Il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo è nullo (e non inefficace o ingiustificato)
13 Luglio 2018
Il caso
Un lavoratore deduce la nullità del licenziamento intimatogli per avvenuto superamento del periodo di “comporto”, adducendo la mancata scadenza del termine massimo di tolleranza stabilito dalla contrattazione collettiva; i giudici di merito, riscontrando in fatto quanto prospettato, si esprimono, tuttavia, nel senso della semplice inefficacia del licenziamento, da ritenersi quindi valido, nonché produttivo di effetti a partire dall'effettivo esaurimento del periodo di comporto. La Sezioni unite, confermando l'indirizzo maggioritario, optano, invece, per la nullità dell'atto espulsivo.
Sulla stessa decisione delle Sezioni unite v. anche il commento di F. Chietera, Licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto: vizi del recesso ed apparato sanzionatorio. La questione
La questione in esame è la seguente: il licenziamento intimato dal datore al lavoratore malato per superamento del periodo di comporto (ossia prima della scadenza del termine c.d. di tolleranza stabilito, nella fattispecie, dalla contrattazione collettiva), ma prima dell'effettivo esaurimento di quest'ultimo (e, quindi, erroneamente; ad esempio per una inesattezza nel calcolo dei giorni), è inefficace o nullo, o ancora, in ipotesi, ingiustificato? Le soluzioni giuridiche
La risposta contenuta nella sentenza in commento si allinea, nel solco di un orientamento maggioritario, ad altre precedenti.
Tra le più recenti va menzionata Cass. 18 novembre 2014, n. 24525, ove è affermato che “In caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione della norma imperativa, di cui all'art. 2110 c.c., e non già temporaneamente inefficace, con differimento degli effetti al momento della maturazione del periodo stesso, sicché va ammessa la possibilità di rinnovazione dell'atto, in quanto, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema di cui all'art. 1423 c.c.”; la ravvisata nullità muove dalla considerazione che “il superamento del comporto costituisce una situazione autonomamente giustificatrice del recesso, che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso, per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest'atto, ove di esso costituisca il solo motivo”.
Tra quelle più risalenti si segnalano Cass. 26 ottobre 1999, n. 12031, Cass. 21 settembre 1991, n. 9869 e Cass. 30 agosto 1991, n. 9243.
Il diverso indirizzo incentrato sulla inefficacia si rinviene, invece, in due sentenze della S.C. (Cass. 4 luglio 2001, n. 9037, e 10 febbraio 1993, n. 1657), ove si legge che “l'inosservanza del divieto di licenziamento del lavoratore in malattia, fino a quando non sia decorso il cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, comma 2, c.c.), non determina di per sé la nullità della dichiarazione di recesso del datore di lavoro, ma implica, in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.), la temporanea inefficacia del recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa”.
Non si rinvengono, infine, pronunzie della S.C. che considerano tale licenziamento ingiustificato.
I punti centrali della sentenza in commento possono così compendiarsi: a) il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo; b) l'orientamento imperniato sull'inefficacia si richiama a precedenti in cui il licenziamento non era stato intimato per superamento del periodo di comporto, bensì per altre ragioni (ad esempio per giustificato motivo oggettivo), così ricorrendo un'ipotesi di licenziamento intimato non “a causa”, ma “durante” la malattia, rispetto alla quale si giustifica, appunto, la tesi dell'inefficacia (poiché la quiescenza del rapporto conseguente all'assenza per malattia od infortunio impedisce l'immediato prodursi dell'effetto risolutivo); c) il licenziamento in questione è nullo, poiché l'art. 2110, comma 2, c.c. - norma imperativa posta a tutela della salute, quale valore prioritario da salvaguardare all'interno dell'ordinamento -, in combinata lettura con l'art. 1418 c.c., non consente soluzioni diverse (infatti la salute non può essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro); d) all'affermazione della nullità del licenziamento non osta l'avere il vigente testo dell'art. 18, St. lav. collocato la violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno, poiché “in considerazione di un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge”; e) il licenziamento predetto non può ritenersi, in ipotesi, ingiustificato, tale dovendosi considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione di un giustificato motivo o di una giusta causa che risultino smentiti (in punto di fatto e/o diritto) all'esito della verifica giudiziale; ritenere tale atto espulsivo ingiustificato costituisce infatti “un mero artificio dialettico, che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l'art. 2110, comma 2, c.c.) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto. Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell'area della mera mancanza di giustificazione”. Osservazioni
L'art. 2110 c.c. – il quale prevede, tra l'altro, che nei casi di infortunio o malattia l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'art. 2118 c.c., decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità - ha una doppia valenza; ed infatti esso (implicitamente) dispone, in presenza di un licenziamento intimato durante la malattia e prima della scadenza del periodo di comporto, conseguenze diverse a seconda della motivazione del licenziamento stesso.
Se quest'ultimo è intimato per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, opera il differimento dell'efficacia alla guarigione del lavoratore (o alla scadenza del periodo di comporto), con la conseguenza che il recesso è comunque valido; se, invece, è intimato per superamento del periodo di comporto prima della effettiva scadenza di questo, il vizio è qualificabile in termini di nullità.
A tale ultimo riguardo la S.C. precisa che l'art. 2110, comma 2, c.c., costituisce norma imperativa volta a proteggere il bene fondamentale della salute; sicché la violazione della predetta norma ricade nell'area di applicabilità dell'art. 1418, comma 1, c.c. (ove è previsto che “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”).
Volendo ricostruire il quadro potrebbe affermarsi che il licenziamento è, nell'attuale sistema, legittimamente emanato per giusta causa, per giustificato motivo e per superamento del periodo di comporto. Nei primi due casi l'insussistenza dei presupposti determina ingiustificatezza, mentre nell'ultimo la nullità (poiché il bene leso dalla violazione della norma ha un rilievo maggiore e la sanzione, quindi, è più severa).
