Licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto: vizi del recesso ed apparato sanzionatorio

Francesca Chietera
12 Luglio 2018

Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c.
Il caso

La questione riguarda il caso di un dipendente bancario licenziato prima dello spirare del periodo di comporto.

Nella fattispecie, il lavoratore, prima dello scadere del periodo di comporto, si era presentato al lavoro, ma la sua prestazione lavorativa era stata rifiutata dalla banca, in quanto non corredata dalla presentazione di un certificato medico di avvenuta guarigione.

Sia il Tribunale che la Corte di appello di Cagliari avevano rigettato l'impugnativa di licenziamento proposta dal lavoratore evidenziando che, sebbene il periodo di comporto non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, il recesso doveva considerarsi meramente inefficace fino all'ultimo giorno di malattia, e non, viceversa, nullo ab origine per violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c.

Sulla stessa decisione delle Sezioni unite v. anche il commento di L. di Paola, Il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo è nullo (e non inefficace o ingiustificato).

Le questioni

Le Sezioni unite sono chiamate a risolvere la questione, per la verità già in precedenza affrontata e risolta nei medesimi termini, del tipo di vizio che invalida il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto: in particolare, se debba ritenersi detto licenziamento nullo per violazione di norma imperativa (art. 2110, comma 2, c.c.), o se lo stesso possa ritenersi meramente inefficace, con la sola conseguenza del differimento del termine di efficacia del recesso allo scadere del periodo di comporto.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte a Sezioni unite ha definitivamente risolto il problema – ammesso che ci fosse – affermando in maniera netta che il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto deve considerarsi nullo e non già meramente inefficace.

A tale conclusione la Corte giunge in primo luogo partendo dalla qualificazione giuridica del licenziamento per superamento del periodo di comporto, che costituisce una particolare species del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ed in secondo luogo analizzando e ripercorrendo gli arresti giurisprudenziali intervenuti sul tema, sui quali si era creato contrasto nelle sezioni semplici, determinato da un'erronea interpretazione dei precedenti in materia.

In primo luogo, la Corte evidenzia che il licenziamento per superamento del periodo di comporto (nella duplice variante del comporto secco o frazionato) costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, non dovuta né ad un fatto dell'azienda né a colpa del lavoratore, donde la sua regolamentazione specifica, fin dall'entrata in vigore del codice civile, in una norma speciale (art. 2110, comma 2, c.c.).

L'art. 2110, comma 2, c.c., diversamente dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, l. n. 604 del 1966, è finalizzato a realizzare un punto di equilibrio fra l‘interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze potrebbero cagionare all'organizzazione aziendale.

Di qui la previsione – legislativa e contrattuale – di un'ipotesi peculiare di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che deve ritenersi integrata solo allorchè il periodo di comporto sia spirato.

Ricostruita la fattispecie, la Corte è chiamata a risolvere la questione – sulla quale si era creato contrasto, più apparente che reale per i motivi che si passano ad illustrare - in ordine al tipo di vizio che inficia il recesso intimato per superamento del periodo di comporto ma prima della sua scadenza.

Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite (Cass., sez. lav., ord. 19 ottobre 2017, n. 24766) in relazione al vizio che inficia il licenziamento intimato prima dello spirare del periodo di comporto si era creato un contrasto in seno alle sezioni semplici: da una parte, infatti, vi erano pronunce che ritenevano meramente inefficace il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto fino al perdurare della situazione ostativa, in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici ex art. 1367, c.c. (Cass., sez. lav., 4 luglio 2001, n. 9037, Cass., sez. lav., 10 febbraio 1993, n. 1657). Dette pronunce rimandavano ad altri precedenti della Corte, in cui veniva affermato il generale principio secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato durante il periodo di malattia deve ritenersi valido, ma sospeso negli effetti, fino al venir meno della causa ostativa (Cass., sez. lav., 10 ottobre 2013, n. 23063; Cass., 6 luglio 1990, n. 7098; Cass., 2 luglio 1988, n. 4394; Cass., 17 dicembre 1987, n. 9375; Cass., sez. lav., 29 giugno 1985, n. 3909; Cass., sez. lav., 15 maggio 1984, n. 2966; Cass., sez. lav., 30 aprile 1985, n. 2779; Cass., sez. lav., 15 marzo 1984, n. 1781; Cass., sez. lav., 19 gennaio 1981, n. 451).

