Concorso tra risarcimento e indennizzo per lo stesso evento a carico di soggetti diversi

03 Agosto 2018

Da un fatto illecito possono derivare a favore del danneggiato diverse conseguenze: in primo luogo l'obbligo a carico del danneggiante di integrale risarcimento dei danni, a norma degli art. 2043 e 1218, c.c.; ma anche, spesso, ma non sempre, prestazioni a carattere risarcitorio o indennitario a carico dello stesso danneggiante o di soggetti diversi, previste da leggi speciali o da contratti.
La questione: se il danneggiato possa cumulare risarcimento danni ed indennizzo

Da un fatto illecito possono derivare a favore del danneggiato diverse conseguenze: in primo luogo l'obbligo a carico del danneggiante di integrale risarcimento dei danni, a norma degli art. 2043 e 1218, c.c.; ma anche, spesso, ma non sempre, prestazioni a carattere risarcitorio o indennitario a carico dello stesso danneggiante o di soggetti diversi, previste da leggi speciali o da contratti.

In questi casi si è posto il problema se le diverse poste risarcitorie e indennitarie possano essere cumulate dal danneggiato oppure debbano essere detratte l'una dall'altra in modo da non provocare l'arricchimento del danneggiato come conseguenza del fatto illecito.

Impropriamente questa tematica è ricondotta all'espressione latina compensatio lucri cum damno, perché non di compensazione in senso tecnico tra debiti reciproci si tratta (art. 1243, c.c.), ma di esatta determinazione del danno risarcibile; ed in questo senso le Sezioni Unite ed il Consiglio di Stato parlano di compensatio (Cons. Stato, ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 1, secondo cui tale regola non ha una sua autonomia ed è riconducibile alle tecniche di determinazione del danno).

La soluzione ove vi sia un unico responsabile

Un primo problema, quando risarcimento ed indennizzo siano a carico dello stesso soggetto, è stato già risolto con la sentenza delle Sezioni Unite 11 gennaio 2008 n. 584, cui si è adeguata la giurisprudenza successiva (Cass., sez. 3a, 14 marzo 2013, n. 6573; Cass. 24 settembre 2014, n. 20111).

In quel caso si trattava di concorso tra risarcimento del danno per fatto illecito ai sensi dell'art. 2043, c.c. a carico dello Stato amministrazione (Ministero della salute) per l'inadempimento all'obbligo di garantire le condizioni di sicurezza nelle trasfusioni, ed indennizzo dovuto dal medesimo Stato provvidenza ai sensi della l. 25 febbraio 1992, n. 210, che ha introdotto un indennizzo, sotto forma di assegno permanente non reversibile, per diverse categorie di persone (indicate nell'art. 1, l. 25 febbraio 1992, n. 210, e che si possono suddividere in due grandi categorie:

a) i privati che abbiano riportato lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana;

  • che risultino contagiati da infezioni da hiv a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati;
  • che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali;
  • infine le persone non vaccinate che abbiano riportato i medesimi danni, a seguito ed in conseguenza di contatto con persona vaccinata;

b) i lavoratori:

  • gli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da hiv;
  • le persone che, per motivi di lavoro o per incarico del loro ufficio o per potere accedere ad uno stato estero, si siano sottoposte a vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie;
  • i soggetti a rischio operanti nelle strutture sanitarie ospedaliere che si siano sottoposti a vaccinazioni anche non obbligatorie).

Le Sezioni Unite hanno affermato il principio che l'indennizzo corrisposto al danneggiato ai sensi della legge 210 deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, perché in caso contrario la vittima verrebbe a godere di un ingiustificato arricchimento derivante da due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo ed a carico del medesimo soggetto, il Ministero della salute.

Ad identica soluzione è pervenuta la giustizia amministrativa (Cons. Stato n. 1 del 2018, cit.), in una fattispecie di dipendente pubblico avente titolo al risarcimento danni e all' equo indennizzo per il danno alla salute da polveri di amianto esistente nell'ambiente di lavoro, attribuzioni patrimoniali entrambe a carico dello Stato.

