Condominio e locazione

Uso delle cose comuni (pari uso)

26 Luglio 2018

L'istituto del condominio si caratterizza soprattutto per l'esistenza di cose comuni (non fini a se stesse, ma) a servizio del godimento di unità immobiliari di proprietà esclusiva, eppure la disciplina ad esso dedicata nel codice civile non contiene alcuna disposizione che regoli l'uso delle cose comuni, uso che, nella fattispecie condominiale, è appunto in funzione naturale del godimento di altre cose, ossia dei locali, appartamenti e piani di proprietà separata: invero, tale disposizione va rinvenuta nell'art. 1102 c.c., dettata per la comunione che, invece, si caratterizza, tra l'altro, per la mancata coesistenza di cose comuni ed individuali nonché per l'inesistenza del necessario nesso di strumentalità o accessorietà tra tali cose. Si tratta, comunque, di una disciplina assai scarna, con cui il Legislatore...
Inquadramento

L'art. 1102 c.c. - operante, per quanto concerne il condominio, in forza dell'immutato rinvio di cui all'art. 1139 c.c., e non modificato della Riforma del 2013 - prevede: «1. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. 2. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso».

In realtà, una norma che disciplinava l'uso delle cose comuni era prevista nella disciplina del r.d. 15 gennaio 1934, n. 56; infatti, l'art. 10 espressamente recitava: «I singoli condomini possono servirsi delle cose comuni purché non ledano l'interesse della comunione e non impediscano il concorrente esercizio del medesimo diritto da parte degli altri condomini. Essi possono introdurre, a proprie spese, nelle cose comuni, quelle modificazioni che, lasciandone immutata la destinazione, ne rendono più comodo l'uso e il godimento, purché non ostacolino l'uso degli altri compartecipi e ad essi non cagionino danno. 2. Il godimento del condomino che, senza invertire il titolo del suo possesso, abbia ecceduto nell'uso o abbia apportato modificazioni alla cosa comune, potrà essere, in qualunque tempo, limitato, in guisa da non ostacolare il correlativo diritto degli altri e, ove siano state eseguite sulla cosa comune opere od impianti, potrà essere ordinato che la cosa venga rimessa nel pristino stato».

Tale norma, però, non è stata riprodotta nel codice civile del 1942, perché «la relativa regolamentazione è già stata data in tema di comunione e non v'è motivo di modificarla in materia di condominio negli edifici» (così la Relazione al Re n. 186).

Il concetto di cosa comune

Va premesso che parlare di uso delle cose comuni, presupporrebbe aver risolto, per così dire a monte, il problema dell'individuazione delle parti comuni dell'edificio di cui all'art. 1117 c.c., che è una problematica di non poco spessore.

Premesso ciò, innanzitutto, va chiarito che il riferimento alle cose comuni deve essere interpretato in senso ampio, poiché, quando si parla di uso o di godimento, la materia riguarda non solo, ad esempio, le scale, i viali di accesso, i lastrici solari, i cortili interni, le strade, ecc., ma anche i “servizi condominiali”; è ovvio che di proprietà comune di un servizio si può parlare solo in senso figurato e non tecnico, in quanto lo stesso servizio consiste soprattutto in un'attività soggettiva (portierato) o una funzione soggettiva (lavanderia, riscaldamento, stendimento dei panni, ecc.).

L'àmbito di applicazione dell'art. 1102 c.c. è, inoltre, circoscritto alla proprietà comune, sicché ne esulano tutti i casi che attengono all'uso delle cose di proprietà esclusiva (v., da ultimo, Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2017, n. 8507), che trovano la loro disciplina in altre norme, quali l'art. 1122 c.c. che si occupa delle opere, eseguite nell'unità immobiliare di proprietà esclusiva - o «nelle parti comuni normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale», come specificato dalla l. n. 220/2012 - che rechino danno alle parti comuni dell'edificio o determinino pregiudizio alla stabilità/sicurezza/decoro dell'edificio, oppure in altre disposizioni, come quelle sulle distanze legali, o sui limiti alle immissioni moleste, o sugli atti emulativi (rispettivamente, artt. 873 ss., 844 e 833 c.c.).