Di contro, altro orientamento della Suprema Corte riteneva il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto non già inefficace ma nullo, poiché solo il superamento del periodo di comporto conferisce al datore di lavoro il diritto di recedere dal contratto, dovendosi, in difetto, non ritenersi integrata la fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di comporto (Cass., sez. lav., 18 novembre 2014, n. 24525; Cass., sez. lav., 26 ottobre 1999, n. 12031; Cass., sez. lav., 21 settembre 1991, n. 9869).

Correttamente le Sezioni unite rilevano che le uniche sentenze che hanno espressamente affermato che il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto sia valido – anche se meramente inefficace fino alla sua scadenza – si sono basate su precedenti giurisprudenziali che in realtà “statuivano tutt'altro”.

I precedenti giurisprudenziali citati, infatti, si riferivano tutti ad ipotesi nelle quali i licenziamenti erano stato intimati non già per superamento del periodo di comporto ma per altri e differenti motivi, rispetto ai quali il perdurante stato di malattia fungeva non già da motivo di recesso, bensì da elemento ad esso estrinseco e idoneo unicamente a differire l'efficacia del licenziamento, a differenza del licenziamento per superamento del periodo di comporto, in cui tale elemento integra di per sé l'unica ragione del licenziamento medesimo.

Trattavasi, ad esempio, di licenziamenti intimati (in presenza di malattia del lavoratore) per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063 del 2013; Cass. n. 4394 del 1988), per riduzione di personale (Cass. n. 7098 del 1990), per giusta causa (Cass. n. 11087 del 2005) ovvero di licenziamenti ad nutum (Cass. n. 133 del 1989).

In tutte le ipotesi sopra riportate, quindi, il motivo di recesso non nasceva dal superamento del periodo di comporto, bensì da un motivo diverso, rispetto al quale lo stato di malattia del lavoratore costituiva una mera situazione di fatto, idonea unicamente a sospendere gli effetti del licenziamento intimato per un diverso motivo.

Evidente, quindi, la confusione concettuale dal quale era sorto il contrasto di giurisprudenza, evidenziata dalle Sezioni Unite, non potendosi in alcun modo assimilare, quanto agli effetti, un licenziamento per superamento del periodo di comporto, in cui elemento costitutivo è, appunto, lo spirare del periodo di comporto, con un licenziamento che tragga origine da un diverso motivo, intimato in periodo di malattia; nel primo caso, infatti, il potere di recesso è vincolato allo spirare del periodo di comporto, mentre negli altri casi lo stato di perdurante malattia non rileva quale causa giustificativa del recesso, che trova fondamento in altre e diverse ragioni.

Osservazioni.

La soluzione cui sono pervenute le Sezioni unite pare ineccepibile.

Se infatti la causa del recesso per mancato superamento del periodo di comporto è costituita dal superamento del periodo protetto ex lege, non è ipotizzabile ritenere che la parte datoriale possa esercitare il diritto di recesso in assenza delle condizioni di legge che lo legittimano. In altri termini, ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all'atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto delle condizioni che lo legittimano ed al contempo non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.

Coerentemente con tali premesse, le Sezioni Unite affermano che la sanzione ricollegabile al licenziamento per mancato superamento del periodo di comporto prima della scadenza del relativo termine non può che essere quella della nullità del recesso, in quanto contrario a norma imperativa di legge.

Il carattere imperativo dell'art. 2110, c.c. non è revocabile in dubbio, risultando detta norma attuativa del precetto di cui all'art. 32, Cost., che tutela la salute quale fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività.