Peraltro il legislatore, nel regime antecedente alla riforma “Fornero”, aveva stabilito espressa sanzione per i licenziamenti ingiustificati (così implicitamente qualificati in presenza di violazione dell'art. 1, l. n. 604 del 1966, ove è previsto che “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercorrente con datori di lavoro privati o con enti pubblici […] il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo”), mentre non aveva detto nulla, almeno esplicitamente, a proposito del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto in violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c.
Si era quindi ritenuto – il che è oggi riconfermato dalle S.U. - che fosse da ravvisarsi una nullità, espressione di un giudizio del legislatore di particolare riprovazione della violazione.
Tuttavia il giudizio di disvalore non sembra esser rimasto inalterato a seguito della riforma “Fornero”, che fa conseguire alla violazione in questione la sanzione (della “reintegrazione attenuata”) prevista per l'ingiustificatezza qualificata, ai sensi dell'art. 18, comma 7, St. lav.
Su tale aspetto, in sentenza è affermato che il legislatore, rivedendo, nel tempo, il proprio giudizio, può rettificarlo in termini di minor riprovazione, nonché graduare diversamente, a fini sanzionatori, il rimedio ripristinatorio, ma sempre nell'ambito della medesima sanzione della nullità.
Si presenta così uno scenario in cui la nullità del licenziamento, già connotata da specialità rispetto a quella di diritto comune, riceve, nel caso specifico, una connotazione ancor più particolare, poiché è sanzionata con il rimedio tipico offerto dall'ordinamento a fronte di violazioni di minor gravità, divenendo, come del resto affermato in sentenza, speciale (rispetto ad una disciplina già speciale).
E' legittimo chiedersi, però, a questo punto, se è in armonia con il sistema ricondurre una violazione ad una categoria (quella della nullità) ed applicare la disciplina di un'altra (quella dell'ingiustificatezza); l'attenuazione del giudizio di disvalore, infatti, sembra maggiormente compatibile con una degradazione della violazione da una categoria all'altra, non con un mero declassamento sul fronte delle sanzioni, che finisce per snaturare l'essenza stessa della categoria (onde potrebbe resistere il dubbio che con la riforma “Fornero” il legislatore abbia voluto incasellare il licenziamento in questione proprio nella categoria della ingiustificatezza).
Occorrerà peraltro verificare se, con riferimento al nuovo regime (concernente i “nuovi assunti”) delineato dal “Jobs Act”, che fa registrare l'assenza di una norma sanzionatoria concernente il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo, il legislatore si sia nuovamente orientato a favore di una tutela più ricca per il lavoratore.
Ed infatti, in difetto di una norma speciale, dovrebbe riprendere corpo quella (generale, nell'ambito del settore lavoristico) sulla nullità, che prevede la tutela reintegratoria “piena”; salvo ritenere - ma forzando oltremisura le maglie del sistema - che le nullità “virtuali”, nelle quali andrebbe ricompresa quella in questione, siano in quel regime sanzionate, addirittura, con la tutela indennitaria “forte”.
In entrambi i casi andrebbe constatata, sulla materia, una insofferenza del legislatore apprezzabile nel continuo mutamento - in un esiguo lasso temporale - di giudizi circa la valenza della violazione.
Si passerebbe, infatti, con riferimento alle grandi aziende, da una tutela reintegratoria piena (nel vecchio regime) ad una attenuata (nella disciplina della legge “Fornero”) e (nel regime del Jobs Act), di nuovo, ad una piena – pur, ove si aderisca alla tesi della nullità di diritto comune, con alcuni temperamenti -, o, all'opposto, ad una indennitaria.
Nelle piccole aziende, invece, sarebbe sempre garantita (e ciò non plausibilmente) la tutela ripristinatoria.
La ricostruzione del vizio in termini di ingiustificatezza, forse più in armonia con una linearità di sistema, è respinta dalla S.C. sul rilievo che il licenziamento in questione è intimato per una ragione diversa dalla giusta causa o dal giustificato motivo, onde è alla ragione in questione che occorre riferirsi nel valutare la natura del vizio; diversamente opinando, conclude la Corte, ogni licenziamento nullo – perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge – finirebbe per essere qualificato come ingiustificato.
Tuttavia tale ultima affermazione non è del tutto percepibile nelle sue implicazioni, poiché la nullità del licenziamento non dipende dalla motivazione dello stesso, bensì è insita nelle ragioni contenute nell'impugnativa del lavoratore.
In altri termini, l'ipotesi normale è quella nella quale il datore licenzia per una determinata ragione (integrante ad esempio giustificato motivo) ed il lavoratore agisce facendo valere, in contrasto con la motivazione dell'atto espulsivo, una causale diversa (appunto motivo illecito, discriminazione, divieto di licenziamento) non ammessa dall'ordinamento e comportante la nullità dell'atto.
Pertanto, ove il lavoratore veda confermate in giudizio le proprie deduzioni, il licenziamento non potrà che essere nullo, non potendo risolversi in radice in un licenziamento ingiustificato.
Un'ultima annotazione.
Poiché le Sezioni Unite affermano che il licenziamento ingiustificato è solo quello intimato “per giusta causa” o “giustificato motivo”, si tratta di stabilire come possa esser qualificato (e a quali sanzioni possa dar luogo), nei nuovi regimi introdotti dalla legge “Fornero” e dal “Jobs Act”, il licenziamento non motivato (neppure con la memoria difensiva).
Per riferimenti sul tema, v. M. Basilico, Il licenziamento nullo, in Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro, III, Lavoro, Pratica Professionale, diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei, Giuffré, 2018, 280-281. |