Equiparazione del procedimento di separazione a quello di divorzio in materia di status

25 Giugno 2018

La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, ha stabilito se sia legittima, anche nel procedimento di separazione, l'emanazione della pronuncia non definitiva sullo status.
Massima

La disposizione di cui all'art. 709-bis c.p.c., come modificata dall'art. 1, comma 4, della l. n. 263/2005, sancisce esplicitamente in materia di pronuncia immediata sullo status, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, così evitando condotte processuali dilatorie tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio status.

Il caso

La Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 20666 del 31 agosto 2017, ha rigettato il ricorso avverso la pronuncia della Corte di appello di Roma depositata il 24 gennaio 2016, affermando che la novellata disposizione di cui all'art. 709-bis c.p.c. sancisce in maniera esplicita - in materia di pronuncia immediata sullo status - la già ritenuta equiparazione tra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, così evitando condotte processuali dilatorie tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti di ottenere una pronuncia sollecita sul proprio status.

Il Tribunale di Roma con sentenza non definitiva del 23/24 ottobre 2012 aveva pronunciato la separazione giudiziale dei coniugi, avverso la quale la convenuta in primo grado aveva proposto appello, deducendo, tra gli altri motivi, il mancato accertamento della irreversibilità della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza e l'incostituzionalità della disciplina che consente la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva perché in contrasto con gli artt. 3, 29 e 11 della Costituzione.

Con la sentenza del 10 dicembre 2015, depositata il 24 gennaio 2016, la Corte d'appello di Roma aveva respinto il gravame rilevando che, con la novella dell'art. 709-bis c.p.c. introdotta con legge n. 263/2005, sussiste per il giudice l'obbligo e non più la facoltà di pronunciare, anche con sentenza non definitiva, sullo status, a prescindere dall'impulso di parte.

Avverso la pronuncia di secondo grado l'appellante soccombente ha presentato ricorso in Cassazione.

La questione

L'art. 709-bis c.p.c., (introdotto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, come modificato dall'art. 1, comma 4, l. n. 263/2005), che regolamenta gli adempimenti del giudice istruttore all'udienza di comparizione e trattazione, prevede che se il processo debba continuare per le ulteriori richieste (di addebito, per l'affidamento dei figli o per le questioni economiche) il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione.
Nella decisione in esame la Suprema Corte chiarisce alcuni profili interpretativi della stessa.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 709-bis c.p.c. riproduce, per i procedimenti di separazione, nella medesima formulazione, quanto già previsto per il divorzio dall'art. 4, comma 9, legge n. 898/1970, così evidenziando l'eadem ratio dei due procedimenti e la sostanziale omogeneità della materia.

Antecedentemente, il problema che si era posto all'interprete era quello dell'ammissibilità di una pronuncia non definitiva sulla separazione in assenza di una disciplina espressa del tenore di quella del richiamato art. 4, legge n. 898/1970.

Al riguardo, se la prevalente giurisprudenza di merito sin dagli anni '90 aveva ammesso che nel processo di separazione potesse essere emanata una sentenza non definitiva sullo status, dotata di una propria autonomia concettuale dalla statuizione sull'addebito, anche ai fini del passaggio in giudicato (v., in merito, tra le altre, Trib. Milano, 16 dicembre 1992), la giurisprudenza di legittimità tendenzialmente aveva negato tale possibilità, sul presupposto della sostanziale dipendenza strutturale della pronuncia dell'addebito da quella sullo stato, configurando un unico capo della decisione (in questo senso si era espressa, tra le altre, Cass. civ., 14 giugno 2000, n. 8106; in senso contrario, invece, Cass. civ., 29 novembre 1999, n. 13312).

Con la pronuncia delle Sezioni Unite del 3 dicembre 2001, n. 15248, si afferma, invece, anche in sede di legittimità, l'orientamento (poi consolidato nella giurisprudenza successiva, Cass. civ., n. 16985/2007; Cass. civ., n. 12284/2005; Cass. civ., n. 15157/2005) alla stregua del quale il giudice del merito, in applicazione dell'art. 277, comma 2, c.p.c., può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponda a un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di ulteriore istruzione, con conseguente formazione del giudicato sulla pronunzia parziale di separazione non impugnata e proponibilità, in tale ipotesi, della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonostante il protrarsi della contesa sull'addebito.

