Bancarotta fraudolenta e appropriazione indebita: la Cassazione prende atto delle indicazioni della Corte costituzionale

23 Luglio 2018

Non può essere processato per bancarotta chi è già stato assolto, per i medesimi fatti, dall'accusa di appropriazione indebita. Si tratta infatti di una violazione del principio del ne bis in idem, così come interpretato di recente dalla Corte costituzionale.
Massima

Non può essere processato per bancarotta chi è già stato assolto, per i medesimi fatti, dall'accusa di appropriazione indebita. Si tratta infatti di una violazione del principio del ne bis in idem, così come interpretato di recente dalla Corte costituzionale.

Il caso

Con una innovativa decisione la Cassazione, sulla scorta delle innovazioni introdotte dalla recente giurisprudenza costituzionale, modifica radicalmente il suo tradizionale orientamento in tema di concorso fra i reati di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta patrimoniale, sostenendo per la prima volta che il giudicato formatosi con riferimento al delitto di cui all'art. 646 c.p. è ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio per la bancarotta patrimoniale e ciò in quanto la possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento è stata esclusa dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2016.

Nel caso di specie, un imprenditore veniva condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale commessa quale amministratore di fatto di una società fallita. In particolare, all'imputato veniva attribuita la distrazione di €. 35.000 euro, ma la difesa, nel ricorso per cassazione avverso le decisioni di merito, lamentava che per il medesimo fatto - l'appropriazione della somma di € 35.000 -, qualificato come appropriazione indebita, l'imputato era già stato giudicato e assolto con sentenze passate in giudicato.

La questione

Sul rapporto tra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta (una volta dichiarato il fallimento) degli stessi beni, la giurisprudenza ha assunto posizioni diversificate ma comunque tutte intese a sostenere che lo svolgimento di un proprio processo per il reato di cui all'art. 646 c.p. non precludesse comunque lo svolgimento di un successivo autonomo giudizio per i medesimi fatti qualificati come distrazione fallimentare.

In particolare, alcune decisioni, più risalenti, hanno fatto riferimento alternativamente alle figure del concorso formale o del reato complesso, sostenendo, nell'uno e nell'altro caso, che un giudizio, celebrato e comunque concluso, per il reato di cui all'art. 646 c.p. non sarebbe di ostacolo - una volta intervenuto il fallimento - alla celebrazione di altro giudizio per bancarotta. Secondo questa posizione all'unicità di un determinato fatto storico può far riscontro una pluralità di eventi giuridici (come si verifica, appunto, nell'ipotesi del concorso formale di reati), sicché il giudicato formatosi con riguardo ad uno di tali eventi non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un altro evento (inteso sempre in senso giuridico), pur scaturito da un'unica condotta, quale che sia stato il reato giudicato per primo – salvo che nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato, per ovvie ragioni di incompatibilità logica e per evitare il conflitto di giudicati (Cass., sez. V, 20 gennaio 2016, n. 11918; Cass., Sez. II, 4 marzo 1997, n. 10472. In dottrina, PANTANELLA, La condanna irrevocabile per l'appropriazione indebita di beni aziendali non preclude l'esercizio per bancarotta per distrazione degli stessi beni, in Cass. Pen., 2014, 2411; DI GERONIMO, Bancarotta fraudolenta ed appropriazione indebita: una controversa ipotesi di reato complesso, ivi, 2010, 1598).

Secondo un'altra impostazione, di elaborazione più recente ed oggi maggioritaria, l'appropriazione indebita e la bancarotta fraudolenta per distrazione sono in rapporto di contenuto a contenitore, poiché la bancarotta fraudolenta integra una ipotesi di reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p. con la conseguenza che solo l'avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l'appropriazione, e non viceversa. Tale impostazione fa leva sul fatto che gli elementi normativi descrittivi della bancarotta sono diversi e più ampi rispetto a quelli descrittivi dell'appropriazione, giacché nella bancarotta assume rilevanza la pronuncia di fallimento, che manca all'altra figura di reato (Cass., sez. V, 9 luglio 2010, n. 37298; Cass., sez. V, 18 novembre 2008, n. 4404). Questa impostazione, dunque, valorizza, per la comparazione delle fattispecie (e, quindi, per valutare l'identità del fatto, preclusiva, per l'art. 649 c.p.p., del secondo giudizio), non solo la dimensione naturalistica, ma anche la configurazione giuridica delle fattispecie, per affermare la loro diversità strutturale e, quindi, la irriconducibilità all'idem factum (in dottrina, VALBONESI, Appropriazione indebita, bancarotta per distrazione e ne bis in idem processuale, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2009, 637).