Peraltro, l'uso della cosa comune, a prescindere dai limiti “interni” posti dall'art. 1102 c.c. nei rapporti tra i condomini, incontra a fortiori un limite “esterno” posto dall'àmbito stesso della proprietà condominiale, al di fuori del quale l'uso della cosa comune non ha ragione d'essere; tale limite va inteso nel senso - prima facie intuitivo - che il rispetto della proprietà esclusiva dei singoli esige che gli altri non possono invaderne la sfera, ledendo il relativo diritto di godimento, né gravare la stessa proprietà di pesi e limitazioni, ove non abbiano al riguardo un particolare diritto (si pensi alle tubazioni installate da un condomino su un muro comune che invadono una cantina di proprietà esclusiva; per altre ipotesi concrete, v. Cass. civ., sez. II, 18 marzo 1987, n. 2722; Cass. civ., sez. II, 10 luglio 1986, n. 4498; Cass. civ., sez. II, 27 luglio 1984, n. 4451).

Ma il limite della condominialità può essere inteso anche sotto un altro angolo di visuale: è, infatti, inconcepibile che l'uso della cosa comune sia a beneficio di proprietà che non facciano parte dell'edificio condominiale, e ciò anche se sia un condomino a servirsi della cosa comune a vantaggio - non della sua proprietà individuale sita nell'edificio stesso, bensì - di altra sua proprietà, sita in immobile separato, risolvendosi tale fatto nell'impossibilità di una servitù sull'immobile condominiale che, invece, per la sua costituzione richiederebbe il consenso di tutti i condomini ex art. 1108, comma 3, c.c. (Cass. civ., sez. II, 5 marzo 2015 n. 4501; Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2013, n. 15024; Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2013, n. 944; Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3035; Cass. civ., sez. II, 19 aprile 2006, n. 9036; Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 1998, n. 1708; Cass. civ., sez. II, 26 marzo 1994, n. 2953; Cass. civ., sez. II, 7 marzo 1992, n. 2773; Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 1988, n. 5780; Cass. civ., sez. II, 13 marzo 1982, n. 1624)

Pertanto, il singolo può servirsi, ai sensi dell'art. 1102 c.c., di quelle parti comuni dell'edificio di cui all'art. 1117 c.c. in quanto condomino, e, quindi, come proprietario dell'appartamento cui tali parti comuni servono; in parole povere, ogni condomino ha la comunione di determinate cose comuni - non già come soggetto che può servirsene anche a beneficio di altre cose proprie, ma - quale proprietario di un appartamento sito in quell'edificio in condominio.

L'utilizzo del bene nella sua interezza

Il comma 1 dell'art. 1118 c.c. - il cui testo è rimasto sostanzialmente invariato anche a seguito della l. n. 220/2012 - ci dice che il diritto di proprietà di ciascun condomino sui beni comuni ha la sua estensione, e correlativo limite, determinato nella proporzione tra il valore della sua unità immobiliare e il valore dell'intero edificio (di regola, secondo la tabella millesimale esistente).

In evidenza

Il che, però, non significa che la sua facoltà di utilizzazione sia ristretta per ciascuno entro i confini della rispettiva quota di proprietà, poiché il diritto, anche se espresso in quote millesimali, è pur sempre “ideale” e non reale, per cui non è concepibile che il singolo possa usare, ad esempio, il cortile, l'androne, l'ascensore, le scale, la terrazza per “tot” millesimi.

Dunque, a prescindere dall'estensione del suo diritto, a norma dell'art. 1102 c.c., il singolo partecipante alla comunione (sia semplice che edilizia) può usare - con i limiti di cui appresso - la cosa comune a suo piacimento, secondo le proprie convenienze, e nella sua interezza, indipendentemente dal fatto che sia titolare di una quota maggiore o minore della comproprietà ragguagliata al valore dell'appartamento di sua pertinenza (il criterio della proporzionalità riprende vigore, invece, quando si tratti di determinare, dal lato attivo, il “peso” in sede assembleare mediante il diritto di voto e, dal lato passivo, la “misura” della partecipazione contributiva relativamente all'onere delle spese).

