Le prassi di merito: alcuni principi accolti dalla Corte d'appello di Venezia in tema di dichiarazione di fallimento

Gianni Solinas
23 Luglio 2018

Da alcuni recenti arresti della Corte d'Appello di Venezia si possono individuare alcuni principi che - a prescindere dagli specifici casi trattati - sembrano trovare accoglimento avanti al Giudice di secondo grado nel delicato ambito della dichiarazione di fallimento.
Premessa

Da alcuni recenti arresti della Corte d'Appello di Venezia si possono individuare alcuni principi che - a prescindere dagli specifici casi trattati - sembrano trovare accoglimento avanti al Giudice di secondo grado nel delicato ambito della dichiarazione di fallimento.

Difatti la Corte d'Appello di Venezia affronta, con chiarezza, alcune delicate e ricorrenti tematiche inerenti alla:

(i) notifica, a mezzo PEC, dell'istanza di fallimento;

(ii) all'accertamento dei presupposti oggettivi per la dichiarazione di fallimento;

(iii) all'accertamento dei presupposti, invece, soggettivi per la dichiarazione di fallimento.

La notifica a mezzo PEC

Alcune pronunce della Corte d'Appello di Venezia prendono posizione su alcune questioni relative ad un tema che presenta numerose peculiarità, per la cui corretta analisi occorre muovere da imprescindibili premesse in linea di diritto ovvero dall'analisi di quando disposto dall'art. 15 l.fall.

(i) Mancato aggiornamento dell'indirizzo PEC da parte della Camera di Commercio

Come ribadito dalla Corte d'Appello di Venezia con la sentenza n. 2814 dell'1 dicembre 2017, (procedimento sub n. 3122/2017 R.G.), “… in tema di procedure concorsuali, la cancelleria del tribunale deve procedere ai sensi dell'art. 15 l.f. alla notifica tramite l'indirizzo PEC della Società, il quale risulta dal registro delle imprese ovvero dall'indice nazionale degli indirizzi PEC. Solo a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo, il creditore istante deve procedere a mezzo di ufficiale giudiziario, il quale dovrà accedere presso la sede legale con successivo deposito nella casa comunale, ove il destinatario non sia lì reperito (Cassazione civile, Sez. VI, 21/04/2017, n. 10132)”.

La fattispecie concreta di cui la sentenza richiamata tratta, riguarda il caso in cui la variazione dell'indirizzo PEC della società era stata correttamente annotata nel Registro delle imprese, ma non parimenti trascritta presso la Camera di Commercio e ciò in violazione dell'obbligo dell'aggiornamento giornaliero dei dati relativi agli indirizzi PEC da inserire nell'INI PEC, cui quest'ultima è tenuta in base al D.M. del 19.03.2013, art. 5.

Considerato che tale omissione e/o errore non era imputabile alla società, la Corte d'Appello di Venezia ha ritenuto di dover escludere – nel caso specifico - l'operatività del regime speciale previsto dall'art. 15 l.fall., a favore, al contrario, della disciplina generale ed ordinaria prevista dall'art. 145 c.p.c.

Inoltre – altro principio interessante indicato dalla Corte - l'errore nella notifica effettuato dalla cancelleria non può trovare sanatoria nell'eventuale corretta notifica effettuata da un creditore, “non potendo tale iniziativa surrogare quella della cancelleria.

Premesso quanto sopra, la Corte d'Appello ha revocato il fallimento specificando (altro aspetto non irrilevante) che, attesa la natura del giudizio in sede di gravame, non era nemmeno possibile “la regressione del giudizio” al Tribunale essendo, nel caso specifico, anche decorso l'anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

(ii) Disattivazione dell'indirizzo PEC sociale

Diversa è la fattispecie analizzata nella ssentenza n. 1435 del 7 luglio 2017 (procedimento sub n. 1416/2017 R.G.).

In tal caso, la fallita interponeva reclamo ex art. 18 l.fall. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, dolendosi della nullità della notifica dell'istanza di fallimento, in quanto eseguita ai sensi dell'art. 15 l.fall., sebbene l'impresa individuale fosse stata cancellata dal registro delle imprese e avesse, a suo dire, legittimamente disattivato l'indirizzo di posta elettronica certificata. La fallita riteneva di sollevare eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 15 l.fall. per violazione degli artt. 3 e 24 Costituzione, vista l'irragionevole ed immotivata disparità di trattamento cui darebbe luogo rispetto alle modalità richieste per la notifica “ordinaria” a persona giuridica, con specifico riguardo all'evenienza del mancato reperimento del destinatario presso la sede legale.

