Procedimento di mediazione e consulenza tecnicaFonte: D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28
18 Giugno 2018
La perizia tecnica nella mediazione
Il problema della utilizzabilità della consulenza svolta nell'ambito della procedura di mediazione va inquadrato nell'ambito dei rapporti tra mediazione e processo civile e, in generale, tra qualsiasi strumento alternativo di risoluzione dei conflitti e l'aggiudicazione delle controversie da parte del giudice. Di base, infatti, ogni ADR aspira ad evitare il ricorso alla decisione da parte del giudice e, in quest'ottica, il rapporto tra mediazione e processo civile è di prevenzione e potenzialmente di esclusione. Con riferimento agli ADR non aggiudicativi, peraltro, tale esclusione, per l'ipotesi di fallimento della soluzione conciliata della lite, è solo temporanea, essendo sempre possibile il ricorso all'autorità giudiziaria statale. Così funziona, in particolare, il procedimento di mediazione introdotto dal d.lgs. n. 28/2010. Dall'esame di questa problematica emerge chiaramente che il rapporto tra mediazione e processo civile non si limita ad una relazione “cronologica”, necessaria ovvero facoltativa. Esso si traduce anche nel necessario coordinamento tra l'attività svolta avanti al mediatore e quella che ha luogo davanti al giudice, sotto una pluralità di profili uno dei quali è, appunto, la consulenza tecnica. Per le controversie che richiedono specifiche competenze tecniche il decreto sulla mediazione ha previsto l'utilizzo di esperti. Viene in rilievo la figura dei co-mediatori e dei consulenti veri e propri. Bisogna premettere che la possibilità della nomina di un consulente tecnico esterno ed estraneo ai soggetti ordinari che sono presenti nel procedimento di mediazione (mediatore, parti e loro rappresentanti), è nel relativo sistema normativo, per così dire, residuale. Ciò si ricava a contrariis dalla disposizione dell'art. 8, comma 1, del decreto citato nonché dalla successiva disposizione del comma 4 che prevede la possibilità della nomina di un tecnico esterno solo laddove siano assenti o carenti, non solo nel mediatore titolare ma anche in quello eventuale, ausiliario, le competenze tecniche specifiche e necessarie per il caso oggetto del procedimento. L'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 prevede che l'Organismo di mediazione possa nominare, nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, uno o più mediatori ausiliari. La presenza di mediatori esperti si giustifica con la funzione della mediazione in cui gli interessi prevalgono sui diritti: in questi casi la lacuna professionale del mediatore giurista può essere colmata dalla figura del mediatore ausiliario il quale può essere di supporto al primo. La figura del co-mediatore ausiliario si rivela molto utile nella mediazione cd. valutativa, ove al mediatore è richiesto di formulare una proposta, ma può svolgere un ruolo importante anche in quella cd. facilitativa. Va sottolineato che la scelta del mediatore ausiliario, piuttosto che di altre figure, viene preferita in quanto la sua nomina non provoca un aumento dei costi della procedura dal momento che le spese di mediazione rimangono fisse anche nel caso di nomina di uno o più mediatori ausiliari (art. 16, comma 10, d.m. n. 180/2010). Il consulente tecnico
La figura del consulente tecnico è stata imposta dalla legge delega n. 69/2009 la quale, all'art. 60, comma 3, dava mandato al legislatore di prevedere per le controversie in particolari materie la facoltà del conciliatore di avvalersi di esperti, iscritti nell'albo dei consulenti e dei periti presso il tribunale (i cui compensi sarebbero stati indicati dai decreti legislativi attuativi della delega anche con riferimento a quelli stabiliti per le consulenze e per le perizie giudiziali). L'art.8, comma 4, del d.lgs. n. 28/2010 prevede, quindi, che nel caso in cui non si può procedere alla nomina di un co-mediatore il mediatore possa avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali. Si tratta in sostanza della figura equivalente al consulente tecnico del processo giurisdizionale (artt.61 e ss.c.p.c.). In realtà detta figura è poco utilizzata per varie ragioni: una volta nominato l'esperto, la funzione del mediatore, di creare un incontro delle volontà delle parti, subisce un inevitabile svilimento in quanto sarà la consulenza ad assumere un ruolo preponderante nella soluzione consensuale. In definitiva l'introduzione dell'esperto nella mediazione contraddice in un certo senso la funzione della mediazione nella quale il tecnicismo tipico della CTU non dovrebbe avere spazio se non in via residuale. Bisogna tener conto, tuttavia, del fatto che in alcuni casi il tentativo di favorire interessi al di là della soluzione tecnica è destinato a fallire: in questi casi l'intervento di un tecnico diventa l'unica via per favorire il raggiungimento dell'accordo; spesso, poi, la consulenza tecnica svolta in mediazione può costituire una valida base per una proposta