Licenziamento disciplinare e il principio del “ne bis in idem”

Barbara Fumai
25 Giugno 2018

L'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare, che un'identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica” (in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, n. 18640, Grande Stevens ed altri contro Italia, che ha affermato la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di “ne bis in idem”).
Il caso

La Società datrice di lavoro, nel mese di luglio 2008, a conclusione del procedimento disciplinare, sospendeva dal servizio e dalla retribuzione, per 10 giorni, il proprio dipendente C.C.

Nel successivo mese di ottobre 2008, il lavoratore patteggiava la pena di anni uno, mesi quattro e giorni venti di reclusione nel processo che lo vedeva imputato per i reati di peculato e falso in relazione a due degli addebiti oggetto del procedimento disciplinare.

In data 7 ottobre 2009, l'azienda effettuava una nuova contestazione disciplinare al dipendente per i fatti oggetto del processo penale e, in data 4 novembre 2009, gli intimava il licenziamento senza preavviso.

Il lavoratore impugnava predetto licenziamento e ne otteneva la declaratoria di illegittimità con la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro.

Il Tribunale di primo grado fondava la propria decisione sulla violazione, da parte del datore di lavoro, del c.d. principio del ne bis in idem dal momento che il datore di lavoro, con l'irrogazione della sanzione conservativa, aveva esaurito il proprio potere disciplinare.

La pronuncia veniva successivamente confermata dalla Corte d'appello.

La società convenuta proponeva, allora, ricorso per Cassazione.

La questione

Il datore di lavoro ha fondato il proprio ricorso avanti la Suprema Corte sulla pretesa violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché dell'art. 2119 c.c., sostenendo l'assoluta novità della condanna penale rispetto alla mera irregolarità amministrativa contestata in precedenza, condanna penale che la Corte d'appello avrebbe omesso di considerare, ritenendo - al contrario – che la condotta contestata, benché in due momenti diversi, fosse la medesima, in altri termini, il medesimo fatto.

La questione riguarda, quindi, la corretta interpretazione della locuzione “medesimo fatto”, ovvero se la stessa debba essere riferita al solo accadimento storico oppure anche alla diversa valutazione giuridica di quel determinato accadimento.

Nel caso di specie, inoltre, il datore di lavoro aveva fatto espressa riserva, nell'irrogare i provvedimenti disciplinari, circa la possibilità di adottare ulteriori provvedimenti all'esito del giudizio penale.

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento alla questione dedotta circa la “assoluta novità” della condanna penale, rispetto alle irregolarità amministrative in precedenza contestate, la Corte di cassazione si è limitata a rilevare come entrambi i giudici di merito avessero ritenuto perfettamente sovrapponibili le condotte ascritte in sede disciplinare e penale, giungendo alla conclusione di ritenere rilevante il fatto storico in sé e non la sua qualificazione giuridica.

In tal senso, del tutto irrilevante sarebbe stata anche l'eventuale riserva del datore di lavoro circa l'adozione di ulteriori e futuri provvedimenti.

Fatte queste brevi puntualizzazioni, la pronuncia in commento ha rigettato il ricorso promosso dal datore di lavoro considerata la sua manifesta infondatezza.

È, infatti, opinione unanime in giurisprudenza – tanto di merito, quanto di legittimità – che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare, nei confronti del lavoratore, in relazione a determinati fatti, non possa esercitarlo nuovamente per quegli stessi fatti, perché quel potere si è “consumato”. Al datore di lavoro è consentito solamente, ai sensi dell'art. 7 St. lav., tenere conto della sanzione applicata ai fini della recidiva entro il biennio (Cass. civ., sez. lav., 12 settembre 2016, n. 17912; Cass. civ., sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 22388; Cass. civ., sez. lav., 2 aprile 1996, n. 3039; tra le pronunce di merito Tribunale di Bari, sez. lav., 6 marzo 2018).

Tale interpretazione risulta condivisa anche dalla giurisprudenza delle Corti europee. Di recente, infatti, la Corte europea dei diritti dell'Uomo ha riconosciuto la “violazione del "ne bis in idem" quando vi sia una sentenza passata in giudicato per una "accusa in materia penale" e venga avviato, nei confronti delle stesse persone, un nuovo procedimento per fatti sostanzialmente identici” (Corte EDU, 4 marzo 2014, n. 18640, Grande Stevens ed altri contro Italia).

