Riforma parziale della sentenza: quando il beneficiario della condanna alle spese può agire per l'intero?

17 Luglio 2018

La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, si è occupata di rispondere al seguente quesito: la parte processuale nei confronti della quale sono state liquidate in solido, le spese di lite, può agire per l'interno nei confronti della parte soccombente, quando la sentenza di appello pur accogliendo parzialmente il gravame, conferma la statuizione sulle spese?
Massima

L'espressa “conferma nel resto” di una sentenza di primo grado recante condanna alle spese in favore dei due originari convenuti, conferma pronunciata nonostante l'accoglimento dell'appello e la condanna nel merito di uno di quelli con compensazione delle spese nei rapporti tra quello e le controparti, non comporta modifica dell'importo complessivo oggetto della liquidazione in primo grado; pertanto, l'originario beneficiario della condanna in primo grado può azionare quest'ultima per l'intero.

Il caso

L'attore evocava in giudizio due coniugi in una controversia per asseriti inadempimenti contrattuali. Il giudice di primo grado rigettava la domanda, sul rilievo della estraneità dei coniugi convenuti, condannando in solido l'attore al pagamento delle spese processuali. Proposto appello, il gravame era accolto solo nei confronti di uno dei coniugi, con conferma nel resto della sentenza appellata. Il coniuge vittorioso intimava precetto prendendo a base l'intero importo liquidato – in origine, in favore anche di sua moglie, ma con lui in solido – in primo grado e quello – a solo suo favore – liquidato in appello; l'originario attore aveva proposto opposizione, deducendo che la primigenia obbligazione, relativa alle spese di primo grado si era ridotta alla quota del solo convenuto vittorioso. L'opposizione avverso l'atto di precetto era accolta ed il convenuto originario proponeva ricorso in Cassazione nei confronti della sentenza di appello con la quale era stato rigettato il gravame proposto avverso l'ordinanza di accoglimento dell'opposizione al precetto.

La questione

La questione in esame è la seguente: la parte processuale nei confronti della quale sono state liquidate in solido, le spese di lite, può agire per l'interno nei confronti della parte soccombente, quando la sentenza di appello pur accogliendo parzialmente il gravame, conferma la statuizione sulle spese?

Le soluzioni giuridiche

Il Giudice di legittimità cassa la sentenza di appello ritenendo da un lato non invocabile l'art. 1298 c.c., relativo solo ai rapporti tra i creditori solidali, sia perché la sentenza di appello resa nel giudizio di responsabilità contrattuale aveva integralmente confermato il capo relativo alle spese, con la conseguenza che nessuna divisione dell'originaria obbligazione, solidale dal lato attivo, era avvenuta.

L'ordinanza in commento offre lo spunto per affrontare, la delicata questione se il rimborso delle spese di lite, liquidate in primo grado, ove non oggetto di specifica contestazione, può comunque comportare l'esigenza di comprendere se la riforma, totale o parziale, della decisione impugnata coinvolga anche la precedente condanna alla refusione delle spese giudiziali.

Come noto, il principio della soccombenza è previsto dall'art. 91 c.p.c., come criterio di regolazione delle spese di lite per il caso in cui vi sia una parte integralmente soccombente ed una integralmente vincitrice.

In tal caso soccombenza ed imputazione degli oneri processuali coincidono integralmente: all'unico soccombente vanno imputati tutti gli oneri del processo, in quanto di esso egli ha la totale responsabilità.

La regola della soccombenza, quale tecnica per il riparto delle spese giudiziali, concorre a realizzare la pienezza ed effettività del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.); la condanna alle spese del soccombente risponde, infatti, all'esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che abbia dovuto svolgere un'attività processuale per veder riconosciuto un proprio diritto, dando cioè attuazione al principio per cui la necessità di agire o resistere in giudizio non deve andare a danno della parte che ha ragione.

Tale criterio va individuato nel più generale principio di causalità.

Secondo tale principio, il fondamento della condanna alle spese risiede nell'antigiuridicità del comportamento preprocessuale della parte, di cui la soccombenza, oggettivamente intesa, degrada a – più importante – indice rilevatore, per cui conta la condotta della parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece l'ha resa necessaria; quindi, secondo la cd. teoria della causalità, soccombente è la parte che, lasciando insoddisfatta una altrui fondata pretesa o azionando una pretesa accertata infondata o, più in generale, con la sua condotta anteriore al giudizio, ha "dato causa", ha provocato l'insorgere della controversia o di determinate spese, nel senso che ciascuna parte, anche quella vincitrice, è chiamata a rispondere delle spese che essa ha causato con istanze o atti che, alla fine del processo, si siano rivelati non strettamente necessari al perseguimento dello scopo di tutelare e ottenere il riconoscimento dei propri diritti.