Con la novella del 2005, che sostanzialmente recepisce l'indirizzo giurisprudenziale favorevole, viene colmata la lacuna normativa dianzi accennata e, legittimandosi anche nel procedimento di separazione l'emanazione della sola pronuncia sullo status, si sancisce l'equiparazione con il procedimento divorzile.

La questione che si è posta agli interpreti è stata quindi quella se, con la locuzione «il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione» il legislatore del 2005 abbia voluto rendere la pronuncia in parola doverosa per il giudice, senza necessità di una apposita istanza di parte.

In effetti, l'idea che l'emanazione della sentenza parziale possa avvenire anche ex officio e senza necessità di un'apposita istanza si era fatta strada anche in passato, sulla scorta della specialità dell'art. 4, comma 12, l. n. 898/1970 (e analogo ragionamento potrebbe valere oggi anche per l'art. 709-bis c.p.c. per la separazione).

Al riguardo, proprio nella pronuncia del 22 giugno 2012, n. 10484 - richiamata espressamente nell'ordinanza in commento - la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare che con la locuzione «il tribunale emette sentenza non definitiva relativa alla separazione», il legislatore del 2005 avrebbe eliminato ogni valutazione di discrezionalità circa l'emanazione della sentenza parziale sullo status, per cui non sarebbe necessario l'impulso di parte, dovendosi considerare che la ratio dell'intera disposizione, soprattutto con riferimento all'impossibilità di differire l'impugnazione, ma anche, evidentemente, in relazione ai tempi richiesti per l'emanazione della pronuncia in merito allo status, andrebbe individuata proprio nella finalità di evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio status (sulla medesima linea, Cass. civ., 23 gennaio 2009, n. 1731; Cass. civ., 16 aprile 1996, n. 3596)

Con la pronuncia oggi in esame la Corte ribadisce, in primo luogo, l'assoluta convergenza dell'art. 4 l. n. 898/1970 e dell'art. 709-bis c.p.c. sotto i profili della natura, che attiene a pronunce allo status delle parti, e della ratio, tendente ad evitare condotte defatigatorie e conferma, nuovamente, che la pronuncia non definitiva sullo status costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo, al fine di evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio stato.

Sottolinea inoltre, in merito all'intollerabilità della convivenza, un altro principio ormai consolidato, a tenore del quale la stessa può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, non essendo necessaria la derivazione da fatti oggettivi (cfr. di recente, Cass. civ., 29 aprile 2015, n. 8713).

Infine, con riferimento alla sollevata questione di costituzionalità, i giudici del Supremo Collegio sottolineano ulteriormente come la pronuncia parziale sullo status non determina un'arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell'art. 4, legge n. 898/1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l'effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell'assegno di divorzio (in questo senso v. Cass. civ., 22 aprile 2010, n. 9614).

Osservazioni

L'apprezzabile interesse della parte ad una sollecita definizione (quanto meno in punto di stato) del procedimento di separazione come ratio giustificatrice della previsione espressa dell'art. 709-bis c.p.c. si fonda sulla circostanza, normativamente prevista che, pur nella sostanziale autonomia dei due procedimenti, presupposto indefettibile per la proposizione della domanda di divorzio (con la sola eccezione delle ipotesi di divorzio diretto di cui all'art. 3 l. n. 898/1970) è il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, pena l'inammissibilità della domanda di divorzio.

In conclusione, con l'immediata pronuncia sullo status sin dalla prima udienza dinnanzi al giudice istruttore, la parte che ne ha interesse può proporre senza indugio ricorso per divorzio, verificandosi, all'esito, la contemporanea pendenza dei due giudizi, tenuto conto del tempo necessario all'istruzione delle domande accessorie formulate nel giudizio di separazione.

Riferimenti
  • Cipriani, Rimessione al Collegio e sentenza non definitiva, in Foro it., 480 e ss.; La riforma dei processi di separazione e divorzio, 408;
  • Danovi, Le nuove norme sui procedimenti di separazione e divorzio, in RDPr., 2005, 849 e ss.;
  • Danovi, I rapporti tra il processo di separazione ed il processo di divorzio alla luce della l. n. 55/2015, in Famiglia e Diritto, 2016, 11, 1093;
  • Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, Torino 2009, III, 107;
  • Tommaseo, La disciplina processuale della separazione e del divorzio dopo le riforme del 2005 (e del 2006), in Famiglia e diritto, 2006, 1, 5.

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