Protezione degli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale e i "reati gravi contro il sistema comune dell'IVA"
Giovanna Costa
12 Luglio 2018
L'articolo in commento è dedicato alla Direttiva n. 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017. Dopo un rapido excursus storico e sull'oggetto della Direttiva, si analizzano la nozione e i parametri di grave frode IVA, considerata quale reato che lede gli interessi finanziari dell'Unione. Con riferimento a tale fattispecie incriminatrice si dà conto dei riverberi sul nostro ordinamento, in particolare guardando all'obbligo di criminalizzazione degli enti.
La tutela penale degli interessi finanziari dell'Unione: il punto di approdo di una evoluzione ventennale
La frode ai danni degli interessi finanziari comunitari è da tempo considerata un “flagello riconosciuto e denunciato da tutti i paesi dell'Unione” (in tal senso Risoluzione del Parlamento europeo sul Libro verde della Commissione sulla tutela penale degli interessi finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea - P5_TA(2003)0130).
Tuttavia la via europea di contrasto al citato fenomeno si è rivelata negli anni debole e inadeguata (nel 1995 sono stati adottati, sulle diverse basi giuridiche allora disponibili (art. 235 TCE per il regolamento e art. K.3 TUE per la convenzione, ovviamente secondo le versioni dei trattati all'epoca vigenti), due atti importanti: nel luglio di quell'anno è stato assunto, dal Consiglio, un atto contenente la proposta di convenzione relativa alla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee, poi sottoscritta e divenuta nota sotto l'etichetta di Convenzione PIF; nel mese di dicembre, invece, il Consiglio ha adottato il Regolamento CE/Euratom n. 2988/95, con cui si stabiliva un sistema di sanzioni amministrative a presidio delle finanze comunitarie.) sicchè, anche alla luce del mutato contesto istituzionale e delle potestà normative, si è avviato un intenso dibattito volto a migliorare un sistema ritenuto insufficiente a tutelare gli interessi finanziari europei.
Il 2017 ha rappresentato l'anno in cui il lungo lavorio, che ha scontato la ritrosia degli Stati membri a cedere parte della propria sovranità in settori delicati come quello penale e fiscale, è giunto ad una sintesi con l'emanazione di due importanti atti:
- Il Regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio del 12 ottobre 2017 relativo all'attuazione di una cooperazione rafforzata sull'istituzione della Procura europea («EPPO»);
- La Direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale (c.d. Direttiva PIF).
Le due misure disegnano un approccio sostanziale e processuale di interventi correlati e complementari: la Procura europea, con sede in Lussemburgo, è infatti competente per tutti i reati lesivi degli interessi finanziari dell'Unione europea contemplati nella Direttiva 2017/1371 nonché al sussistere di specifiche condizioni indicate nel Regolamento, per qualsiasi altro reato “indissolubilmente legato” ad un reato PIF.
La Direttiva PIF: base giuridica e contenuto
Successivamente all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Commissione (COM (2011) 293) ha evidenziato come, nonostante i progressi compiuti negli ultimi quindici anni, il livello di tutela penale degli interessi finanziari dell'UE fosse caratterizzato da un quadro giuridico e procedurale frammentario. Malgrado i tentativi volti a stabilire norme minime nel settore, la convenzione del 1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari dell'UE e gli atti collegati non erano esenti da criticità già rappresentate nelle relazioni della Commissione sull'attuazione di queste iniziative (COM (2004) 709 e COM (2008) 77).
Un intervento più deciso è stato reso possibile dalle maggiori competenze dell'UE in virtù del Trattato di Lisbona che ha rafforzato gli strumenti (artt. 82,83,85,86 e 325 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea – TFUE) a norma dei quali le istituzioni UE e gli Stati membri sono tenuti a combattere tutte le attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione.
La prima proposta di Direttiva risale al 2012 avente base legale il rinnovato art. 325 TFUE che, post Lisbona, non trova più limiti di applicazione al diritto penale (ed infatti la più rilevante novità del testo dell'art. 325 rispetto all'art. 280 del Trattato di Amsterdam è la scomparsa dell'ultima parte la quale stabiliva che le misure che il Consiglio poteva adottare in materia di lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione non riguardavano “l'applicazione del diritto penale nazionale o l'amministrazione della giustizia negli Stati membri”).
Tuttavia, dopo le negoziazioni, il Consiglio non solo ha revisionato l'articolato proposto dalla Commissione, ma anche assunto come base giuridica l'art. 83, par. 2 TFUE al posto del preselezionato art. 325 privilegiando, nonostante la maggiore ampiezza di quest'ultimo (in termini di, inter alia, assenza di vincoli sullo strumento legislativo adottabile), l'interpretazione secondo cui è nell'art. 83 che va ravvisata la base legale per interventi legislativi in materia penale.