Applicando questi principi in un'ipotesi di sicura rilevanza pratica, si è concluso nel senso che la regolamentazione dell'uso della cosa comune, in assenza dell'unanimità, deve seguire il principio della parità di godimento tra tutti i condomini stabilito dall'art. 1102 c.c., il quale impedisce che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri (Cass. civ., sez. II, 7 dicembre 2006, n. 26226: nella specie, si era confermata la pronuncia di merito che aveva annullato, per violazione dell'art. 1102 c.c., una delibera assembleare che aveva attribuito il diritto di scegliere i posti auto nel garage condominiale - tra loro non equivalenti per comodità di accesso - a partire dal condomino titolare del più alto numero di millesimi).

L'eventuale presenza del regolamento

I limiti generali al godimento del bene comune sanciti dall'art. 1102 c.c. operano ove il regolamento di condominio non si sia occupato specificatamente di tale aspetto della vita condominiale: infatti, l'art. 1138, comma 1, c.c. prevede che, quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, debba essere formato un regolamento, con i quorum di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., il quale contenga - come contenuto, diciamo così, minimo - «le norme circa l'uso delle cose comuni (oltre quelle sulla ripartizione delle spese, sulla tutela del decoro dell'edificio e sull'amministrazione, che, in buona sostanza, ruotano pur sempre attorno al concetto di cose comuni e al loro utilizzo).

Il predetto regolamento potrebbe fissare limiti più rigorosi di quelli previsti dall'art. 1102 c.c., di solito, per tutelare gli interessi generali del condominio, stante, peraltro, la derogabilità di quest'ultimo disposto (Cass. civ., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 27233; Cass. civ., sez. II, 24 aprile 1975, n. 1600), o potrebbe stabilire particolari modalità di godimento del bene comune, o addirittura potrebbe giungere ad attribuire ad uno o più condomini l'uso esclusivo di determinate parti comuni (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 1978, n. 3169); altro discorso è che il regolamento rinvii, sul punto, alla disciplina codicistica, o richiamando espressamente la norma in esame o adottando formule di stile che parafrasano la stessa, e allora l'analisi dell'art. 1102 c.c., da carattere “residuale”, riprende tutta la sua valenza ed attualità.

Orbene, la giurisprudenza ritiene che solo il regolamento avente valore contrattuale - ossia quello predisposto dal costruttore o dall'unico originario proprietario dell'edificio e richiamato o accettato negli atti di vendita dagli acquirenti delle singole porzioni, oppure quello approvato dalla totalità dei partecipanti al condominio - e non quello approvato a maggioranza, possa contenere limitazioni ai poteri di godimento spettanti a ciascun condomino iure proprietatis sulle parti comuni, traendo validità ed efficacia dal consenso unanime degli interessati e vertendosi in materia di diritti disponibili (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 2000, n. 1830; Cass. civ., sez. II, 9 novembre 1998, n. 11268; Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 1997, n. 854; Cass. civ., sez. II, 3 settembre 1993, n. 9311; Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1990, n. 4905).

Così, ad esempio, il predetto regolamento potrebbe: vietare l'apposizione di insegne e targhe sui muri perimetrali dell'edificio, imporre la preventiva autorizzazione degli organi condominiali (amministratore o assemblea) per l'esecuzione di date opere sul bene comune, inibire il lavaggio delle auto nel giardino, o prevedere l'uso esclusivo di una parte comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva.

Si è concordi, comunque, nel ritenere che le pattuizioni che comportino restrizioni delle facoltà dei singoli relativamente alle parti comuni debbano essere enunciate espressamente e chiaramente, e non in forma generica o ambigua (per tutte, v. Cass. civ., sez. II, 5 ottobre 1992, n. 10895).

