L'attualità del danno da straining nella giurisprudenza ad oltre un decennio dalla formulazione della sua nozione giuridica

Jacopo Ierussi
16 Luglio 2018

La Corte di cassazione, con l'ordinanza 29 marzo 2018, n. 7844, ha ribadito il consolidato orientamento in base al quale il datore di lavoro è “tenuto ad evitare situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente” comportare un danno alla salute per il lavoratore, e ciò “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio”, in virtù della natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c., il quale impone al datore medesimo l'adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale dei propri dipendenti. In questo senso, il suddetto stress forzato può derivare “dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo”, integrando il fenomeno del cd. straining.
Il caso

Nel caso oggetto della pronuncia, un impiegato di un istituto di credito era stato oggetto di un ingiustificato allontanamento dall'ufficio “direzione generale”, nonché dell'invio di lettere di scherno diffuse indiscriminatamente all'interno del luogo di lavoro, circostanze queste che avevano provocato in lui una modificazione negativa, costante e permanente, della situazione lavorativa.

Il lavoratore presentava ricorso avverso la società datrice innanzi al Tribunale di Livorno, domandando l'accertamento del proprio diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale riconducibile ad una fattispecie di “straining”, nonché al superiore inquadramento nella categoria dirigenziale, con conseguente condanna della convenuta al pagamento delle relative differenze retributive, oltre che alla regolarizzazione della posizione contributiva.

Il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso con sentenza, successivamente confermata dalla Corte d'appello, e riformata unicamente quanto all'ammontare delle somme quantificate in prima istanza.

La questione giuridica

La questione veniva portata all'attenzione della Suprema Corte da parte della società datrice, la quale impugnava la sentenza del giudice del gravame sulla base di due diversi motivi di diritto, ovvero: i) la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la sussistenza dei danni patrimoniali e non patrimoniali, nonché la violazione e/o falsa applicazione degli art. 2087, 2697 e 1226 c.c.; ii) che le condotte pregiudizievoli, asseritamente poste in essere nei confronti del dipendente, ulteriori rispetto al demansionamento, fossero state ritenute fondate in modo apodittico, dovendo, invece, escludersi qualsivoglia violazione dell'art. 2087 c.c.

I Giudici di legittimità, pur affermando che le censure formulate dalla società ricorrente attenevano inammissibili valutazioni di merito non proponibili in sede di legittimità, non hanno sposato completamente il criterio della “ragione più liquida” che avrebbe voluto l'automatico rigetto del ricorso introduttivo, ma si sono spese analiticamente nel confermare l'aderenza della ratio delle statuizioni dei gradi precedenti agli orientamenti giurisprudenziali in materia di “straining”.

Ed invero, è risultato come i giudici di merito avessero adeguatamente motivato le statuizioni risultate nell'accoglimento delle domande avanzate dal dipendente, sulla base della risultanze probatorie che avevano soddisfacentemente documentato come la situazione lavorativa di stress forzato cui era stato sottoposto il dipendente medesimo avesse inciso sulla sua salute psicofisica, in ragione delle condotte squalificanti tenute nei suoi confronti da parte di colleghi e superiori, e idonee non già a rientrare entro i parametri del “mobbing”, in quanto, nel caso di specie, limitate nel numero e distanziate nel tempo, ma, comunque, a giustificare il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non.

Al contempo, i Giudici di Piazza Cavour, spendendosi specificatamente circa l'onere probatorio gravante sul lavoratore che vanti un danno relativo ad una malattia professionale non tabellata dall'INAIL, da intendersi “come lesione del diritto al normale svolgimento della vita lavorativa ed alla libera e piena esplicazione della propria personalità sul luogo di lavoro - anche nel significato ‘areddituale' della professionalità - quali diritti costituzionalmente garantiti, nonchè tutelati dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea”, ha ribadito come detto onore possa essere soddisfatto anche tramite presunzioni (cfr. Cass., sez. un., 1 febbraio 2017, n. 2611), di talché, sotto un profilo puramente di merito, le eccezioni dedotte da parte datoriale, in ogni caso, sarebbero risultate infondate.

Osservazioni

Come è noto, lo straining è un fenomeno scoperto da parte della giurisprudenza giuslavoristica con la sentenza del 21 aprile 2005, n. 286, emessa dal Tribunale di Bergamo in funzione di Giudice del lavoro a definizione di una causa ove il dott. Harald Ege, forse uno degli studiosi italiani più noti in questo campo ed autore di numerose pubblicazioni sull'argomento, svolse la funzione di ctu, rilevando nella propria perizia come, seppur in assenza degli elementi tipici del “mobbing” concepito dal dott. Heinz Leymann, la condotta illecita tenuta o consentita in quella data fattispecie dal datore di lavoro avesse avuto quale risultato finale che la lavoratrice presentasse “disturbi alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all'isolamento ed all'esclusività degli affetti, fobia della folla, diffidenza generalizzata verso gli estranei”, una patologia diagnosticabile come “disturbo depressivo-ansioso”.