Si è così giunti all'approvazione della Direttiva 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale, la quale segna una tappa importante nella definizione degli obblighi di criminalizzazione in capo agli Stati membri delle frodi gravi che pregiudicano i predetti interessi.
La Direttiva (come si evince dall'art. 1) dispone le “norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni in materia di lotta contro la frode e altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, al fine di rafforzare la protezione contro reati che ledono tali interessi finanziari, in conformità dell'acquis dell'Unione in questo settore”.
Tale articolo sposa gli intenti dei quarto e del sedicesimo considerando, laddove si afferma la necessità di procedere al ravvicinamento dei precetti penali degli Stati membri per condotte più gravi fermo restando che la Direttiva detta solo norme minime, cosicchè gli Stati possono mantenere in vigore o adottare norme più rigorose.
L'articolo 2 fornisce le definizioni di “interessi finanziari” (lett. a), “persona giuridica” (lett. b) e chiarisce, con riguardo alle risorse che provengono dall'Iva, che la Direttiva si applica unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell'imposta.
Il titolo II (artt. 3 e 4) è dedicato ai reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione. In particolare l'art. 3, par. 2 si diffonde sulla nozione di frode lesiva degli interessi finanziari distinguendo:
(i) la materia delle spese sostenute dall'Unione e non relative agli appalti;
(ii) la materia delle spese sostenute dall'Unione e relative agli appalti;
(iii) la materia delle entrate dell'Unione, diverse dalle risorse proprie provenienti dall'Iva;
(iv) la materia delle entrate derivanti dalle risorse Iva.
L'art. 4 riguarda altri reati che, pur essendo diversi dalle condotte fraudolente già elencate e finalizzate direttamente ad arrecare un danno agli interessi finanziari dell'Unione, possono essere altrettanto lesive: riciclaggio riguardante beni provenienti dai reati rientranti nell'ambito di applicazione; corruzione e appropriazione indebita.
Il titolo III contiene diverse disposizioni generali di notevole portata quali le norme sull'istigazione, concorso, favoreggiamento e tentativo (art. 5); la responsabilità delle persone giuridiche che hanno ottenuto un beneficio dalla consumazione del reato (art. 6) le quali possono essere destinatarie di sanzioni pecuniarie o di altra natura (che spaziano dall'esclusione di un beneficio/aiuto pubblico fino alla chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti, art. 9); l'ipotesi della consumazione del reato nel contesto di una organizzazione criminale intesa quale aggravante (art. 8). Con riferimento alle persone fisiche si prevede la pena massima della reclusione e che, in casi di danni e vantaggi al di sotto della soglia di diecimila euro, possono essere irrogate sanzioni di natura non penale (art. 7).
Potranno essere disposte misure quali congelamento e confisca dei beni da reato in conformità con quanto previsto dalla Direttiva 2014/42/UE (art. 10) e sono definiti i criteri per stabilire la giurisdizione di ciascun stato membro nel rispetto dei principi di territorialità e personalità (art. 11).
Importante, anche alla luce del c.d. caso Taricco (Corte di Giustizia UE, sentenza dell'8 settembre 2015, C-105/14), la disposizione sulla prescrizione del reato (art. 12) in base alla quale è richiesto agli Stati di adottare un termine prescrizionale che consenta l'inizio di un procedimento penale e la sua conclusione con sentenza entro un congruo lasso di tempo successivamente alla commissione di tali reati, al fine di contrastarli efficacemente. In particolare, per i reati punibili con una pena massima di almeno quattro anni di reclusione, il termine di prescrizione dovrà essere previsto in modo tale che le attività processuali possano intervenire per un periodo di almeno cinque anni dal momento in cui il reato è stato commesso. Tale termine può essere ridotto a non meno di tre anni se è previsto che tale termine possa essere interrotto o sospeso in caso di determinati atti. Rileva poi la previsione di un termine ad hoc per l'estinzione della pena, a definitiva conferma della compatibilità della prescrizione, sia del reato che della pena, con il diritto UE.
Infine, prima di chiudere con le disposizioni finali del titolo IV, è stabilito che la Direttiva non pregiudica il recupero delle somme indebitamente pagate nel quadro della commissione dei reati (art. 13) e che gli Stati membri provvedano affinché qualsiasi procedimento penale avviato sulla base di disposizioni nazionali non pregiudichi l'applicazione adeguata ed efficace di misure amministrative, pene e ammende non assimilabili ad un procedimento penale, disposte dal diritto dell'Unione o da disposizioni nazionali di attuazione (art. 14).