Tuttavia, la stessa giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2002, n. 5626; Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 1999, n. 943; Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 1985, n. 208) tende a ritenere modificabili a mera maggioranza le norme “regolamentari”, ossia quelle che disciplinano le modalità di uso delle cose nonché l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi comuni, anche se contenute in un regolamento contrattuale, e ciò al fine di adattare le stesse alle mutevoli esigenze della collettività condominiale (ad esempio, l'utilizzo di un cortile prima a stenditoio e poi per il parcheggio delle auto).

In realtà, anche la clausola di un regolamento condominiale che disciplina le modalità di uso della cosa comune detta una disposizione di natura tipicamente negoziale, posto che essa, limitando il diritto di godimento delle parti comuni spettante ai condomini in quanto tali, investe direttamente i poteri e le facoltà che ai condomini competono, iure domini, sulle parti medesime; invero, la norma regolamentare può frapporre un vero ostacolo all'esercizio di facoltà spettanti ai condomini, che si risolve in una compressione dello stesso diritto di proprietà, che non può essere leso dal collegio che delibera a mera maggioranza, occorrendo, invece, l'unanimità dei consensi.

Anche l'assemblea di condominio a maggioranza ha il potere di disciplinare e, eventualmente, nel concorso di giustificate ragioni ed interessi comuni, ridurre l'uso della cosa comune da parte dei singoli partecipanti, ma non anche quello di sopprimere totalmente l'uso medesimo, pure se per determinati periodi di tempo, né di limitare tale godimento ad una soltanto delle forme di uso di cui la cosa comune sia suscettibile secondo la sua destinazione (Cass. civ., sez. II, 9 maggio 1977, n. 1791), a meno che deliberi all'unanimità dei partecipanti al condominio (Cass. civ., sez. II, 3 novembre 1973, n. 9311).

In altri termini, rientra nella competenza dell'assemblea tutto ciò che non altera l'attuale ed oggettiva destinazione del bene, quale può desumersi dal regolamento condominiale, dai singoli atti di acquisto, dalle caratteristiche intrinseche del bene e dall'uso cui questo è stato assoggettato in precedenza, e sempre che ciò risponda a scopi di utilità generale (Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2007, n. 6915).

Il limite soggettivo

L'art. 1102 c.c. contempla due ordini di limiti nell'uso della cosa comune, e precisamente la non alterazione della destinazione della stessa e il non impedimento del pari uso degli altri condomini.

Per quanto concerne, in particolare, il c.d. limite soggettivo - oggetto precipuo di questa bussola - si osserva che il Legislatore vuole che il godimento della cosa comune da parte del condomino si esplichi in maniera tale che non sia impedito agli altri un godimento del medesimo contenuto sulla cosa stessa.

Il termine “impedire”, che compare nell'art. 1102 c.c., può essere inteso in due modi: in senso lato, come porre impedimento, ossia limitare, diminuire e, sebbene impropriamente, pregiudicare, e in senso stretto e rigoroso, come proibire, rendere impossibile con degli ostacoli, che è qualcosa di più del semplice limitare o diminuire (se è vero che impedire implica necessariamente limitare o pregiudicare, non è vero l'inverso, perché si può limitare e pregiudicare senza tuttavia impedire).

Dall'accoglimento dell'una o dell'altra interpretazione derivano rilevanti conseguenze pratiche: la prima porta ad una notevole restrizione dei poteri del condomino, vietando l'uso che semplicemente limita il godimento altrui, mentre la seconda permette di aumentare i suoi poteri, vietando solo l'uso che rende impossibile il godimento altrui.

Non sempre il godimento degli altri può sovrapporsi esattamente a quello attuato da taluno, sicché si registra una divergenza di opinioni sul concetto di “pari uso”.

