosi di agevolazione potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza e, pertanto, a configurarlo come un aiuto di stato;

c) in tale ottica, occorre verificare le previsioni statutarie dell'ente ed accertare che la concreta attività svolta non presenti i connotati dell'azione imprenditoriale, caratterizzandosi, invece, per gli scopi di utilità sociale, ed anche che la Fondazione, quale azionista, non sia in grado di influire sulla gestione della banca conferitaria o di altre imprese partecipate (nello stesso senso delle Sezioni Unite, cfr., ex multis, Cass. n. 11649/2017).

In conclusione, affermano i giudici di legittimità, nel caso di specie la CTR aveva fatto buon governo di tali regulae iuris, laddove aveva ravvisato l'idoneità della contribuente a svolgere un ruolo d'influenza sulle dinamiche e sulla governance della cassa di risparmio conferitaria, di cui la Fondazione era socia di maggioranza (con una partecipazione prossima al 70% del capitale sociale), anche considerato che, come correttamente rilevavano i giudici di merito, la detenzione di una partecipazione di maggioranza difficilmente si confà con il concetto di estraneità dalla gestione e pertanto non era accoglibile l'assunto che la Fondazione non esercitasse, seppur indirettamente, l'attività commerciale. La Fondazione, detenendo un pacchetto di maggioranza, non poteva infatti ritenersi esclusa dalla determinazione della politica, dalle scelte commerciali e amministrative dell'Azienda di credito.

Osservazioni

In conclusione, nell'ambito dei contenziosi in esame, è stato ormai appurato che le fondazioni bancarie non avevano diritto alle agevolazioni fiscali sopra richiamate, dato che non potevano essere semplicemente considerate istituti di istruzione o di studio, né associazioni storiche, letterarie o scientifiche aventi scopi esclusivamente culturali, né enti di assistenza, considerato appunto il carattere solo eventuale ed accessorio di tali attività rispetto all'attività principale, consistente invece nella gestione della partecipazione nella società per azioni conferitaria, attività questa sicuramente di tipo commerciale.

Le Fondazioni svolgevano infatti, in sostanza, un'attività di impresa rapportabile al modello della holding, laddove la giurisprudenza della stessa Corte Suprema ha da tempo affermato che “anche la detenzione di partecipazioni, quando si traduce in un vero e proprio controllo, dà luogo ad esercizio di impresa …” (v. Cass. 25275/2006).

Del resto, l'impresa bancaria la fanno i possessori di partecipazioni rilevanti, i quali devono avere specifici requisiti soggettivi per ottenere la prescritta autorizzazione (R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, artt. 19 e 27 - T.U. bancario), per cui vi è la presunzione legale che il soggetto che acquisti partecipazioni rilevanti in una banca svolga in concreto l'attività di banchiere.

Lo scopo di ripartire o no utili costituisce del resto un momento successivo alla produzione degli utili stessi, che non fa venire meno il carattere commerciale dell'attività e non rileva ai fini tributari, essendo indifferente la destinazione che venga data agli utili eventualmente prodotti.

Una tale tesi è inoltre confermata anche da autorevole dottrina (Galgano, L'oggetto della Holding è dunque l'esercizio mediato ed indiretto dell'impresa di Gruppo, in Contratto e impresa, 1990): la holding esercita infatti, in forma indiretta, le stesse attività che sono esercitate in via diretta dalle società partecipate (vedi anche Cass. n. 1439/90). E il requisito della commercialità del resto sussiste in questi casi anche sulla base di quanto disposto dall'art. 2082 c.c., secondo il quale l'attività commerciale può essere esercitata sia in via immediata che mediata.

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