Gli Stati membri devono conformarsi alla Direttiva entro il 6 luglio 2019 (art. 17).
Le c.d. gravi frodi IVA nell'ambito di applicazione della Direttiva PIF e le conseguenze per l'ordinamento italiano
Tanto premesso, si osserva come, guardando al quadro generale, l'Italia non sia lontana da quanto rappresentato dal legislatore europeo: non sembrano, infatti, emergere particolari elementi di novità – tranne per quanto si dirà infra sub. par. 4 – per l'ordinamento italiano che già appronta, per le descritte figure di reato, misure che soddisfano gli standard minimi previsti dalla Direttiva.
La novità sta, invece, nella previsione di una nozione di frode Iva “grave” contemplata dagli artt. 2, comma 2 e 3, comma 2, lett. d) della Direttiva.
In tale fattispecie rientrano, in base all'art. 3, comma 2, lett. d) citato, tre condotte illecite:
(i) utilizzo o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all'Iva cui consegua una diminuzione di risorse del bilancio UE;
(ii) mancata comunicazione di una informazione relativa all'Iva in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto;
(iii) presentazione di dichiarazioni esatte relative all'Iva per dissimulare in maniera fraudolente il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi del tributo.
La Direttiva richiede una precisa soglia di rilevanza ed una componente di transnazionalità dell'illecito. Ed invero l'art. 2, comma 2 individua i parametri che segnano la “gravità” della frode Iva in:
(i) la connessione delle azioni od omissioni di carattere intenzionale al territorio di due o più Stati membri e
(ii) un danno complessivo pari ad almeno dieci milioni di Euro.
Ne discende che, in assenza delle condizioni suddette, l'illecito tributario non è considerato “grave” ai sensi della Direttiva e la sua repressione è consegnata agli strumenti interni dello Stato membro.
Considerato che già sotto il profilo delle fattispecie incriminatrici, della prescrizione e delle pene, l'Italia non appare in ritardo rispetto ai nuovi adempimenti richiesti dall'Unione europea*, la conseguenza più importante per il nostro ordinamento è dato dall'impatto della Direttiva sul sistema della responsabilità da reato delle persone giuridiche.
*In evidenza:
La Direttiva ha definitivamente messo un punto alla vivace querelle sui termini prescrizionali italiani valevoli per i reati tributari, a seguito della celebre sentenza Taricco, in cui la Corte di Giustizia hanno giudicato inefficace la normativa italiana sulla prescrizione dei reati tributari statuendo che la disciplina dettata dagli artt. 160 e 161 c.p. in relazione ai procedimenti riguardanti frodi gravi in materia di Iva fosse “idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'art. 325, par. 1 e 2 TFUE nell'ipotesi in cui detta normativa nazionale (impedisse) di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea”. Con la Direttiva PIF è adesso normativamente previsto, e non più rimesso alle valutazioni dei giudici, l'obbligo di prevedere un termine prescrizionale che consenta l'inizio di un procedimento penale e la sua conclusione con sentenza. Sul punto, a seguito dell'ordinanza della Corte Costituzionale n. 24/2017, si era ancora pronunciata la Corte di Giustizia nella sentenza del 5 dicembre 2017, causa C-42/17 che ha riconosciuto che – in ordine alla disciplina del termine di prescrizione – la Repubblica Italiana godeva di un ampio margine di apprezzamento, posto che “nella fattispecie, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell'Unione, armonizzazione che è successivamente avvenuta, in modo parziale, solo con l'adozione della Direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017”.
L'ordinamento italiano non presenta particolari problemi in relazione alla determinazione del termine prescrizionale, considerato che le nostre norme prevedono termini superiori rispetto a quelli previsti in altri Stati europei. I problemi, piuttosto, potrebbero emergere con riferimento alla predisposizione delle misure necessarie a concludere il processo entro lo spirare del termine. Tale aspetto sarà vigilato dalla Commissione che, ai sensi dell'art. 18 della Direttiva PIF, è responsabile di aggiornare, con apposite relazioni, Parlamento e Consiglio europei affinchè possano valutare l'adeguatezza delle misure adottate dai Paesi.
(segue) Gravi frodi Iva e criminalizzazione della persona giuridica
Come s'è visto, la Direttiva dispone l'obbligo per gli Stati membri di prevedere misure necessarie affinchè le persone giuridiche, nel cui interesse siano commessi i reati ivi contemplati, possano essere considerate responsabili.