Secondo la tesi prevalente - che, aderendo alla seconda suesposta interpretazione, appare preferibile - lo stesso non deve essere inteso nel senso di uso “identico” e contemporaneo a quello realizzato dal condomino “modificatore”, in quanto, altrimenti, le modificazioni lecite non sarebbero concepibili né praticamente attuabili, potendo l'eventuale pretesa dell'altro condomino importare addirittura l'abolizione delle opere eseguite; il Legislatore codicistico, infatti, ha voluto conferire a ciascun partecipante al condominio la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, per cui, qualora sia ragionevolmente prevedibile che gli altri condomini non debbano fare un “pari uso” della cosa comune, la modifica apportata dal singolo partecipante deve considerarsi legittima (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2014, n. 24295; Cass. civ., sez. II, 1 agosto 2001, n. 10453; Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 1998, n. 1499;Cass. civ., sez. II, 23 marzo 1995, n. 3368).

Ragionando diversamente, l'identità nello spazio, o addirittura nel tempo, potrebbe importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare o addirittura un uso a proprio esclusivo vantaggio, soprattutto nel caso di modificazioni apportate alla cosa; il pari uso va individuato facendo riferimento, con una valutazione di tipo astratto, al rapporto di equilibrio che deve essere potenzialmente mantenuto fra tutte le possibili concorrenti utilizzazioni da parte dei partecipanti al condominio (Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466; Cass. civ., sez. II, 5 dicembre 1997, n. 12344; Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1981, n. 4601).

Non appare condivisibile, invece, la tesi minoritaria, secondo la quale l'art. 1102 c.c. vieta al condomino la realizzazione delle opere che non consentano agli altri partecipanti quel qualsiasi “altro uso” che avrebbero potuto fare della cosa stessa e non gli permette neppure di adoperare la stessa in modo da impedire agli altri condomini di farne il suo stesso uso (Cass. civ., sez. II, 24 giugno 1980, n. 3962).

In quest'ordine di concetti, non si può opinare nemmeno che al singolo sia consentito servirsi del bene comune anche se ciò può rendere impossibile agli altri di fare altrettanto, purché sia certo che essi non abbiano motivo o interesse di fare il medesimo uso: infatti, è difficile raggiungere tale “certezza”, poiché si dovrebbe presupporre una richiesta di preventivo consenso agli altri partecipanti o una loro mancata manifestazione di assenso, il che porterebbe a possibili contenziosi, attesa la probabile presenza del condomino (litigioso o con intenti meramente emulativi) che si opporrà a qualsiasi altrui iniziativa.

Sembra, quindi, corretta un'interpretazione che, sebbene il dato testuale parli di “parimenti”, alludendo ad un uso identico, tenda ad evitare di menomare le concrete possibilità per i singoli condomini di beneficiare del bene comune, soltanto perché l'uso preteso da uno sarebbe paralizzato da quello vantato dall'altro, e ciò anche in un'ottica solidaristica dei rapporti condominiali, che richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti al condominio (così, nell'ipotesi del parcheggio di auto in uno spazio comune insufficiente ad accogliere tutte le macchine dei condomini, oggetto di indagine non è tanto l'uso concreto fatto in un determinato momento storico, ma quello potenziale in relazione alla possibilità di utilizzo analogo in momenti temporali diversi o in spazi diversi destinati al medesimo scopo).

L'armonica coesistenza dei diritti

Resta fermo che l'utilizzo, da parte del singolo, della cosa comune può avvenire tanto secondo il suo normale uso quanto in modo particolare e diverso, ritraendo dalla stessa una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali ridondanti a vantaggio di tutti gli altri partecipanti, senza sconfinare in abuso, sempre che ciò non comporti alterazione dell'equilibrio tra le concorrenti utilizzazioni degli altri, e non determini, quindi, pregiudizievoli invadenze nell'àmbito dei coesistenti diritti degli altri comproprietari (Cass. civ., sez. II, 11 gennaio 1993, n. 172; Cass. civ., sez. II, 18 marzo 1987, n. 2722; Cass. civ., sez. II, 6 aprile 1982, n. 2117).