effettuata dal mediatore o anche dal giudice ai sensi dell'art.185-bis c.p.c. (introdotto dal d.l. n. 69/2013 art.77 conv. dalla l. n.98/2013) (in tal senso cfr. Trib. Roma, ord., dott. Moriconi in RG. 50529/13 sez. XIII esitata con accordo) . Non è mancato chi, a tale proposito, ha rilevato come uno dei punti deboli della mediazione obbligatoria sia proprio l'assenza in quel procedimento di una consulenza tecnica disposta dal mediatore, la cui mancanza impedisce alle parti di discutere concretamente su punti fondamentali della lite. Secondo alcuni, invece, la nomina di un consulente dovrebbe costituire una ipotesi residuale anche in ragione dei costi della procedura. Infatti, a differenza dell'intervento del mediatore ausiliario, la nomina dell'esperto è causa di un aumento dei costi destinato a ricadere sulle parti. Proprio per questo, nonostante l'articolo 8 d.lgs. n. 28/2010 nulla dica sul punto lasciando intendere che l'iniziativa per la nomina dell'esperto sia rimessa alla sola valutazione del mediatore, molti regolamenti di procedura subordinano la nomina dell'esperto al consenso unanime delle parti (così l'art. 5, comma 10, della proposta di regolamento comunitario per gli organismi di mediazione costituiti dai consigli dell'ordine degli avvocati secondo cui «solo in casi particolari ovvero ove non sia possibile nominare uno o più degli attori ausiliari o la controversia lo renda assolutamente necessario, il mediatore può provvedere all'individuazione, per il tramite della segreteria, di un esperto iscritto nell'albo dei consulenti e dei periti presso i tribunali. La nomina è subordinata all'impegno sottoscritto da almeno una delle parti a sostenere che gli oneri privi secondo i compensi previsti dall'ODM, da eventuali norme di legge o dalle tariffe professionali»). Sul piano procedimentale sono evidenti le differenze tra la consulenza svolta durante la mediazione e la CTU nel processo. Invero le modalità di redazione della perizia nel corso del procedimento di mediazione sono libere e indeterminate. Infatti non si applicano gli artt. 191 e ss. c.p.c.. Parimenti non si applicano alla CTM nè l'art.192 c.p.c. in tema di astensione e ricusazione né l'art.193 c.p.c. (giuramento); gli artt. 194 e 201 c.p.c. e 91 disp att. c.p.c. in tema di nomina dei ctp e di redazione del processo verbale. Si dubita anche che per il perito in sede di mediazione sia vincolante la regola secondo cui il consulente deve essere nominato tra esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali (art.8 d.lgs. n. 28/2010), regola che vale per il CTU nominato dal giudice (cfr. gli artt. 13 e ss. delle disp.att.c.p.c. sull'albo dei CTU e art.22 disp att. c.p.c. sull'obbligo della nomina di CTU iscritti all'albo del tribunale cui fa parte il giudice conferente l'incarico). Verosimilmente ciò dipenderà dalle regole imposte dal singolo organismo di mediazione scelto dalle parti. La diversità di disciplina non è di poco conto se si considera che anche di recente la Suprema Corte ha ribadito (Cass. civ., sent., n. 1266/13) i limiti di indagine del consulente tecnico d'ufficio, precisando, con riferimento alla possibilità da parte di questi di acquisire documentazione non esistente agli atti del giudizio che «la consulenza tecnica d'ufficio costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire alla inerzia delle parti: la stessa, tuttavia, può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di un perito». Ha precisato la Suprema Corte: «… la denegata ammissione della CTU è dipesa dalla mancata preventiva dismissione di tutta la documentazione per cui la CTU può essere utilizzata solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia rinvenibile aliunde e non anche per fini meramente esplorativi» (nei medesimi termini Cass. civ., n. 5908/2004). Limiti di indagine che sembrerebbero, quindi, non applicabili alla CTU disposta in sede di mediazione. Il Ministero della Giustizia (Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale della Giustizia Civile), in persona del Magistrato delegato Dott.ssa Adele Verde, con provvedimento del 2 febbraio 2017 ha precisato che il procedimento di mediazione non può proseguire in forma unilaterale, allorché una parte manifesti al primo incontro cd. di programmazione volontà contraria alla prosecuzione da cui la illegittimità della nomina di un consulente tecnico al fine di consentire al mediatore di formulare una proposta di definizione, senza il preventivo assenso di entrambe le parti. Il Ministero provvedeva ad “ammonire” l'organismo di mediazione responsabile di aver violato la normativa di settore chiarendo preliminarmente che il primo incontro di mediazione (cd. di programmazione) deve essere considerato come momento non ancora inserito nello svolgimento vero e proprio dell'attività di mediazione, ciò in quanto la norma di cui all'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 28/2010 testualmente recita: «Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento». Tale