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento, la Cassazione ritiene di dover abbandonare entrambi gli orientamenti ora esposti in quanto in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200/2016.

La Cassazione analizza con attenzione la pronuncia del giudice delle leggi evidenziando come la Consulta abbia escluso che l'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU - secondo cui "nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato" - abbia un contenuto più ampio di quello dell'art. 649 c.p.p.. Secondo la Corte costituzionale, infatti, la giurisprudenza della Corte EDU evidenzia solo che - per i giudici di Strasburgo - la medesimezza del fatto va apprezzata alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, col ripudio di ogni riferimento alla qualificazione giuridica della fattispecie, ma non v'è nessuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa, secondo il giudizio della Corte EDU, "all'azione o all'omissione, e non comprenda, invece, anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente". Parimenti, ha proseguito la Corte Costituzionale, nemmeno il contesto normativo in cui si colloca l'art. 4 del Protocollo CEDU depone per una lettura restrittiva dell'idem factum, da condurre attraverso l'esame della sola condotta ed anzi varie norme della Convenzione (tra cui proprio l'art. 4 del Protocollo 7, che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni sono in grado di mettere in discussione una sentenza - favorevole all'imputato - già passata in giudicato) evidenziano come, allo stato, il testo convenzionale impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest'ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell'agente. Alla luce di queste considerazioni, dunque, dovrebbe ritenersi corretta la giurisprudenza di legittimità, per la quale l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655), sempre che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente.

Una volta considerato l'approdo cui è giunta la Corte Costituzionale, secondo la Cassazione non è corretto sostenere che il giudicato formatosi sull'appropriazione indebita non sia ostativo alla celebrazione di un secondo giudizio per la bancarotta patrimoniale affermando che alla apparente unicità della condotta non corrisponde l'unicità del fatto e ciò in quanto, come affermato dai giudici di merito, "anche se la condotta è unica, come si potrebbe ritenere nel caso in esame, gli eventi possono essere plurimi e possono dare ontologicamente luogo a fatti che possono essere separatamente perseguiti".

Questa impostazione evidentemente richiama la giurisprudenza giusta la quale la declaratoria di fallimento, pur non integrando un evento del reato, qualifica la fattispecie di bancarotta fraudolenta nella sua specificità offensiva, per il fatto che attualizza l'offesa al bene giuridico protetto, rappresentata dalla garanzia che il patrimonio dell'imprenditore costituisce per i creditori, rappresentando altresì un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. Tale tesi viene però rigettata dalla sentenza in commento in quanto la possibilità di procedere per la bancarotta dopo la formazione del giudicato sull'appropriazione è - dopo la sentenza n. 200/2016 della Corte Costituzionale, sopra richiamata, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale - condizionata alla possibilità di leggere, nella bancarotta, un fatto diverso rispetto all'appropriazione, sulla base degli elementi identitari del reato, tradizionalmente compendiati nella triade condotta, nesso causale, evento. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale, infatti, la problematica posta dall'impatto del ne bis in idem sul concorso reale di norme va risolta considerando che un nuovo giudizio è consentito solo se il fatto che si vuole punire sia, naturalisticamente inteso, diverso, e non già perché con la medesima condotta sono state violate più norme penali e offeso più interessi giuridici, il che impedisce di far riferimento all'istituto del concorso reale di norme per dirimere la problematica posta dal sopravvenire del fallimento alla pronuncia di appropriazione.