Per completezza si ricorda che la Corte Costituzionale, sul punto, si era già espressa con la sentenza di rigetto n. 146 del 16 giugno 2016. Il Giudice delle leggi ha ritenuto che la disciplina speciale sia il risultato di un difficile contemperamento di interessi opposti, dal momento che “si propone, infatti, di coniugare quella stessa finalità di tutela del diritto di difesa dell'imprenditore collettivo con le esigenze di celerità e speditezza cui deve essere improntato il procedimento concorsuale.” Inoltre, “del pari non fondata è anche la residua censura di violazione dell'art. 24 Cost. Il diritto di difesa […] è adeguatamente garantito dalla norma denunciata, proprio in ragione del predisposto duplice meccanismo di ricerca della società. Questa, infatti, ai fini della sua partecipazione al giudizio, viene notiziata prima presso il suo indirizzo PEC, del quale è obbligata a dotarsi. […] Solo a fronte della non utile attivazione di tale primo meccanismo segue la notificazione presso la sede legale dell'impresa collettiva: ossia, presso quell'indirizzo da indicare obbligatoriamente nell'apposito registro ex l. 29 dicembre 1993, n. 580. Per cui, in caso di esito negativo di tale duplice meccanismo di notifica, il deposito dell'atto introduttivo della procedura fallimentare presso la casa comunale ragionevolmente si pone come conseguenza immediata e diretta della violazione.” La Corte Costituzionale conclude ritenendo che “il Tribunale resti esonerato dall'adempimento di ulteriori formalità, ancorché normalmente previste dal codice di rito, allorquando la situazione di irreperibilità dell'imprenditore debba imputarsi alla sua stessa negligenza e a condotta non conforme agli obblighi di correttezza di un operatore economico (Cass., Sezione sesta, sentenze n. 3062 del 2011, n. 32 del 2008)”.

Alla luce anche di tale principio, la Corte d'Appello ricorda come la Suprema Corte, con sentenza n. 17884 del 9 settembre 2016, abbia ritenuto valide le argomentazioni di cui sopra anche per “il caso dell'imprenditore individuale il quale […] abbia disattivato la propria casella di PEC anche nel periodo dell'anno successivo nel quale, ai sensi dell'art. 10 l.f., egli può essere dichiarato fallito.”

Dunque, a parere della Corte d'Appello, il mantenimento in vita della PEC durante l'anno successivo alla cancellazione dal registro delle imprese sembra un vero e proprio onere in capo alla società, in forza dell'art. 16, d.l. 29 novembre 2008, n. 185 convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 e successivamente esteso agli imprenditori individuali con l'art. 5 del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012.

Da ultimo, la Corte d'Appello, rafforzando quanto sopra evidenziato, ha richiamato anche la recente sentenza della Suprema Corte n. 602 del 12 gennaio 2017, ove la stessa ha precisato che l'art. 15 l.fall. “… ha introdotto in materia una disciplina speciale, del tutto distinta da quella che, nel codice di rito, regola le notificazioni degli atti del processo: va escluso, pertanto, che residuino ipotesi in cui il ricorso di fallimento e il decreto di convocazione debbano essere notificati, ai sensi degli artt. 138 e segg. o 145 c.p.c.”.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Corte d'Appello di Venezia ha rigettato il reclamo.

Eguali motivazioni appaiono sottendere anche alla più recente sentenza n. 957 del 20 aprile 2018(procedimento sub n. 217/2018 R.G.).

Anche in tal caso, la società dichiarata fallita proponeva reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto, inter alia, “il ricorso-decreto non è stato notificato all'indirizzo PEC della resistente.