L'adunanza plenaria, con motivazione molto accurata e con continui richiami alla giurisprudenza di legittimità (il che rende quanto mai appropriate le autorevoli proposte, sfociate nel memorandum dei vertici delle tre Alte giurisdizioni, di forme di cooperazione tra le magistrature, fino a collegi integrati, in funzione nomofilattica, www.italiadecide.it, nonché in Foro it., 2017, parte V.), ha enunciato il seguente principio di diritto: “la presenza di un'unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.

Si deve sottolineare un punto nodale per capire l'evoluzione della giurisprudenza in tema di compensatio: già in questa sede le alte Corti negano valore preclusivo della compensatio in caso di diversità di titoli, perché quello che rileva è la medesima finalità delle diverse attribuzioni, compensativa della lesione del medesimo bene giuridico, la integrità psicofisica della persona.

Il caso di più soggetti obbligati. La soluzione per classi di casi. I principi comuni

Rimaneva contrasto nel caso di prestazioni a carico di soggetti diversi.

Con tre sentenze pubblicate il 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565 e 12566, ad opera dello stesso Collegio e dello stesso Estensore, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sul concorso tra risarcimento del danno ed indennizzo (se vi sia cumulo o sottrazione) derivanti dallo stesso evento a carico di soggetti diversi, con una piattaforma motivazionale comune e con esiti decisionali diversi a seconda delle diverse fattispecie (o classi di casi).

La piattaforma comune è costituita dalle seguenti proposizioni:

  1. l'istituto della compensatio, inteso come regola operativa per la stima e la liquidazione del danno, è pacifica nella attuale giurisprudenza di legittimità, e trova fondamento nell'art. 1223, c.c., in forza del quale il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell'interesse leso o condurre a sua volta ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato; è quello che viene chiamato principio di indifferenza (sent. n. 12565 punto 5.1.).
  2. lo stesso principio deve valere anche per il danneggiante, il quale non deve subire un vantaggio dall'intervento indennitario del terzo assicuratore, privato o pubblico che sia.
  3. ove l'ordinamento non preveda sistemi di riequilibrio (di cui appresso), e un arricchimento in favore di qualcuno ci debba comunque essere, è preferibile favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a colui che colpevolmente lo ha causato (sent. 12564, punto 3.8).
  4. per individuare i vantaggi e svantaggi effetto dell'illecito, occorre adottare il medesimo criterio causale adottato per accertare se il danno sia conseguenza dell'illecito.

La regola della compensatio non è però totalizzante; essa non comprende i vantaggi solo indiretti o mediati; va declinata per classi di casi, e va applicata ove ricorra uno dei due seguenti criteri:

  1. se l'attribuzione patrimoniale è diretta specificamente alla rimozione dell'effetto dannoso dell'illecito;
  2. se l'ordinamento appresta meccanismi di trasferimento dell'attribuzione in modo da assicurare il principio di indifferenza; in particolare se appresta un sistema circolare per cui il terzo assicuratore indennizza il danneggiato ma si surroga contestualmente nei diritti di costui verso il danneggiante, venendo così rimborsato di quanto erogato e raggiungendo l'indifferenza anche da questo lato; a sua volta il danneggiante non è avvantaggiato dalla minor somma che deve pagare al danneggiato a seguito dell'intervento del terzo, perché deve rimborsare al terzo interventore quanto da questi erogato.

Sulla base di tali principi comuni, le tre sentenze affrontano tre casi diversi, giungendo ad esiti parzialmente difformi, in ragione dei criteri sopra esposti.

Risarcimento danni e indennizzo assicurativo

La sent. n. 12565 affronta la questione, più generale, se, nella liquidazione del danno da fatto illecito (abbattimento dell'aereo Itavia nel disastro di Ustica), dal computo del pregiudizio sofferto dalla compagnia aerea titolare del velivolo vada defalcato quanto essa abbia ottenuto a titolo di indennizzo assicurativo per la perdita dell'aeroplano.