La sentenza in esame poi si premura anche di evidenziare come nemmeno l'impostazione più recente della giurisprudenza di legittimità, che fa leva sul fatto che appropriazione indebita e bancarotta per distrazione sono strutturalmente diverse, perché la bancarotta ha, in più, l'elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che "attualizza" l'offesa insita nell'appropriazione, può essere seguita. Infatti, va considerato che il diritto penale punisce i fatti dipendenti dall'azione o dall'omissione dell'agente, per cui “anche se nel "fatto" vanno ricompresi - secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite - le conseguenze della condotta (l'evento) e il nesso che le lega alla condotta, deve trattarsi pur sempre di elementi dipendenti dall'agire del soggetto, perché possano essergli addebitati”; la dichiarazione di fallimento è, invece, per generale opinione, indipendente dalla volontà dell'agente, perché consegue all'iniziativa dei creditori o del Pubblico Ministero ed è legata alle valutazione del Tribunale fallimentare, sicché non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del "fatto", nella accezione assunta dal giudice delle leggi e che qui rileva. Detto altrimenti, nella bancarotta fraudolenta patrimoniale la condotta si perfeziona con la distrazione, ma la punibilità è subordinata - secondo lo schema dell'art. 44 c.p. - alla dichiarazione di fallimento, per cui se l'agente è già stato giudicato con carattere di definitività per il delitto di cui all'art. 646 c.p., nel caso di condanna egli sarà assoggettato alla sanzione penale stabilità dal giudice, mentre nel caso di assoluzione non può la medesima condotta essere contraddittoriamente valutata penalmente rilevante.

In sintesi, depurata dall'elemento rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall'appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto del bis in idem. La profonda diversità della bancarotta per distrazione, rispetto all'appropriazione indebita, sta, in realtà, nell'offesa che essa reca all'interesse dei creditori, per la diminuzione della garanzia patrimoniale che è ad essa collegata; ma si tratta dì una diversità che, stando al dictum della Corte Costituzionale, non rileva ai fini della identificazione del "fatto", perché attiene - insieme all'oggetto giuridico, alla natura dell'evento, ecc. - ad elementi della fattispecie che, per la loro opinabilità, non devono concorrere a segnare l'ambito della garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem.

Alla conclusione circa il divieto di procedere a nuovo processo per bancarotta fraudolenta patrimoniale per vicende che hanno già costituito oggetto di un procedimento per appropriazione indebita, infine, la Cassazione giunge con una ulteriore riflessione. E' generalmente riconosciuta l'esistenza, nell'ordinamento, del giudicato parziale, che può riguardare uno dei fatti di cui un soggetto sia contemporaneamente accusato, ovvero un elemento del fatto a lui addebitato; tale giudicato si forma a seguito dell'accertamento giudiziale contenuto in un provvedimento definitivo del giudice penale e poggia su una imprescindibile ragione di ordine logico, non potendosi ammettere che sulle medesime circostanze di fatto - che possono riguardare anche la sola condotta del soggetto - siano emesse pronunce contraddittorie, con frustrazione degli scopi della giurisdizione. In applicazione di tale principio è stato costantemente affermato che - se la preclusione di cui all'art. 649 c.p.p. non può essere invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia già intervenuta una pronuncia irrevocabile, configuri un'ipotesi di "concorso formale di reati" (impostazione ancora valida, col limite introdotto dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale) - tanto non vale allorché il secondo giudizio si ponga in una situazione di incompatibilità logica con il primo: ciò che potrebbe verificarsi allorché nel primo giudizio sia stata dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell'imputato (Cass., sez. III, 18 settembre 2014, n. 11918; Cass. Sez. III, 15 aprile 2009, n. 25141). Orbene, secondo la Cassazione, ciò che vale per il concorso reale di norme incriminatrici vale, stante l'identità di ratio, per il reato complesso (a cui, si è visto, viene ricondotta, da parte di alcune pronunce, la sequenza appropriazione-bancarotta), che si caratterizza per la presenza di elementi riconducibili ad altre fattispecie delittuose, su cui potrebbe essere senz'altro intervenuto - prima dell'avvio dell'azione penale per il reato complesso - un accertamento giudiziale con efficacia di giudicato: nel caso di specie, tuttavia, l'imputato era stato assolto dall'accusa di essersi appropriato della somma di 35 mila euro, che è anche alla base della contestazione di bancarotta, per cui pur volendo ammettere che, agli effetti dell'art. 649 c.p.p., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall'appropriazione, deve riconoscersi che l'unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell'avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l'imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato.