Tuttavia, dalle risultanze istruttorie emergeva che la notifica a mezzo PEC ex art. 15 l.fall. non poteva essere effettuata dalla cancelleria, in quanto “l'indirizzo reperito da INIPEC non risultava valido e lo stesso corrisponde a quello risultante dalla visura camerale […] Pertanto sono stati espletati gli altri incombenti di cui all'art. 15 citato”. La Corte d'Appello, sebbene non esplicitamente, appare confermare il suo precedente orientamento nel senso di ritenere, in presenza di errore e/o omissione imputabile alla società, comunque perfezionata la notifica ex art. 15 l.f. nel momento in cui si compiono gli adempimenti ivi prescritti. Tale orientamento, sicuramente da condividere, deve anche leggersi in un'ottica di speditezza della procedura concorsuale e trova applicazione anche a vizi minori quali, ad esempio, quelli di forma.

Nella stessa sentenza, infatti, quanto alla dedotta mancanza dell'attestazione di conformità, la Corte d'Appello statuisce che “… si tratta di un mero vizio di forma, che non comporta alcuna nullità, dato che l'istanza di fallimento e il decreto notificati sono ricavati da un file immodificabile.

In maniera conforme si è espressa la medesima Corte d'Appello nella sentenza n. 684 del 19 marzo 2018 (procedimento sub n. 4703/2017 R.G.).

I requisiti oggettivi

I requisiti oggettivi (inerenti ai limiti dimensionali) a cui la legge fallimentare subordina l'assoggettamento alla procedura fallimentare possono assumere contorni incerti, in cui spesso si rende necessaria l'azione interpretativa dell'Organo giudicante.

(i) Limite dimensionale: onere della prova e momento dell'accertamento del limite

In una prima pronuncia meritevole di richiamo, la Corte d'Appello di Venezia affronta una questione riguardante l'ammontare del passivo fallimentare. In particolare, la reclamante sosteneva di aver pagato un numero sufficiente di cambiali di talché, detratto tale importo, la società al momento della dichiarazione di fallimento avrebbe avuto debiti scaduti e non pagati per un ammontare complessivo inferiore a quello previsto dall'art. 15, ultimo comma, l.fall.

Le risultanze istruttorie confermavano che, tra le cambiali prodotte dalla reclamante, solo alcune portavano la dicitura “pagato”, mentre le altre erano solo nel suo possesso.

A tal riguardo, richiamando alcune recenti pronunce della Suprema Corte, la Corte d'Appello ricorda, in via preliminare, come “il possesso da parte del debitore del titolo originale del credito costituisce fonte di una presunzione legale juris tantum di pagamento, superabile con la prova contraria di cui deve onerarsi il creditore che sia interessato” (Cass. n. 13462 del 3 giugno 2010). Inoltre, sottolinea la medesima Corte, la restituzione volontaria al debitore del titolo originale del credito “vale come liberazione dalla obbligazione, in conformità alla valutazione legale tipica del suddetto comportamento prevista dall'art. 1237, primo comma, c.c., a condizione che il debitore, secondo il principio generale posto dall'art. 2697 c.c., provi la volontarietà della restituzione da parte del creditore o da persona ad esso riferibile” (Cass. n. 1455 del 27 giugno 2015).

Ora la Corte d'Appello, evidenziando che, nel caso concreto, le cambiali non riportano alcuna quietanza, come contrariamente previsto dalla legge cambiaria (art. 4, comma 1, L. n. 77/1955, come sostituito dall'art. 2 della legge n. 235 del 2000), rigetta il reclamo e per l'effetto conferma la sentenza reclamata del Tribunale di Treviso, sull'ulteriore considerazione che “l'onere probatorio della reclamante non è limitato al mero pagamento, ma anche alla data in cui lo stesso è avvenuto, data che deve necessariamente essere anteriore alla dichiarazione di fallimento, momento in cui deve essere verificato l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare.

(ii) Limite dimensionale ed elementi inerenti ai bilanci.

Altra pronuncia meritevole di menzione concerne le conseguenze del mancato deposito dei bilanci sociali da parte della società dichiarata fallita, con particolare riferimento alla prova della fallibilità.

Nel caso analizzato dalla sentenza n. 828 del 5 aprile 2018 (procedimento sub n. 4382/2017 RG) la società reclamante domandava la revoca del fallimento sul presupposto del mancato superamento delle soglie di cui all'art. 1, comma 2, l.fall.