Essa ha affermato il seguente principio: “Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto”.

Motivo della decisione: “Benché il rapporto assicurativo nascente dal contratto ed il rapporto di danneggiamento derivante dal fatto illecito si collochino su piani diversi, tuttavia rispetto ad essi la surrogazione ex art. 1916 funge da meccanismo di raccordo, in quanto instaura ex novo una relazione diretta tra l'assicuratore che ha pagato l'indennità ed il responsabile del danno, sebbene il primo sia estraneo alla responsabilità civile derivante dall'illecito extracontrattuale, ed il secondo sia estraneo al contratto di assicurazione”.

Ci permettiamo notare che, con tale motivazione, la valutazione circa la direzione dell'indennizzo e del risarcimento in unitario senso compensativo del medesimo bene giuridico è effettuata direttamente dalla norma di legge, l'art. 1916 c.c., e si estende a tutti i casi in cui è prevista la surroga (ad es. art. 11, t.u. 1124 del 1965, di cui al par. successivo). E tale disposizione di legge assorbe e vincola l' interprete nella valutazione di cui alla lett. a) circa la medesima ragione giustificatrice dell' attribuzione patrimoniale, divenendo così il criterio principe.

Risarcimento danni e prestazioni Inail

La sentenza 12566 affronta la questione se dal risarcimento del danno dovuto dal terzo responsabile dell'infortunio sul lavoro vada detratta la rendita Inail, enunciando il seguente principio, analogo al caso precedente: “L'importo della rendita per l'inabilità permanente corrisposta dall'INAIL per l'infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall'ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito”.

Agli argomenti esaminati supra ed alla menzione dell'art. 1916, la Corte aggiunge l'azione di rivalsa esistente in questo campo specifico.

Fin dagli anni 70 del secolo scorso, la l. 24 dicembre 1969, n. 990, nell'introdurre nel nostro Paese l' assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e natanti, aveva altresì stabilito, all'art. 28, che l'ente gestore dell'assicurazione sociale ha diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi, sempreché non sia già stato pagato il risarcimento al danneggiato. Per evitare tale evenienza, il comma 2 faceva obbligo alla impresa di assicurazione, di richiedere, prima di provvedere alla liquidazione del danno, al danneggiato una dichiarazione attestante che lo stesso non ha diritto ad alcuna prestazione da parte di istituti che gestiscono assicurazioni sociali obbligatorie. Ove il danneggiato dichiari di avere diritto a tali prestazioni, l'impresa di assicurazione è tenuta a darne comunicazione al competente ente di assicurazione sociale e potrà procedere alla liquidazione del danno solo previo accantonamento di una somma idonea a coprire il credito dell'ente per le prestazioni erogate o da erogare.

L'art. 142, codice delle assicurazioni private, attualmente vigente (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) ha riprodotto testualmente tali disposizioni.

L' azione dell' Istituto assicuratore ex art. 142 differisce profondamente dall'azione di surroga: mentre con questa l' assicuratore sociale subentra nei diritti dell'assicurato verso l'impresa assicuratrice, l'azione ex art. 142 è un'azione diretta, jure proprio, dell'Istituto assicuratore verso l'impresa assicuratrice.

La conseguenza pratica più importante di tale distinzione è che l'Istituto assicuratore pubblico può, con l'azione ex artt. 28 e 142, ottenere il rimborso delle spese sostenute indipendentemente dal comportamento processuale del danneggiato; anche se l'Istituto non è intervenuto nel giudizio intentato dal danneggiato, quale successore a titolo particolare, a norma dell'art. 111, comma 3; anche se non ha dato corso ad azione surrogatoriaex art. 1916 c.c.; ed anche se è stata emessa sentenza provvisoriamente esecutiva a favore dell'assistito (DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano 2016, 823; CORSALINI, La surroga dell'Inail: cumulo di azioni, obbligo di accantonamento, limiti alla rivalsa e danno differenziale, in attesa delle S.U. sulla compensatio lucri cum damno, in Resp. civ. prev. 2018, 555).