Nessuna deroga è prevista per le frodi Iva, cosicchè il legislatore nazionale sarà tenuto, nel recepire la Direttiva, ad introdurre una specifica ipotesi di sanzione penale per le persone giuridiche nei casi in cui il reato di grave frode Iva sia stato commesso “a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica basata:
a) sul potere di rappresentanza della persona giuridica;
b) sul potere di adottare decisioni per conto della persona giuridica;
c) sull'autorità di esercitare un controllo in seno alla persona giuridica” (art. 6).
L'art. 9 prevede l'irrogazione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, tra cui come detto sopra – oltre alle sanzioni pecuniarie – anche misure di carattere interdittivo e provvedimenti quali l'assoggettamento a sorveglianza giudiziaria e lo scioglimento dell'ente. È altresì prevista (art. 10) l'adozione di misure necessarie per consentire il congelamento e la confisca degli strumenti e dei proventi dei reati.
Da questo punto di vista il recepimento della Direttiva richiederà, verosimilmente, di intervenire sul D.Lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti, prevedendo l'inserimento della fattispecie del reato tributario di grave frode Iva nel catalogo dei reati presupposto (ed invero, la responsabilità delineata dal D.Lgs. n. 231/2001, definita amministrativa ancorchè discenda e dipenda dal verificarsi di uno dei reati tassativamente indicati, si allontana dal paradigma di illecito amministrativo di cui alla L. n. 689/1981 per avvicinarsi a quello penale rappresentando, quindi, un tertium genus che unisce i tratti del sistema penale e di quello amministrativo).
Tale intervento, che appare inevitabile, si inserisce nel solco di un dibattito – anche giurisprudenziale – molto delicato.
È noto che fino ad oggi tra i reati previsti dal D. Lgs. n. 231/2001, da cui discende la responsabilità dell'ente, non sono contemplati i reati tributari (parte della giurisprudenza propugna la tesi secondo cui i delitti tributari sarebbero ascrivibili all'ente per il tramite del delitto di associazione per delinquere (reato presupposto ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001), vd. Cass. pen. 3 luglio 2014, n. 28960).
Ed infatti, se l'illecito fiscale determina una responsabilità penale, essa è ascrivibile unicamente alla persona fisica che ha materialmente commesso il fatto, anche se nell'interesse dell'ente (societas delinquere non potest).
A ciò si aggiunga che la disciplina sanzionatoria tributaria prevede, per le società e gli enti con personalità giuridica, la responsabilità diretta ed esclusiva per le sanzioni amministrative (Art. 7, comma 2, D.L. n. 269/2003).
Ne discende che, in caso di inserimento del reato tributario nel c.d. catalogo 231, la persona fisica risponderebbe delreato fiscale e la persona giuridica sarebbe destinataria sia delle sanzioni amministrative sia – in sede penale – quelle previste dal D. Lgs. n. 231/2001, con un effetto moltiplicatore delle sanzioni che non potrà essere ignorato.
Nella prospettiva del contribuente, considerato che il D.Lgs. n. 231/2001 prevede misure preventive costituite dai c.d. “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” che, se efficacemente adottate dall'ente, escludono quest'ultimo dalla responsabilità ai fini del predetto decreto, si assisterà ad una sempre più diffusa consapevolezza nell'adozione di procedure di gestione del rischio fiscaleanche all'interno di realtà non interessate – per motivi dimensionali – dalle varie forme di cooperative compliance.
In conclusione
La Direttiva PIF si inserisce in un ambito – quello della tutela degli interessi finanziari UE – da sempre presidiato dall'Unione (e prima ancora dalla CE).
L'ultimo sforzo del legislatore europeo potrebbe avere un impatto significativo sul nostro ordinamento in quanto, contemplando nel novero dei reati interessati dalla Direttiva anche le gravi frodi Iva, può rappresentare il primo passo per ricondurre i reati tributari nel novero dei reati-presupposto contemplati dal D.Lgs. n. 231/2001.
Le conseguenze sarebbero notevoli sia a livello normativo, imponendosi una valutazione complessiva sull'attuale sistema sanzionatorio, sia dei modelli organizzativi adottati dagli enti per il presidio del rischio fiscale.
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Sommario
La tutela penale degli interessi finanziari dell'Unione: il punto di approdo di una evoluzione ventennale
Le c.d. gravi frodi IVA nell'ambito di applicazione della Direttiva PIF e le conseguenze per l'ordinamento italiano
(segue) Gravi frodi Iva e criminalizzazione della persona giuridica