Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla luce della giurisprudenza più recente

Pasquale Staropoli
17 Luglio 2018

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, diffusamente noto anche come licenziamento economico, rappresenta in teoria il momento nel quale più ampiamente si manifesta la potestà direttiva del datore di lavoro nell'ambito dell'organizzazione del rapporto di lavoro subordinato. Anche per effetto della valorizzazione della funzione sociale dell'esercizio dell'impresa, il sindacato della giurisprudenza è stato tradizionalmente piuttosto importante rispetto alle determinazioni datoriali, così da incidere profondamente sulla valutazione della fondatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ordine alla verifica della legittimità dei motivi.È alla luce dell'affermazione di questi princìpi che possono essere osservate le pronunce giurisprudenziali che, ancora di recente, danno atto del mutevole atteggiarsi del concetto di giustificato motivo oggettivo, di effettività delle esigenze di licenziamento, di legittimità, tout court, delle ragioni del licenziamento economico.
Note introduttive

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, diffusamente noto anche come licenziamento economico, rappresenta in teoria il momento nel quale più ampiamente si manifesta la potestà direttiva del datore di lavoro nell'ambito dell'organizzazione del rapporto di lavoro subordinato. Sotto l'egida del principio di libertà economica fissato dall'art. 41 Cost., il datore di lavoro opera con discrezionalità nella determinazione dell'assetto da assegnare alla propria organizzazione aziendale, sino all'extrema ratio: il licenziamento di un proprio dipendente, nell'ottica del mutamento delle condizioni economiche che ne giustificano la scelta.

Tuttavia, anche per effetto della valorizzazione della funzione sociale dell'esercizio dell'impresa, argine previsto dal secondo comma dell'art. 41 Cost., il sindacato della giurisprudenza è stato tradizionalmente piuttosto importante rispetto alle determinazioni datoriali, così da incidere profondamente sulla valutazione della fondatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ordine alla verifica della legittimità dei motivi, dei criteri adottati per individuare i lavoratori destinatari, sino a valutare la sussistenza di soluzioni alternative al licenziamento (c.d. repechage). Elementi che, tutti, hanno compresso in maniera significativa il potere discrezionale dell'imprenditore, nel necessario compendio delle esigenze di libertà e con la garanzia delle funzioni sociali previste dai primi due commi dell'art. 41 della Costituzione che, come ricordato, afferma la libertà dell'iniziativa economica privata, non sottraendola al giusto vaglio finale della utilità sociale e della garanzia della dignità umana.

È alla luce dell'affermazione di questi princìpi che possono essere osservate le pronunce giurisprudenziali che, ancora di recente, danno atto del mutevole atteggiarsi del concetto di giustificato motivo oggettivo, di effettività delle esigenze di licenziamento, di legittimità, tout court, delle ragioni del licenziamento economico.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La fattispecie licenziamento economico, rectius, licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è prevista dalla legge sui licenziamenti individuali (art. 3, L. n. 604/1966). Il licenziamento di questo tipo è giustificato quando è sorretto da ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa.

La scelta di provvedere alla risoluzione del rapporto di lavoro è riconosciuta al datore di lavoro in virtù dell'art. 41 Cost., che nell'affermare il principio della libertà dell'esercizio dell'attività d'impresa, calmierato dalla necessità che comunque persegua e non contrasti con l'utilità sociale, gli riserva tale fondamentale prerogativa. L'esclusività ed insindacabilità del giudizio, riservata alla valutazione datoriale, è subordinata alla sussistenza di una corretta gestione dell'azienda dal punto di vista economico ed organizzativo, ed è insindacabile quanto ai profili di congruità ed opportunità, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, spettando al giudice solo il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore a sostegno delle ragioni che lo hanno indotto a provvedere con il licenziamento (Cass. sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18409). Le ragioni giustificatrici del licenziamento devono corrispondere ad una effettiva esigenza organizzativa e deve sussistere un nesso eziologico diretto tra queste e la posizione del lavoratore interessato, la cui scelta deve avvenire attraverso criteri altrettanto oggettivi ed imparziali, verificata l'impossibilità di una sua utile ricollocazione nell'ambito dell'organizzazione aziendale.

Ciò in un quadro complessivo che per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede: “a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali - insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati - diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili” (Cass. sez. lav., 20 ottobre 2017, n. 24882).

Il carattere delle ragioni economiche giustificatrici del licenziamento

Negli anni la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale piuttosto diffuso, è stata ritenuta in termini di necessità, intesa come extrema ratio ed indefettibilità dello stesso, la cui prova grava sul datore di lavoro, che deve dimostrare che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato da una modifica organizzativa dell'azienda, necessitata dall'esigenza di far fronte a situazioni sfavorevoli – non meramente contingenti – influenti sulla normale attività produttiva o per sostenere notevoli spese di carattere straordinario (Cass. sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201).