Prevale, sostanzialmente, una impostazione oggettiva della regola della soccombenza basata unicamente sul raffronto tra domande ed eccezioni formulate e contenuto della decisione (alcuna rilevanza spiegando cioè eventuali comportamenti neutri assunti dalla parte soccombente, quali ad esempio l'assenza di contestazioni o l'adesione alla avversa domanda), determinata indifferentemente da ragioni di merito o di rito, e riguardata sulla base dell'esito finale del giudizio alla stregua di una valutazione globale ed unitaria, tant'è che la parte che abbia visto disattese eccezioni di carattere processuale (quale l'eccezione di incompetenza) da lei sollevate è pur sempre da considerarsi totalmente vittoriosa se la domanda avversaria sia stata per intero respinta (Cass. civ.,n. 5373/2003).

Sotto altro aspetto, il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicché viola il principio di cui all'art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (Cass. civ., n. 6259/2014; Cass. civ., n. 23226/2013; Cass. civ., n. 18837/2010; Cass. civ., n. 15483/2008); a tal proposito, va riferito che tale esito complessivo: --a) non è minato dalla circostanza che in secondo grado sia stata modificata la motivazione della sentenza resa nel precedente giudizio, in quanto la parte appellante rimane pur sempre soccombente; --b) sortisce talvolta l'applicazione del cd. principio della soccombenza prevalente con compensazione solo parziale delle spese nelle ipotesi in cui avviene una riforma non integrale ma solo parziale della sentenza (Cass. civ. n. 19122/2015 che applicato tale principio in una sentenza che riformava soltanto il precedente quantum debeatur e l'an).

Osservazioni

La regolamentazione delle spese processuali – corollario della sentenza con cui il giudice chiude il processo davanti a sé – costituisce un aspetto intrinseco al processo, al cui interno è destinata a trovare soluzione: è la sede in cui si discute della res iudicanda quella, esclusiva, nella quale, salva l'ipotesi della compensazione, l'onere delle spese resta fissato, in applicazione del principio di soccombenza e, quindi, per una responsabilità essenzialmente oggettiva, che prescinde da qualunque colpa, seppure meramente presunta, a carico della parte che ha dato causa al processo, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo ad una pretesa fondata.

La statuizione sulle spese, seppur dipendente, costituisce comunque capo autonomo della sentenza, distinto dai capi principali di quest'ultima; va però precisato che il gravame della sola pronuncia sulle spese non ha riflessi sugli altri capi della sentenza non impugnati, mentre se il gravame concerne la decisione nel merito (inteso lato sensu come la statuizione che ha condotto alla soccombenza) esso si estende, per implicito, anche al dipendente capo spese (Cass. civ., n. 15483/2008).

In base a questi principi generali, va detto che – in grado di appello – può verificarsi che: --a) se viene impugnato il solo capo spese (Cass. civ., n. 19014/2017), l'eventuale riforma della sentenza sotto questo profilo non travolge gli altri capi, e il giudice è tenuto ex officio a regolare nuovamente le spese di entrambi i gradi sulla base dell'esito finale della lite; --b) se vengono impugnati altri capi, il giudice di appello, se rigetta il gravame, non può, in mancanza di una specifica censura del capo della stessa che contiene la statuizione sulle spese, modificare le statuizioni su queste ultime, altrimenti incorrendo in vizio di ultrapetizione (Cass. civ., n. 18073/2013; Cass. civ., n. 24422/2009; Cass. civ., n. 18533/2009); in pratica, se la pronuncia di primo grado viene confermata in appello, in assenza di una specifica censura del capo della stessa che contiene la statuizione sulle spese, il giudice non può modificare alcunché; --c) se entrambi gli appelli contrapposti vengono respinti, e la sentenza di primo grado viene quindi confermata, la regolamentazione delle spese non può che riguardare soltanto il secondo grado e coerente può essere, in tal caso, la compensazione delle spese; --d) se invece il giudice riforma la sentenza (in tutto o in parte) deve ex officio – anche in assenza di una specifica richiesta sul punto – provvedere ad nuovo regolamento delle spese alla stregua dell'esito complessivo della controversia.

Peraltro, secondo il maggioritario indirizzo della giurisprudenza di legittimità – una sentenza d'appello che, riformando quella di primo grado, faccia per ciò sorgere il diritto alla restituzione degli importi pagati in esecuzione di questa, non costituisce titolo esecutivo se non contiene una espressa statuizione di condanna in tal senso.

In altri termini, secondo tale indirizzo – cui implicitamente aderisce l'odierna pronuncia, laddove fa riferimento al «tenore letterale del titolo di secondo grado, che ha espressamente confermato ogni altra parte della sentenza di primo, tra cui appunto la quantificazione del totale delle spese di lite ivi liquidate» – che pur ammettendo l'azionabilità nella fase di gravame delle pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ne afferma l'utilità proprio in vista della necessaria precostituzione di un titolo esecutivo, specularmente escludendo la sufficienza, ai medesimi fini, della mera sentenza di riforma. In proposito, fermo che la condanna restitutoria non può essere eseguita prima del suo passaggio in giudicato, si è avuto cura di precisare che, ove il giudice di appello ometta di pronunciare sul punto, la parte potrà o impugnare l'omessa pronunzia con ricorso in Cassazione oppure riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che ivi, stante la menzionata facoltà di scelta, le sia opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronuncia (Cass. civ., n. 16152/2010).