D'altronde, il fondamento “politico” della norma nella parte de qua è la tutela dell'equilibrio della comunione, e da tale premessa si evince la definizione della misura del correlativo limite; questo è il significato di un passaggio di una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 26 settembre 1998, n. 9649),secondo la quale l'uso delle cose comuni da parte di un condomino può dirsi consentito ed aderente alla norma quando è salvaguardato il rapporto di equilibrio giuridico ed economico della comunione, e fino a quando perdura l'armonica coesistenza dei diritti che, in relazione a determinate entità immobiliari, la legge presume di pari entità e contenuto (cui adde Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2007, n. 5753).

Comunque, l'indagine sull'illiceità o meno dell'uso della cosa comune da parte del singolo va condotta alla stregua degli oggettivi criteri legali concernenti la lesione del diritto di godimento spettante agli altri partecipanti, rimanendo irrilevante, a tal fine, ogni valutazione sulla concreta idoneità di quell'uso ad arrecare utilità al suo autore, salva la configurabilità di atti emulativi ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 833 c.c. (Cass. civ., sez. II, 30 maggio 1978, n. 2749).

Nel caso di conflitto o concorso al miglior godimento della cosa comune, va operato un equo contemperamento dei contrapposti interessi individuali (Cass. civ., sez. II, 30 maggio 2003, n. 8808), senza che possa applicarsi il principio della priorità dell'uso, dovendosi preservare il rapporto di equilibrio giuridico ed economico della comunione sopra evidenziato, restando altrimenti fatalmente sconvolta la stessa armonica coesistenza dei diritti di tutti i comunisti; la “priorità dell'uso”, che compare nell'art. 844 c.c., nella disciplina delle immissioni nel fondo altrui, non si applica nell'art. 1102 c.c., in cui tutti i condomini godono della cosa comune in una situazione di par condicio.

In altri termini, qualora l'utilizzazione della cosa comune che vorrebbe fare uno dei condomini venga ad interferire nella modificazione già praticata, nel medesimo bene, da altro condomino, nel legittimo esercizio della propria facoltà di godimento, va raggiunta la migliore utilizzazione del bene da parte di tutti i partecipanti, sempre che trattasi di interessi materialmente conciliabili, in modo da realizzare la precipua finalità della cosa comune e la sua migliore utilizzazione a profitto di tutti i condomini.

La “prevenzione” dell'uso - prior in tempore potior in iure, ossia chi arriva prima, acquista un maggiore diritto di uso - potrebbe spiegare effetti soltanto nel senso che, attesa la possibilità di ogni utilizzazione futura della cosa comune (ovviamente nei limiti di cui all'art. 1102 c.c.), l'opera, lecita nel momento in cui viene eseguita da un condomino, non potrà essere frustrata da un'utilizzazione successiva pretesa dagli altri, ossia non potrà divenire illecita in vista di un uso, da altri preteso e oggettivamente possibile, che, se fosse stato esercitato prima, avrebbe impedito la realizzazione dell'opera che gli è di ostacolo; così, ad esempio, l'apertura di una porta nella tromba delle scale non può essere rimossa, in virtù di una pretesa illiceità a cagione dell'utilizzazione, successivamente deliberata dagli altri condomini, di realizzare un ascensore nella stessa tromba (fattispecie concreta analizzata da Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 1966, n. 570).

Nel contempo, però, il giudice del merito, per accertare se l'uso più intenso della cosa comune da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio tra i vari partecipanti e debba perciò ritenersi non consentito ex art. 1102 c.c., non deve considerare solo l'uso fatto in concreto di tale cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; in quest'ottica, l'apposizione di un maxi cartellone pubblicitario sul muro comune - fenomeno che va diffondendosi nelle grandi città - va ritenuto illegittimo, oltre che nei casi in cui alteri la naturale destinazione del muro a sostegno dell'edificio, qualora possa impedire agli altri condomini ogni eventuale uso che, in avvenire, essi avrebbero voluto fare, secondo una ragionevole previsione, di detto muro, per collocarvi targhe professionali o insegne commerciali al servizio delle unità immobiliari esclusive.