Anche secondo la giurisprudenza della Corte europea, il fatto da prendere in considerazione, ai fini della violazione del principio c.d. del “ne bis in idem”, è quello concreto, nella sua accezione storico – naturalistica, “agli effetti della verifica della compatibilità con la norma convenzionale, non interessa, perciò, se gli elementi costitutivi delle fattispecie astratte tipizzate dalle due norme sanzionatorie siano identici, ma solo se i fatti concreti che hanno dato luogo ai due procedimenti siano i medesimi” (così Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia).

Osservazioni

Sulla base della decisione in commento e della giurisprudenza sul punto, anche la fattispecie in questione, dal momento che il datore di lavoro ha esercitato il potere disciplinare relativamente al fatto contestato e che il medesimo fatto è stato oggetto del procedimento penale, è da ricondurre all'ambito di applicazione del principio c.d. del ne bis in idem, in virtù del quale non è possibile attribuire due volte uno stesso fatto al medesimo autore.

Il divieto di bis in idem è principio comune a molti ordinamenti, riconosciuto anche a livello sovranazionale, e si esprime nella impossibilità di instaurare nuovi procedimenti su fatti che siano già stati oggetto di un precedente giudizio.

La pronuncia esaminata ha fatto corretta applicazione di questi principi, anche in considerazione di quanto stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella sentenza sopra citata (Grande Stevens c. Italia), che avrebbe esteso a tutti i campi del diritto l'applicazione del principio c.d. del ne bis in idem.

Viene, inoltre, in considerazione un altro punto fermo del nostro ordinamento, quello, cioè, della separazione tra il potere disciplinare e quello penale. Tant'è che, qualora il comportamento del lavoratore possa rilevare sotto il duplice profilo, il datore di lavoro può esercitare il proprio potere disciplinare indipendentemente dagli sviluppi del procedimento penale.

Anche nei confronti dei pubblici dipendenti, la riforma cd. Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009) ha eliminato la regola della sospensione necessaria del procedimento “disciplinare” in attesa della conclusione di quello penale.

La possibile coesistenza dei due procedimenti, nonché della duplice sanzione, si giustificano in ragione delle diverse finalità perseguite nei due ambiti.

L'azione disciplinare, infatti, è volta a tutelare il funzionamento della realtà imprenditoriale e l'esercizio del potere disciplinare è discrezionale; diversamente, l'azione penale si pone a garanzia degli interessi della collettività intera, senza contare l'obbligatorietà dell'esercizio della stessa.

Tradizionalmente, l'operatività del principio c.d. del ne bis in idem è stato ricondotto alla “materia penale” e, dunque, ai procedimenti e alle sanzioni di tipo penale.

Pertanto, al fine di estenderne l'applicazione al potere disciplinare, occorre stabilire se la sanzione disciplinare possa essere ricondotta, o meno, a tale ambito. A tal fine la giurisprudenza della Corte Europea ha individuato tre criteri: a) qualificazione giuridica, interna, della misura; b) natura della misura; c) gravità o severità della stessa.

La sanzione disciplinare non è definita come penale dal nostro ordinamento, la sua natura non è penale e non ne condivide l'afflittività, in quanto in nessun caso si traduce in una restrizione della libertà personale.

L'estensione della portata applicativa della pronuncia della Corte EDU (Grande Stevens c. Italia) potrebbe, pertanto, apparire una distorsione del fine perseguito, quantomeno se intesa in una necessità di coordinamento del procedimento disciplinare con quello penale o di prevalenza dell'uno sull'altro.

Assume, però, rilevanza interna al procedimento disciplinare, il principio di consumazione del potere disciplinare, essendo vietato che “un'identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica” (cfr. ordinanza in commento).

In tale affermazione risiede, dunque, la fondatezza della pronuncia in esame.

Nell'ambito del pubblico impiego, pare invece esistere una deroga al principio del ne bis in idem inteso come “consumazione” del potere disciplinare.

Dispone, infatti, l'art. 55 ter, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001 che “se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.

Il datore di lavoro pubblico, dunque, pare obbligato a riaprire il procedimento disciplinare già concluso, al fine di adeguarne l'esito a quello del processo penale.

Tale scelta pare giustificata dalla prevalenza accordata al dettato dell'art. 97 Cost., il quale impone che l'azione amministrativa assicuri il buon andamento, l'imparzialità e la trasparenza della pubblica amministrazione.

Per esigenze di coerenza del sistema, tuttavia, ci si aspetterebbe che il ne bis in idem trovasse piena applicazione sia nell'ambito del lavoro privato, quanto in quello del lavoro pubblico, onde evitare una disparità di trattamento dei lavoratori, in contrasto con la garanzia costituzionale.