disposizione – secondo il Ministero – delineando la natura e la funzione del primo incontro rispetto alla procedura di mediazione, consentirebbe di comprendere la ragione per la quale il legislatore ha previsto che «nel caso di mancato accordo all'esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l'organismo di mediazione». Non essendosi, infatti, svolta vera e propria “attività di mediazione” non si potrà richiedere un compenso che attenga, appunto, ad una attività eventuale e successiva che avrà modo di essere esercitata solo se le parti intendano procedere oltre. Da tali considerazioni il Ministero fa discendere come conseguenza che il mediatore, dinanzi all'espresso rifiuto di una delle parti, non può procedere a formulare alcuna proposta di conciliazione, né tantomeno a nominare un consulente tecnico a tal fine, dovendosi limitare a redigere un verbale negativo. Diversa è, invece, l'ipotesi in cui la parte chiamata in mediazione decida di rimanere contumace. In tali casi, non vi è dubbio che la parte istante, se il regolamento dell'organismo lo consente, può scegliere di “entrare” in mediazione e, all'esito dell'attività del consulente tecnico, comunicare al chiamato in mediazione una proposta. È evidente, infatti, che il dissenso non può essere equiparato alla contumacia – comportamento che il codice di procedura civile considera “neutro” – e in questa ottica deve essere letto l'art. 7, comma 2, d.m. n. 180/2010.
La utilizzabilità delle risultanze della consulenza tecnica svolta nella mediazione è limitata dal dovere di riservatezza che costituisce un argomento critico nei rapporti tra mediazione e processo. Su detto argomento – la riservatezza appunto – l'art. 9 d.lgs. n. 28/2010 ha natura di norma sostanziale disciplinando la principale obbligazione accessoria del mediatore (come di «chiunque presta la propria opera e il proprio servizio nell'organismo o comunque nell'ambito della procedura di mediazione») ossia il mantenimento della riservatezza in ordine alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite nel corso del tentativo di conciliazione. La segretezza ha un'importanza fondamentale nella disciplina della mediazione rappresentando al contempo una garanzia per le parti e un indispensabile strumento di lavoro per il mediatore. La riservatezza rende la procedura una sorta di black box da cui niente fuoriesce e trova la sua ragion d'essere nella necessità di favorire quanto più possibile l'instaurazione tra le parti presenti nel procedimento di mediazione, di un clima di libero, leale e sincero confronto e discussione - nelle sessioni congiunte e in quelle separate con il mediatore - tale da consentire ad ognuna di esse di aprirsi senza remore e timori, esponendo fino in fondo il rispettivo punto di vista, con le relative aspettative e richieste, con una disponibilità propiziata ed agevolata dalla consapevolezza della non utilizzabilità (altrove) in difetto di consenso, delle dichiarazioni che la parte abbia reso. L'art. 10 d.lgs. n. 28/2010 - rubricato “inutilizzabilità e segreto professionale” - disciplina, invece, la riservatezza sul versante processuale prevedendo accanto all'obbligo di non pubblicare le informazioni e le dichiarazioni rese nel corso del procedimento, un regime complementare di inutilizzabilità probatoria dell'informazione tutelato attraverso l'estensione delle norme del codice di procedura e sul segreto professionale. La prevista inutilizzabilità implica il divieto per il giudice di tener conto di quelle informazioni e dichiarazioni, ai fini del proprio convincimento. Ne discende che le dichiarazioni e informazioni acquisite nel corso di detto procedimento non potranno essere utilizzate nel giudizio avente «il medesimo contenuto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l'insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio». Va puntualizzato che il diritto alla riservatezza sulle informazioni e dichiarazioni rese in sede di mediazione è comunque un diritto disponibile, cui la parte può derogare. L'ordinanza del 17 marzo 2014 del tribunale di Roma giudice dott. Moriconi costituisce uno dei primi provvedimenti in cui è stata riconosciuta la utilizzabilità in sede giudiziaria di un accertamento tecnico svolto in mediazione. Il giudicante ha ritenuto che il risultato tecnico-specialistico ad opera di un perito esperto non fosse da ritenere coperto dalla riservatezza che permea tutte le dichiarazioni e informazioni fornite dalle parti in seno alla mediazione. Si legge nel provvedimento che i divieti previsti dalla legge hanno per oggetto esclusivamente le dichiarazioni delle parti (di cui le informazioni - di cui pleonasticamente parla la legge - sono solo uno dei possibili contenuti). Mentre l'attività del consulente in mediazione, all'esito degli accertamenti che il tecnico compie (che non potranno consistere nel raccogliere e riportare dichiarazioni delle parti o informazioni provenienti dalle stesse, perché questo non è un suo compito) si estrinseca (ed esaurisce) nella motivata esposizione dei risultati degli accertamenti tecnico-specialistici. Va precisato che l'elaborato peritale svolto in mediazione, non potrà essere parificato ad una CTU, ma il giudicante potrà trarne argomenti ed elementi utili alla formazione del giudizio, o ricavarne un fondamento conoscitivo e supporto motivazionale per la formulazione di una proposta conciliativa. La dottrina e la giurisprudenza si sono, pertanto, interrogate sulla utilizzabilità della consulenza tecnica espletata in mediazione: infatti, così come non possono essere usate quale prova nel successivo giudizio le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione, così non potrebbero transitare nel giudizio i risultati delle valutazioni peritali rese in mediazione. Sull'argomento alcuni giudici di merito hanno cominciato ad esprimersi. Si registrano due interessanti pronunce: una del tribunale di Roma del 2014 e una del tribunale di Parma del marzo 2015. Secondo il tribunale di Parma (ordinanza del 13 marzo 2015) la perizia disposta durante il procedimento di mediazione è pienamente attendibile ed efficace poiché non viene espletata su incarico di una parte ma su disposizione di un terzo estraneo alla lite, quale è l'organismo di mediazione. Particolare il fatto che a tale pronuncia il giudice perviene nonostante una delle parti (nel caso specifico una banca), costituitasi nel giudizio incardinato dopo l'esito negativo della mediazione, avesse eccepito la irritualità della CTM in quanto svolta in mancanza di contraddittorio, non avendo la banca partecipato alla procedura. Anche in una successiva ordinanza, sempre il tribunale di Roma (Ordinanza del 16 luglio 2015 Giudice dott. Moriconi) ha ribadito che la consulenza tecnica in mediazione, oltre ad essere espressamente prevista dall'art. 8, comma 4, d.lgs. n. 28/2010, è un atto non privo di utilità, attesa la sua utilizzabilità nel successivo eventuale giudizio. Si precisa che le parti ed il mediatore potranno sottoporre al consulente i quesiti che rispondano nel modo più efficace agli interessi coinvolti nella lite e il lavoro svolto dal consulente nel corso della procedura di mediazione può essere realmente efficace, ai fini conciliativi. La sezione 13ª del tribunale di Roma, nell'ordinanza del 17 marzo 2014, ha ritenuto producibile in giudizio la consulenza effettuata, con l'accordo delle parti, nel procedimento di mediazione e conclusosi con esito negativo ritenendo che alcuna norma del d.lgs. n. 28/2010 faccia divieto di utilizzo nella causa della relazione dell'esperto, fermo restando il generale obbligo di riservatezza anche del consulente, come di tutti gli altri soggetti che intervengono nel procedimento. Una esplicita conferma di quanto precede viene dal giudicante ricavato dall'ultima parte dell'articolo 10, comma 1, del d.lgs. n. 28/2010 che fa salvo il consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, così confermando che il consenso per l'utilizzazione in ambito diverso dal procedimento di mediazione all'interno del quale (le dichiarazioni) sono emerse sia necessario solo per le dichiarazioni delle parti. Lo stesso giudice ricorda nell'ordinanza, tuttavia, che tale consulenza non avrà nel giudizio valore di CTU bensì di prova atipica con la conseguenza che «il giudice potrà utilizzare tale relazione secondo scienza e coscienza, con prudenza, secondo le circostanze e le prospettazioni, istanze, i rilievi delle parti. Meno frequentemente per fondarvi la sentenza, più spesso per trarne argomenti ed elementi utili informazioni del suo giudizio. Ovvero, aspetto niente affatto secondario per costituire il fondamento conoscitivo e il supporto motivazionale (più o meno espresso) della proposta del giudice ai sensi dell'articolo 185-bis c.p.c.». L'ambito delle cd. prove atipiche può rappresentare, pertanto, una delle modalità di ingresso nel processo della CTU espletata nell'ambito della mediazione. Le prove atipiche sono conosciute anche nel nostro sistema processuale civile nel quale «manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova» come ribadito di recente dalla Suprema Corte nella sent. n.13229/2015 «…nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, è ammessa la possibilità che egli ponga a fondamento della decisione anche prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione (con richiami a Cass. civ., 5 marzo 2010, n. 5440; Cass. civ., 8 maggio 2006, n. 10499). Analoghe considerazioni si leggono in Cass. civ., sent., n.840/2015 «il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova» (costituita, nella specie, da una deposizione testimoniale resa in assenza del contraddittorio nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un avvocato nella fase svoltasi dinanzi al consiglio dell'ordine locale, culminato poi nella decisione del Consiglio Nazionale Forense, giudice speciale istituito con il d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382).
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