In senso coerente con queste ultime affermazioni, si è affermato che è legittimo, ai sensi dell'art. 1102 c.c., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali e potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine, avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. civ., sez. II, 23 giugno 2014, n. 14245; Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2006, n. 972).

Casistica

CASISTICA

Abbassamento del piano di calpestio

Non è automaticamente configurabile un uso illegittimo della parte comune costituita dall'area di terreno su cui insiste il fabbricato e posano le fondamenta dell'immobile, in ipotesi di abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o l'avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a dire della sua funzione di sostegno alla stabilità dell'edificio, o l'idoneità dell'intervento a pregiudicare l'interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune (Cass. civ., sez. II, 22 settembre 2014, n. 19915).

Aumento delle dimensioni dell'auto

Il criterio dell'uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall'art. 1102 c.c., richiede che ciascun partecipante abbia il diritto di utilizzare la cosa comune come può e non in qualunque modo voglia, atteso il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari facoltà di godimento degli altri comunisti; ne consegue che, ove il godimento pregresso non sia possibile per uno dei partecipanti a causa del mutamento elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere nei confronti degli altri una diversa utilizzazione della cosa comune, avendo il singolo condomino l'onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo (nella specie, la richiesta di modifica dell'utilizzazione di uno spazio comune destinato a parcheggio condominiale era stata dettata esclusivamente dal sopravvenuto aumento di dimensioni dell'autovettura del ricorrente) (Cass. civ., sez. II, 11 luglio 2011, n. 15203).

Fotocellule per l'apertura automatica del cancello

Ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, e senza che tale uso più intenso sconfini nell'esercizio di una vera e propria servitù; pertanto, l'installazione, nel muro di confine comune, di un meccanismo fotocellulare per l'apertura automatica del cancello inserito nel muro, non sporgente all'interno del fondo prospiciente il lato opposto del muro stesso, non viola l'art. 1102 c.c., trattandosi di utilizzo più intenso della cosa comune, secondo la sua naturale destinazione (delimitazione perimetrale e protezione/isolamento dell'esterno delle proprietà), che ne consente il pari uso (Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 2009, n. 22341).

Occupazione del tetto spiovente con antenna

L'uso paritetico della cosa comune va tutelato, in funzione della ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto ne faranno gli altri condomini e non di quella identica e contemporanea che, in via meramente ipotetica ed astratta, ne potrebbero fare, dovendosi anche i rapporti tra condomini informare al generale principio di solidarietà (fattispecie nella quale la corte ha ritenuto non integrare violazione del principio dell'uso paritetico sancito dall'art. 1102 c.c. l'utilizzazione da parte di un condomino di una superficie pari ad oltre il cinquanta per cento del tetto spiovente, occupata da un'antenna) (Cass. civ., sez. II, 27 febbraio 2007, n. 4617).

Guida all'approfondimento

Rinaldi, Delibere assembleari: l'uso delle parti comuni e limiti ex art. 1102 c.c., in Riv. nel diritto, 2014, 260;

Scalettaris, L'assemblea condominiale e la disciplina dell'uso della cosa comune, in Giur. it., 2014, 1869;

Marmocchi, L'uso delle parti comuni: dal pari-uso all'uso esclusivo, in Riv. notar., 2008, 91;

Fichera, Uso della cosa comune del singolo condomino e autorizzazione dell'assemblea, in Merito, 2004, fasc. 4, 19;

Boggiano, Brevi note sull'uso del bene comune, in Giur. it., 2002, 273;

De Tilla, Sul pari uso del condomino, in Rass. loc. e cond., 2001, 135;

De Tilla, Modifica del regolamento di condominio e pari uso delle cose comuni, in Giust. civ., 1999, I, 3370;

Balzani, Interpretazione dell'art. 1102 c.c.: uso consentito e non consentito della cosa comune da parte del singolo condomino, in Arch. loc. e cond., 1985, 407.

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