Del resto anche laddove – in presenza di una sentenza di appello che, dopo avere specificamente dato atto: --a) della proposizione di domanda per la restituzione della somma versata in esecuzione di una pronuncia di prime cure provvisoriamente esecutiva; --b) dell'avvenuto pagamento della somma; --c) della mancanza di contestazioni sul punto, aveva tuttavia omesso la condanna alle restituzioni nel dispositivo – si è qualificata l'omessa, esplicita statuizione al riguardo mero errore materiale, emendabile con il rimedio della correzione, piuttosto che vizio censurabile con ricorso per cassazione; con ciò stesso si è implicitamente ma inequivocabilmente riaffermata la necessità di una statuizione di condanna per potere procedere al recupero coattivo di quanto versato in esecuzione della sentenza riformata.

Esiste altresì un diverso orientamento giurisprudenziale il quale prefigura come implicita la condanna dell'accipiens alla restituzione in favore del solvens degli importi ricevuti (Cass. civ., n. 8829/2007; Cass. civ., n. 15295/2006; Cass. civ., n. 11729/2002) e questo sul presupposto che l'obbligo di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della riforma di quella pronuncia, ancorché la stessa non contenga alcuna statuizione al riguardo.

Tuttavia, non può evidenziarsi che il principio da ultimo richiamato – con il ricorso all'istituto della condanna implicita, certamente ispirato a encomiabili esigenze di speditezza e semplificazione – mal si confronta, sul piano letterale e sistematico, con il disposto dell'art. 474, comma 1, c.p.c. e con l'art. 389 c.p.c., norma quest'ultima che si riferisce sia ai casi di cassazione con rinvio che a quelli di cassazione senza rinvio ed è espressione della regola spoliatus ante omnia restituendus, cioè al peculiare effetto riconosciuto alla sentenza di cassazione, secondo il quale in capo alla parte vittoriosa nel giudizio svoltosi dinanzi alla Corte, sorge direttamente il diritto alla restituzione delle attribuzioni, patrimoniali e non, compiute in esecuzione della sentenza annullata.

Sicché, l'indirizzo maggioritario trova maggior credito giurisprudenziale poiché, pur ammettendo l'azionabilità nella fase di gravame delle pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ne afferma l'utilità proprio in vista della necessaria precostituzione di un titolo esecutivo, specularmente escludendo la sufficienza, ai medesimi fini, della mera sentenza di riforma (Cass. civ., n. 9287/2012).

In giurisprudenza è stato inoltre evidenziato che peraltro, ogni diversa ricostruzione del sistema lo renderebbe profondamente asimmetrico, in ragione del fatto che verrebbero assoggettati a regimi diversi le restituzioni conseguenti, rispettivamente, alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ovvero alla cassazione di quella impugnata innanzi al Giudice di legittimità (Cass. civ., n. 2662/2013).

Peraltro, ogni diversa ricostruzione del sistema o lo renderebbe profondamente asimmetrico, assoggettando a regimi diversi le restituzioni conseguenti, rispettivamente, alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ovvero alla cassazione di quella impugnata innanzi al giudice di legittimità; oppure, interpretando l'indicazione normativa racchiusa nell'art. 389 c.p.c. come volta a disciplinare una strategia processuale puramente ottativa, presenterebbe margini di estrema opinabilità. Infine, e conclusivamente su questo punto, la possibilità di utilizzare in chiave di condanna implicita la riforma della sentenza di primo grado, conseguita in appello, rischia, sul piano pratico, di creare più problemi di quanti non sia in grado di risolverne nella misura in cui abilita la parte a estrapolare un titolo esecutivo da una pronuncia che non lo contiene espressamente, titolo che, soprattutto nei dettagli, darebbe facilmente luogo a ogni sorta di contestazioni.

Tuttavia, non può essere obliterata una soluzione mediana tra i contrapposti orientamenti testé esaminati, a mente della quale: --a) qualora, la sentenza d'appello riformi parzialmente la sentenza di primo grado, che abbia rigettato integralmente la domanda o le domande della parte attrice con gravame delle spese a carico di quest'ultima, confermandola nel resto senza provvedere con un'espressa statuizione sulle spese del giudizio di primo grado, la statuizione di conferma del giudice d'appello non può essere considerata come implicitamente confermativa della statuizione sulle spese di primo grado, risolvendosi altrimenti nell'imposizione delle spese a totale carico della parte parzialmente vittoriosa, ma deve ritenersi che la sentenza di secondo grado abbia omesso di pronunciare sulle spese del giudizio di primo grado; --b) ove, invece, la riforma parziale abbia riguardato una decisione di primo grado che aveva accolto la domanda o le domande, condannando alle spese la parte convenuta, e si sia concretata nel rigetto parziale dell'unica domanda o nel rigetto di alcune domande, la conferma nel resto della sentenza di primo grado bene può essere intesa come implicita valutazione da parte del giudice d'appello nel senso che il ridotto accoglimento dell'unica domanda o di alcune domande comunque non integra ragione per compensare in tutto od in parte le spese, sì da giustificare che esse restino a carico della parte convenuta (Cass. civ., n. 15360/2010).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.