Al riguardo, la Corte d'Appello ha sottolineato come “aderendo al principio di prossimità della prova, pone a carico del debitore l'onere di provare di essere esente dal fallimento gravandolo della dimostrazione del non superamento congiunto dei parametri dimensionali ivi prescritti” (Cass. n. 13086 del 25 maggio 2010; Cass. n. 23052 del 15 novembre 2010).

La Corte affronta in sequenza logica il tema della mancata produzione di bilanci approvati (formalmente approvati), richiamando i principi di diritto consolidati nella giurisprudenza della Suprema Corte, sottolineando che “integrando una violazione dell'art. 15, quarto comma, l.f., come sostituito dal d.lgs 12 settembre 2007, n. 169, si risolve in danno dell'imprenditore che intenda dimostrare l'inammissibilità della dichiarazione di fallimento” (Cass. n. 13643 del 30 maggio 2013).

Pertanto, la Corte d'Appello rigetta il reclamo statuendo che “tale omissione consegue il mancato raggiungimento della prova da parte della reclamante di essere soggetto non fallibile”, confermando di conseguenza la sentenza del Tribunale di Verona.

(iii) Il trasferimento fittizio della sede sociale

La sentenza n. 465/2018 del 27 febbraio 2018 (procedimento sub n. 4305/2017 RG) affronta il controverso tema del trasferimento fittizio della sede sociale all'estero.

Nel caso specifico, nel corso del 2017 il Tribunale di Padova aveva dichiarato il fallimento di una società legalmente residente a Malta, a seguito di trasferimento della sede sociale operato nel corso del 2014.

La società dichiarata fallita proponeva reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Padova, sul presupposto dell'asserita mancanza di giurisdizione dello stesso, in virtù del sopra richiamato trasferimento di sede sociale.

La soluzione di tale questione giuridica non può prescindere dall'analisi del quadro giuridico di riferimento, individuabile, come sottolineato dalla stessa Corte d'Appello, “nell'art. 3 del regolamento UE 848/2015, rubricato «competenza giurisdizionale internazionale» (che a decorrere dal 26 giugno 2017 ha sostituito senza apportare particolari innovazioni sul punto il Regolamento CE n. 1346/2000). […] Il menzionato articolo stabilisce che «sono competenti ad aprire la procedura d'insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore» e che «il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi». La disposizione precisa poi che «per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale». Tale presunzione si applica solo se la sede legale non è stata spostata in un altro Stato membro entro il periodo di tre mesi precedente la domanda di apertura della procedura d'insolvenza.

La Corte ritiene tale norma portatrice di una presunzione semplice, superabile in forza degli elementi istruttori del caso concreto. In particolare, il giudice di primo grado aveva ritenuto la sussistenza del carattere fittizio del trasferimento sulla base dei seguenti elementi:

  • l'Amministratore Unico della società era, sia prima del trasferimento che successivamente, un cittadino italiano residente in Italia;
  • il socio di maggioranza – pur essendo una società estera – aveva come Amministratore Unico un cittadino italiano;
  • i principali cespiti attivi della società erano, inoltre, situati in Italia.

Tale quadro probatorio viene ritenuto sufficiente anche dalla Corte d'Appello di Venezia, la quale conferma la decisione del giudice di primo grado, statuendo che “ciò che rileva è la permanente attribuzione a un cittadino italiano residente in Italia dei poteri gestori nonché della legale rappresentanza – all'epoca del trasferimento e sino al 2016 – della società socia di maggioranza. Le ulteriori circostanze risultanti in causa confermano e ribadiscono l'indole fittizia del trasferimento”.

In secondo luogo, la reclamante avanzava un secondo motivo di gravame avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, ovvero la sussistenza di una garanzia del credito congrua rispetto al debito dell'istante, fornita dal patrimonio della medesima società.

Anche con riferimento a questo secondo motivo, la Corte d'Appello conferma la sentenza del Tribunale di Padova, sottolineando che “la sussistenza di beni in grado di fornire una “garanzia” alle pretese creditorie della creditrice (recisamente contestate dalla procedura fallimentare e dagli esiti della stima fatta redigere per suo conto) non rileva ai fini della esclusione dello stato di insolvenza, la quale consiste nella incapacità di far fronte ai debiti con mezzi regolari né può essere valorizzata in una ipotetica prospettiva liquidatoria, non risultando che la società si trovi in stato di liquidazione (anche a prescindere che, in una siffatta ipotesi – come detto non risultante in causa – farebbe difetto una adeguata prova della idoneità dei beni indicati a far fronte a tutti i debiti.