Sulla scorta di queste premesse si è radicata una considerazione del licenziamento “economico”, inteso come quello giustificato da situazioni sfavorevoli, non meramente strumentale ad un incremento del profitto, dalla quale consegue che il presupposto di fatto delle difficoltà economiche in cui versa l'azienda, costituisce una sorta di pre-requisito della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Tuttavia, conformemente ad una giurisprudenza più recente, grazie ad una lettura più aderente al testo di legge ed una interpretazione rigorosa dell'art. 3, L. n. 604/1966 anche alla luce dei princìpi costituzionali premessi (l'insindacabilità delle scelte imprenditoriali a monte del riassetto organizzativo, già insindacabili sotto il profilo della congruità ed opportunità, purché risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, Cass. sez. lav., 4 novembre 2004, n. 21121), si è giunti alla considerazione della legittimità del licenziamento economico anche quando sorretto da esigenze razionalizzatrici, a prescindere dalla sussistenza di momenti di crisi. Ciò valorizzando il dato testuale della norma, che consente di prescindere dalla necessità della sussistenza di situazioni sfavorevoli ovvero di spese notevoli di carattere straordinario, perché ai fini della legittimità del licenziamento ai sensi dell'art. 3, è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, “tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d'impresa(Cass. sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201).

Non si tratta del riconoscimento indiscriminato della libertà della ricerca del profitto. La tutela è destinata all'obiettivo aziendale di salvaguardare la competitività nel settore nel quale si svolge l'attività dell'impresa, attraverso le modalità e quindi la combinazione dei fattori della produzione, ritenute più opportune dal soggetto che ne assume la responsabilità anche in termini di rischio e di conseguenze patrimoniali pregiudizievoli. Ma ciò non significa affatto che la decisione imprenditoriale sia sottratta ad ogni controllo o sfugga a ben precisi limiti.

È da escludersi che attraverso un simile approccio possa riconoscersi la legittimità di un licenziamento legato esclusivamente ad esigenze di profitto fine a sé stesso, come ad esempio quello che conseguirebbe al brutale saldo positivo del licenziamento (lo stipendio in meno da corrispondere), circostanza che sarebbe pertanto illegittima se non sorretta da esigenze oggettive giustificate da un mutamento effettivo della organizzazione aziendale (Cass. sez. lav., 1 luglio 2016, n. 13516).

Sempre nell'alveo di questo orientamento costituzionalmente orientato, rispondente alle esigenze di compatibilità sociale della libertà di cui all'art. 41 Cost., è stata ancora di recente confermata la legittimità del licenziamento per ragioni economiche quando alla insindacabilità delle scelte imprenditoriali si accompagni l'oggettività del provvedimento espulsivo quale conseguenza. Ciò perché “il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della L. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, sicché non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato siano stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta” (Cass. sez. lav., 6 dicembre 2017, n. 29238).

È dunque possibile ritenere definitivamente come l'andamento negativo dell'impresa non costituisca un presupposto essenziale della legittimità del licenziamento economico, risultando sufficienti le ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, anche quando mirate ad una migliore efficienza economica o organizzativa, purché oggettivamente orientate al bilancio di valori costituzionali espresso dai primi due commi dell'art. 41 Cost. (Cass. sez. lav., 12 aprile 2018, n. 9127).

La scelta del lavoratore da licenziare: i criteri

Il principio generale nella individuazione del lavoratore da licenziare è quello della buona fede contrattuale, in virtù del quale anche l'individuazione del destinatario deve essere il frutto di una valutazione oggettiva, scevra da esercizi discrezionali o, peggio, discriminatori. Normalmente è riconosciuto il ricorso ai criteri già previsti dalla legge ed adottati in occasione delle procedure per i licenziamenti collettivi.

Anche questo criterio però è da ritenere con la necessaria adattabilità, connessa in concreto alle fattispecie che di volta in volta vengono a realizzarsi, fino alla possibilità di ritenere superflua qualsiasi selezione, quando il contesto concreto delle ragioni del licenziamento consente di individuare immediatamente il lavoratore interessato. Come accade ad esempio nella soppressione di uno specifico servizio legato alla cessazione di un appalto, che non si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile. In questo caso il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell'azienda e l'applicazione dei criteri previsti per i licenziamenti collettivi (Cass. sez. lav., 27 ottobre 2017, n. 25653).

Dunque i criteri di scelta e la necessità di una verifica comparativa della scelta del lavoratore da licenziare entrano in gioco soltanto quando il giustificato motivo oggettivo si identifichi in una generica esigenza di riduzione del personale, assolutamente omogenea e fungibile, mentre tale momento non è necessario quando l'esigenza di riduzione del personale non investe unità indeterminate e non deve perciò operarsi indifferentemente tra più lavoratori assolutamente omogenei e fungibili, ma concerne specificamente una (o più) precisa ed individuata posizione lavorativa determinata da un lavoratore e con delle competenze individuate.