Un licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato prima della sua scadenza non può quindi ritenersi solo ingiustificato (id est, privo di giusta causa ovvero di giustificato motivo oggettivo), ma deve ritenersi nullo per violazione di norma imperativa, in quanto difforme dal modello legale delineato dall'art. 2110, comma 2, c.c.

Né vale, secondo la Corte, a sconfessare tale assunto, la circostanza che la l. n. 92 del 2012 abbia previsto, nelle ipotesi di violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c. l'applicazione del regime reintegratorio attenuato (art. 18, comma 7, l.n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012) in luogo del regime reintegratorio pieno, previsto dalla medesima norma nelle altre ipotesi di nullità previste dalla legge (art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012), posto che la scelta di assegnare un regime sanzionatorio più lieve rientra nelle prerogative del legislatore, che può apprestare un apparato sanzionatorio graduato anche in presenza del medesimo vizio di nullità del recesso.

Il discorso diventa più problematico con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, che ricollega al licenziamento ingiustificato (tranne nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore) una tutela meramente indennitaria, limitando al contempo la tutela reintegratoria piena ai licenziamenti affetti da nullità, nelle ipotesi tipiche ivi previste, ovvero agli altri casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge.

Manca, nel d.lgs. n. 23 del 2015, una sanzione espressa per il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2120, c.c., tacendo la norma sul punto: di qui le diverse opzioni interpretative, avanzate in dottrina, se considerare il licenziamento per mancato superamento del periodo di comporto, prima della scadenza del periodo protetto, un licenziamento privo di giustificazione, con conseguente applicazione della tutela indennitaria, ovvero, in ragione della sua nullità, oggi confermata dalla sentenza in commento, ritenere applicabile la tutela reintegratoria piena.

In presenza di opzioni interpretative divergenti, che evidentemente scaturiscono dal silenzio – più o meno consapevole - serbato nel d.lgs. n. 23 del 2015 a riguardo, l'intervento delle Sezioni Unite può costituire un valido ausilio interpretativo in ordine alla disciplina da applicare ai licenziamenti intimati per scadenza del periodo di comporto prima dello scadere del periodo protetto in danno di dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015.

Trattandosi di licenziamenti nulli, come chiarito dalla Corte, e non già di licenziamenti solo ingiustificati, la sanzione non potrà che essere quella della reintegrazione piena, nonostante il d.lgs. n. 23 del 2015 non preveda espressamente tale ipotesi di nullità. Del resto, secondo la teoria della cd. nullità virtuale, il fatto che manchi, nella legge, una specifica previsione di nullità, non impedisce di ritenere nullo un atto negoziale che sia contrario a norme imperative, in applicazione del generale principio di cui all'art. 1418, comma 1, c.c.

La soluzione innanzi indicata, pur nella consapevolezza della forzatura del dato normativo, che sul punto tace, e delle disparità di trattamento che l'applicazione di tale disciplina comporterebbe rispetto ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 - per i quali la legge Fornero prevede l'applicazione della tutela reintegratoria attenuata - appare la soluzione interpretativa più coerente rispetto all'assetto sistematico, pur nella lacunosità delle nuove disposizioni.

In alternativa, ma chi scrive ritiene forzando ulteriormente le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 23 del 2015, non resterebbe che tornare all'applicazione della tutela civilistica della nullità.

Riferimenti bibliografici

R. DEL PUNTA, La sospensione del rapporto di lavoro, Il Codice civile, Commentario, diretto da P.Schlesinger, sub art. 2110, Giuffrè, Milano, 831 ss.

C. CESTER, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo all'indomani del d.lgs. 23/2015, in ADAPT, 46, 94.

R. VOZA, Licenziamento e malattia: le parole e i silenzi del legislatore, in WP CSDLE Massimo D'Antona.IT, 248/2015, 14 ss.