Conclusioni

La sentenza della Cassazione, oltre ad essere condivisibile negli esiti finali, è stata in qualche modo “imposta” alla Corte Suprema dalla recente giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha ridisegnato non solo l'operatività dell'art. 649 c.p.p. ma la nozione di idem factum rilevante per l'operatività del divieto di un secondo processo.

Va detto tuttavia che, sulla scorta delle riflessioni svolte nella presente decisione e su cui ci si è soffermati in precedenza, è da ritenere che debba essere superato un ulteriore orientamento giurisprudenziale che restringe fortemente l'operatività del divieto di bis in idem. Intendiamo riferirci alla tetragona giurisprudenza secondo cui la celebrazione di un processo per lesioni personali a carico di un dipendente con violazione della normativa infortunistica non preclude, in caso di successivo decesso del medesimo soggetto, la celebrazione di un nuovo processo per il delitto di omicidio colposo ex art. 589 c.p. (Si veda ad esempio Cass., sez. IV, 14 marzo 2017, n. 12175, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha escluso la violazione del divieto di bis in idem in relazione ad un processo per omicidio colposo di lavoratori morti per mesotelioma pleurico celebrato nei confronti di imputati precedentemente assolti per identica imputazione, avente ad oggetto il decesso di altri lavoratori per la stessa malattia, sul presupposto che il successivo giudizio attiene ad eventi naturalistici diversi, in quanto perpetrati in danno di differenti persone offese. Nello stesso senso, Cass., sez. F, 10 agosto 2016, n. 34782) o la giurisprudenza in tema di concorso fra il reato di cui all'art. 437 c.p. ed i reati di omicidio e lesioni colpose con violazione della normativa antifortunistica in base alla quale “qualora dall'ammissione dolosa di impianti diretti a prevenire disastri o infortuni su lavoro sia derivato un disastroso incendio nel quale abbiano perso la vita alcuni operai mentre espletavano attività lavorative, sussiste concorso formale tra il reato di cui all'art. 437, comma 2, c.p. e quello previsto dall'art. 589, commi 2 e 3, c.p.. Tali previsioni normative, infatti, considerano distinte situazioni tipiche, vale a dire la dolosa omissione di misure antinfortunistiche con conseguente disastro e la morte non voluta di una o più persone, e tutelano interessi differenti, cioè la pubblica incolumità e la vita umana. Poiché il danno alla persona non è compreso nell'ipotesi complessa di cui all'art. 437, comma 2, c.p., costituendo effetto soltanto eventuale e non essenziale del disastro o dell'infortunio, causato dall'omissione delle cautele, la morte, sia pure in conseguenza dell'omissione stessa, non viene assorbita dal reato ex art. 437, comma 2, c.p., ma costituisce reato autonomo. La punizione dell'uno e dell'altro reato, pertanto, non comporta duplice condanna per lo stesso fatto e, quindi, non viola il principio del ne bis in idem" (Cass., sez. IV, 8 novembre 1993, n. 10048).

Pare evidente, infatti, che – come sostenuto da tempo in dottrina (FERRUA, La sentenza costituzionale sul caso Eternit: il ne bis in idem tra diritto vigente e diritto vivente, in Cass. Pen., 2017, 60; BIER, La valenza della locuzione "medesimo fatto" utilizzata dall'art. 649 c.p.p. quale presupposto del divieto di un secondo giudizio e l'applicabilità della norma nel caso di concorso formale di reati e di reato progressivo, in Foro Ambr., 2006, 220) – queste affermazioni non siano più attuali se si ritiene vincolante l'indicazione fornita dalla Corte costituzionale in tema di operatività del principio del ne bis in idem.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.