Il repechage. L'onere della prova

Un corollario importante della legittimità del licenziamento economico e della verifica della sussistenza di tutti i suoi requisiti giustificativi è rappresentato dall'onere per il datore di lavoro di provare, oltre ai motivi premessi, l'insussistenza di alternative utili alla ricollocazione del dipendente, tale che il licenziamento, oltre che conseguenza oggettiva delle soluzioni organizzative adottate, ne costituisce anche l'unica possibile. Principio consolidato del c.d. repechage è la necessità di tale adempimento probatorio in capo al datore di lavoro, pena l'illegittimità del licenziamento (Cass. sez. lav., 12 gennaio 2017, n. 618).

Anche la dimostrazione della incollocabilità alternativa del lavoratore è soggetta però a valutazioni da verificare caso per caso, sino alla decadenza dell'obbligo di repechage quando a fronte di una riorganizzazione tecnologica, l'inadeguatezza tecnica per l'espletamento dei compiti esclude in radice la possibilità di ricollocazione del lavoratore (Cass. sez. lav., 11 maggio 2018, n. 11413).

La prova della soppressione del posto di lavoro e della ripartizione dei compiti residuati tra il personale preesistente infatti, verificata la non strumentalità della soppressione del posto di lavoro al mero incremento del profitto avulso da una effettiva riorganizzazione, fa retrocedere fino a venire meno del tutto il fondamento stesso dell'obbligo di repechage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente reimpiegabili (Cass. sez. lav., 24 maggio 2017, n. 13089).

La manifesta insussistenza dell'art. 18 e la tutela indennitaria delle tutele crescenti

Le recenti riforme che hanno interessato la disciplina dei licenziamenti hanno investito in maniera significativa anche il licenziamento per ragioni economiche, in particolare riguardo la tutela da apprestare in caso di illegittimità.

Relativamente certa appare la disciplina recata dalle c.d. “tutele crescenti”.

Ai sensi dell'art. 3, co. 1 del D.Lgs. n. 23/2015, accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. Netta la scelta del legislatore di assegnare perciò una tutela esclusivamente indennitaria in caso di insussistenza di uno dei requisiti che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Più complicata la soluzione per quei rapporti, sorti prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015 e perciò sotto l'egida dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970) così come riformato dalla L. n. 92/2012, perché ai sensi del settimo comma della norma, il giudice “può” riconoscere la tutela reale, e quindi il diritto alla reintegrazione con la conservazione del posto di lavoro nell'ipotesi in cui accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Nonostante la brillante esegesi talvolta offerta da autorevolissima dottrina (Qui il fatto non presenta, ovviamente, nella sua oggettività le caratteristiche proprie dell'inadempimento che hanno a tal proposito consentito al legislatore le ricordate due tipizzazioni della ingiustificatezza qualificata, sicché qui la distinzione all'interno dell'ingiustificatezza passa necessariamente dal suo essere o no “manifesta”, che appunto indica anche qui il “torto marcio” del datore di lavoro.

Manifesta significa evidente e si collega nella sua etimologia all'arresto (preso per mano) nella indiscutibile flagranza dell'azione cui consegue il giudizio direttissimo (art. 449 c.p.p.) ed è lo stesso aggettivo utilizzato per qualificare l'infondatezza della questione di costituzionalità non meritevole neppure di rimessione alla Consulta” - VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012-), appare obiettivamente complicato assegnare alla locuzione un significato univoco, certo ed utilmente distinguibile, in concreto, dalle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo (E ciò perché, come altrettanto autorevolmente è stato osservato, d'altro canto, “l'attributo manifesta enfatizza, più che rinforzare il sostantivo insussistenza: riguarda la percezione, non la sostanza dei fatti, che esistono o non esistono” (CARINCI, Complimenti, dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, LG, 6/2012, 548.).

La Corte di cassazione ancora di recente ha provato ad offrire una soluzione alla controversa questione, occupandosi nello specifico anche le ricadute in materia di ricollocazione, provando così ad assegnare connotati concreti a tali princìpi dall'incerta interpretazione.

La Corte (Cass. sez. lav., 2 maggio 2018, n. 10435), preso atto della novità della questione, ha affermato il principio di diritto per il quale “la verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La manifesta insussistenza va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”.

La pronuncia si fonda sul riconoscimento della considerazione unitaria dei due elementi che legittimano il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: esigenza della soppressione del posto di lavoro e impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore interessato.


È compito del giudice, che stando alle lettera della norma può (e quindi può anche non farlo) riconoscere il diritto alla conservazione del posto di lavoro, optare tra il regime sanzionatorio più severo o quello indennitario, alla luce della verifica della eventuale eccessiva onerosità in caso di reintegrazione. Nel caso di specie, l'incertezza delle circostanze fondamentali sulle possibilità di repechage non ha consentito di ritenere – sebbene il datore di lavoro avesse omesso l'indagine su una utile ricollocazione alternativa del lavoratore – l'insussistenza assoluta che stando alla lettera del settimo comma dell'art. 18, colloca in una posizione di residualità-specificità la tutela reale per il licenziamento per ragioni economiche.

L'occasione è stata inoltre utile alla Corte per riaffermare, richiamando le più recenti pronunce conformi, il principio per il quale la ragione giustificatrice del licenziamento inerente all'attività produttiva “è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali”.

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