È nel contesto processuale poc'anzi richiamato che è emersa la nozione giuridica di straining, adottata anche dalla Corte di cassazione nella ordinanza qui oggetto di disamina, quale “situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone ma sempre in maniera discriminante”.

Il fattore comune al mobbing ed allo straining, pertanto, è individuabile nella circostanza che un individuo sia stato sottoposto ad uno o più trattamenti ingiusti e discriminanti sul posto di lavoro (la cd. azione ostile), che, per la loro gravità o offensività intrinseca, hanno condotto la vittima in uno stato di “stress occupazionale”, fattispecie da non confondere con lo straining medesimo che ne è la causa originatrice.

I comportamenti che possono qualificarsi in atti di straining, dunque, sono molteplici, potendosi ricondurre in questo alveo, a titolo esemplificativo, l'isolamento fisico o relazionale, la passività od indifferenza generale, ovvero la riduzione, la privazione o l'eccesso del carico lavorativo.

Nella fattispecie in esame, è di pronto riscontro come il comportamento messo in atto ai danni del lavoratore, assegnato a mansioni superiori rispetto al suo inquadramento senza il relativo riconoscimento contrattuale, e, anzi, allontanato ingiustificatamente da un ufficio apicale, e, perciò, deriso e messo alla berlina dai propri colleghi, integrasse un caso di scuola di straining, laddove le condotte, indipendentemente dalla distanza sulla linea temporale che le accomunava, avevano inciso in maniera rilevante sulla psiche del dipendente, e sulla sua capacità di intessere rapporti sociali all'interno dei locali aziendali, o di vivere il proprio lavoro in maniera pacifica e salutare.

Come più volte accennato, la responsabile del datore si fonda sul precetto di cui all'art. 2087, c.c., il quale individua in quest'ultimo il soggetto tenuto all'obbligo di assumere le misure necessarie a tutelare la sfera fisica e morale del lavoratore, in ragione della rilevanza costituzionale che assume il diritto alla salute ex art. 32, Cost., o alla mera estrinsecazione della personalità dell'individuo in ambito professionale ex artt. 2 e 3, Cost. (cfr. Cass., n. 12553/2003; Cass., n. 15686/2002; Cass., n. 8835/2001).

In definitiva, il dovere in capo al datore di assumere un comportamento pro-attivo rispetto a situazioni di mobbing, straining e bornout può essere assolto ai sensi del d.lgs. n. 81/2008 (c.d. testo unico salute e sicurezza sul lavoro) attraverso l'adozione di misure precauzionali atte a contribuire al miglioramento della qualità della vita sul lavoro, e, quale conseguenza immediata e diretta, della qualità della vita nel suo complesso, ferma l'impercorribilità della diversa strategia del non facere, che potrebbe essere interpretata come un “atteggiamento certamente afflittivo (oppure negligente ed accondiscendente verso l'illecito) del datore di lavoro, all'interno di un procurato clima di estrema tensione all'interno dell'azienda” (in tal senso, di recente la sentenza del 21 maggio 2018, n. 12437 della Corte di Cassazione, seppur in tema di mobbing).

Se un simile dovere di prevenzione non è di facile assolvimento nel contesto di una PMI, e si rivela ancor più gravoso in quello di una grande azienda, può ritenersi una problematica quasi insuperabile, e ciò indipendentemente dalle dimensioni dell'impresa, qualora l'azione ostile è messa in atto tramite tecnologie digitali come i social network, i sistemi di messaggistica istantanea, o il VoIP (es. casi di esclusione sistematica di un dipendente dalle conference call tenute via Skype o dalla chat aziendale interna), essendo maggiormente limitata la capacità di vigilanza e intervento da parte del datore di lavoro.

In questo senso, lo Scrivente ritiene che, come avviene frequentemente in molte realtà anglosassoni, offrire al personale in forza la possibilità di ricorrere liberamente ad un professionista interno con competenze nella branca della psicologia o della psichiatria, o di pianificare colloqui con lo stesso nel corso dell'anno, possa creare una esimente importante per il datore di lavoro, che offre alla “parte debole” o “vittima” che dir si voglia, non soltanto una valvola di sfogo, ma uno strumento per denunciare una situazione stressogena.

In conclusione, lo straining è un fenomeno ancora molto attuale, soprattutto in considerazione della costante diminuzione nel contesto lavorativo della componente legata allo sforzo puramente fisico, rimpiazzato da quello di tipo cognitivo, ideativo o esperenziale, che affatica la mente e la rende ancor più vulnerabile. Non appare un caso fortuito, allora, che di recente il prof. Chen Tong della Southwest University in Chongqing abbia ipotizzato l'uso di sensori basati sulla tecnologia della “Hyperspectral Imaging Technique”, che sarebbero in grado di rilevare e dare una dimensione fisica al concetto astratto (e spesso inflazionato) di stress sul lavoro.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.