I requisiti soggettivi

Nella sentenza n. 2913 del 19 dicembre 2017 ( procedimento sub n. 3009 R.G.), la Corte d'Appello ritorna sulla dibattuta questione riguardante le società holding occulte. Con tale pronuncia, la Corte d'Appello ricostruisce lo stato dell'arte della materia, individuando: i) i requisiti della società di fatto occulta, ii) il termine di fallibilità e iii) gli indici presuntivi per il suo riconoscimento.

Nel caso concreto in esame, il giudice di primo grado aveva ritenuto provata “l'esistenza della holding di fatto occulta, sulla base di una serie di indici presuntivi; vi era stata da parte della holding violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, con consequenziale sussistenza di un credito risarcitorio corrispondente all'ammontare dei danni prodotti dalla società controllante al patrimonio della società controllata e quindi ai suoi creditori”.

Avverso tale sentenza veniva interposto reclamo avanti la Corte d'Appello basato, inter alia, sui seguenti motivi di impugnazione: decorso del termine annuale di cui all'art. 10 l.fall. e inesistenza della holding occulta.

Procedendo secondo l'ordine logico seguito dalla stessa Corte d'Appello, viene prima affrontata la questione preliminare riguardante il decorso del termine di cui all'art. 10 l.fall.

(i) Il decorso del termine di cui all'art. 10 l.fall.

A tal riguardo, la Corte d'Appello si richiama integralmente all'orientamento della Suprema Corte, espresso anche di recente, secondo cui: “il termine di un anno dalla cessazione dell'attività, previsto dall'art. 10 l.f. ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese e non può trovare, quindi, applicazione per quegli imprenditori che neppure siano stati iscritti nel menzionato registro, in quanto, da un lato, si tratta di beneficio riservato soltanto a coloro che abbiano assolto all'adempimento formale dell'iscrizione, e, dall'altro, i creditori ed il Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 10, comma 2, l.f., possono dare la prova della data di effettiva cessazione dell'attività d'impresa soltanto nei confronti di soggetti cancellati dal registro delle imprese, d'ufficio o su richiesta e, quindi, comunque in precedenza necessariamente iscritti.

Conclude la Corte che, pertanto, “parte reclamante neppure può invocare a suo favore l'art. 10 l.f. citato in riferimento alla holding/sdf occulta.

(ii) Configurabilità della holding occulta

In riferimento a tale ulteriore motivo di reclamo, la Corte d'Appello indica inizialmente i requisiti per la configurabilità della holding di tipo personale, muovendo poi verso le ragioni che ne giustificano la fallibilità e concludendo con gli indici concreti che ne fanno sorgere la presunzione di esistenza.

In primo luogo, la Corte conferma quanto già ribadito dalla Corte di Cassazione nel ritenere configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica “che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loto autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima” (Cass. Sez. UU. n 25275 del 29 novembre 2006).

Alla luce di quanto sopra, la holding “è pertanto autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall'abuso sanzionato dall'art. 2497 c.c., nonché al danno così arrecato all'integrità patrimoniale delle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori” (Cass. n. 15346 del 25 luglio 2016).

Tali premesse sono il punto di partenza necessario per condurre l'accertamento in concreto dell'esercizio di attività d'impresa che, ad avviso della medesima Corte d'Appello di Venezia, può “avvenire sulla base di presunzioni basata su indizi gravi, precisi e concordanti,” tra cui “la detenzione da parte dei soggetti – soci della holding/sdf – di quote societarie delle società c.d. “figlie”; lo svolgimento da parte dei medesimi soggetti di ruoli preponderanti nell'amministrazione delle medesime; la coincidenza tra le attività e l'organizzazione delle società di capitali controllate; lo svolgimento dell'attività di impresa in locali anche parzialmente coincidenti; l'esistenza di ricavi derivanti soprattutto da fatturati inter-company.

La Corte d'Appello, a conclusione della sua istruttoria, ravvisando la sussistenza degli elementi sopra descritti, ha rigettato il reclamo e confermato la sentenza del giudice di prime cure.

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