Recenti declinazioni del principio di riparto dell'onere della prova nella giurisprudenza di legittimitàFonte: Cod. Civ. Articolo 2697
10 Luglio 2018
Premessa
L'art. 2697 c.c., in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi. Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio dell'omessa prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui manchi, anche in via presuntiva, la dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di provare la sussistenza dello stesso. La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima nella prassi giudiziaria che non sempre appare coerente con il rispetto meramente “formale” di tale canone, considerando sempre più criteri, talvolta in diretto contrasto, come quello della cd. riferibilità della fonte di prova. Cause in tema di diritti reali
Come noto, la prova di norma richiesta nell'azione di rivendicazione della proprietà è particolarmente rigorosa e si sostanzia nella dimostrazione dell'esistenza non solo del proprio titolo di acquisto quanto altresì della sussistenza di titoli idonei di proprietà in capo ai precedenti proprietari del bene sino a risalire al ventennio necessario per il maturare dell'usucapione (cfr., tra le molte, Cass. civ., sez. II, n. 5487/2002, la quale ha tuttavia precisato che l'onere della cosiddetta probatio diabolica incombente sull'attore si attenua quando il convenuto si difenda deducendo un proprio titolo d'acquisto, quale l'usucapione, che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene rivendicato ai danti causa dell'attore, atteso che, in tali ipotesi, detto onere può ritenersi assolto, in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, con la dimostrazione della validità del titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere). É stato recentemente precisato che questi assunti operano anche nell'ipotesi di azione formulata per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso. La necessità della cd. probatio diabolica della titolarità del proprio diritto è stata giustificata evidenziando che si tratta di un onere da assolvere ogni volta che sia proposta un'azione, inclusa quella di accertamento, che si fonda sul diritto di proprietà tutelato erga omnes (Cass. civ., sez. II, n. 1210/2017). In una recente decisione, la Suprema Corte ha inoltre “fatto il punto” circa il diverso onere istruttorio gravante sull'attore nelle azioni di negatoria servitutis, rivendica e confessoria servitutis, premettendo che le stesse si differenziano in quanto l'attore, con la prima, si propone quale proprietario e possessore del fondo, chiedendone il riconoscimento della libertà contro qualsiasi pretesa di terzi, con la seconda, si afferma proprietario della cosa di cui non ha il possesso, agendo contro chi la detiene per ottenerne, previo riconoscimento del suo diritto, la restituzione e con la terza, infine, dichiara di vantare sul fondo, che pretende servente, la titolarità di una servitù (Cass. civ., sez. II, n. 472/2017).
Quanto al danno risarcibile, in controtendenza rispetto ai criteri generali per i quali lo stesso è, anche ove non patrimoniale, danno-conseguenza che postula la dimostrazione, anche in via presuntiva, da parte del danneggiato dei pregiudizi concretamente subiti, la giurisprudenza recente della Suprema Corte appare incline a ritenere che in tema di servitù prediali, il danno derivante dalla limitazione del relativo esercizio deve ritenersi in re ipsa, sicché non è necessaria la prova dello stesso (Cass. civ., sez. II, n. 8511/2017). Su un piano generale è stato inoltre ribadito che, qualora si proponga una domanda avente come fatto costitutivo la detenzione della cosa da parte del convenuto, incombe sull'attore l'onere di provare la natura del potere fattuale esercitato dalla controparte, operando, in difetto, la presunzione di possesso sancita dall'art. 1141 c.c. (Cass. civ., sez. III, n. 14640/2017). Controversie in materia negoziale
Su un piano generale, occorre ricordare che trovano ancor oggi applicazione i principi enunciati dalle Sezioni Unite nel leading case del 2001, in omaggio ai quali, in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l'adempimento deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile quando è sollevata eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. (cfr., tra le molte, Cass. civ., sez. III, n. 826/2015). In conformità con tali enunciati, che tengono conto della presunzione di responsabilità del “debitore” della prestazione posta dall'art. 1218 c.c., si pone la recente giurisprudenza della Corte di cassazione.
Come noto, nell'assetto antecedente alle recenti riforme normative ed in particolare a quella realizzata dalla legge cd. Gelli-Bianco, la responsabilità, anche del medico curante “non strutturato”, è stata ricostruita nella prassi giurisprudenziale in termini di responsabilità contrattuale con le relative conseguenze sul riparto dell'onere probatorio in ragione di quanto affermato dall'art. 1218 c.c.. È ricorrente, in questa prospettiva, l'assunto per il quale, in tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare qualificate inadempienze, astrattamente idonee a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo, invece, a carico del debitore convenuto l'onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (v., tra le tante, Cass. civ., sez. III, n. 24073/2017). Più di recente, è stato precisato che, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza (Cass. civ., sez. III, n. 18392/2017). É stato per altro verso ribadito, con dovizia di argomentazioni, che la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all'autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l'obbligo di fornire informazioni dettagliate sull'intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l'onere di provare il corretto adempimento dell'obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l'ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, se correttamente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda ad un esito infausto prevedibile ex ante nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell'accertamento del danno, graverà sul paziente l'onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento (Cass. civ., sez. III, n. 24074/2014). Occorre premettere che, in termini generali, il danneggiato ex art. 2043 c.c. è tenuto a dimostrare gli elementi costitutivi dell'illecito ossia il fatto, il danno conseguente e, sul piano soggettivo, il dolo o la colpa del soggetto agente. Vi sono, tuttavia, ipotesi nelle quali opera una presunzione di responsabilità in capo al presunto autore dell'illecito, sicché al danneggiato non compete la dimostrazione dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo allo stesso, ma soltanto quello della ricorrenza del nesso di causalità tra fatto e danno.
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