L'Inail può optare per l' azione di regresso o per l'azione di rivalsa, perché l'art. 28 (ora 142) non ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 1916 c.c., che consente all'ente di assicurazione sociale di valersi dello strumento surrogatorio nei confronti del terzo responsabile (Cass. 23 novembre 2017, n. 27869).

Entrambe le previsioni normative, art. 1916 e art. 142, presuppongono quindi una valutazione del legislatore che l'indennizzo sociale ed il risarcimento dei danni, pur appartenendo a rapporti, titoli e soggetti diversi, confluiscono verso un unitario effetto compensativo della lesione di uno stesso bene giuridico.

Altri casi di divieto di cumulo

Altri casi di divieto di cumulo risultano da specifiche disposizioni di legge o dalla evoluzione giurisprudenziale.

Per la prima ipotesi si può ricordare, ad esempio, l'art. 2-bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 (sul procedimento amministrativo), inserito dall'art. 7, comma 1, lett. c), l. 18 giugno 2009, n. 69, a norma del quale le pubbliche amministrazioni sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. L'istante ha diritto di ottenere altresì un indennizzo per il mero ritardo. In tal caso, precisa la disposizione di legge, le somme corrisposte a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.

Per il secondo si può ricordare la vicenda relativa al cumulo tra indennità per invalidità temporanea assoluta e retribuzione.

Fino a tutti gli anni 70 era pacifico in giurisprudenza che gli emolumenti che il danneggiato riceva per la durata della sua inabilità temporanea in forza di un rapporto d'impiego, non possono essere dedotti in compensazione delle somme a lui dovute dal responsabile del danno, perché detti emolumenti trovano la loro fonte o ragione giuridica nel rapporto d'impiego, e quindi in un titolo diverso e indipendente dal fatto illecito (ex plurimis Cass. 13 novembre 1973, n. 2993).

Successivamente - a partire da Cass. 11 luglio 1978 n. 3507, in Riv. inf. mal. prof., 1978, II, 202, con nota di ACCONCIA, Inabilita temporanea: diritto alla retribuzione e risarcimento del danno nella prospettiva di attuazione dell'art 32 Cost.;da ultimo, Cass. 22 maggio 2000, n. 6616 - si è affermato l'opposto orientamento, che appare conforme alle Sezioni Unite in esame, secondo cui al lavoratore dipendente, che sia rimasto infortunato per fatto illecito del terzo, nulla compete a titolo di risarcimento del danno per invalidità temporanea, anche totale, ove abbia continuato a percepire nel periodo d'invalidità la retribuzione dal proprio datore di lavoro, con la motivazione che tale corresponsione esclude la esistenza stessa di un danno risarcibile (viene ovviamente fatta salva la prova a carico del lavoratore di avere percepito solo parte della retribuzione per perdita di straordinari o trasferte, o, infine, pregiudizi di carriera o nocumenti in ordine alla utilizzazione di congedi).

In tal caso il datore di lavoro, che ha pagato la retribuzione (e i contributi) senza ricevere la controprestazione, ha facoltà di rivalersi sul terzo danneggiante, a norma dell'art. 2043 c.c. (Cass., sez. un., 12 novembre 1988, n. 6132, in Giust. civ., 1988, I,2818, con nota di MALFATTI, In tema di tutela aquiliana del diritto di credito del datore di lavoro per invalidità temporanea del dipendente causata da terzi; nonché in Resp. civ. e prev., 1989, 3, 612, con nota di CHIAVEGATTI, Sull'entità del danno risarcibile al datore di lavoro in seguito ad invalidità temporanea del dipendente causata da terzi; Cass. 5 dicembre 1989, n. 5373; Cass. 9 febbraio 2010, n. 2844; DE MATTEIS, Infortuni, cit. 825.

È interessante notare che tale possibilità di concorso tra retribuzione ed indennizzo, che si verifica anche quando l' infortunio è avvenuto senza responsabilità di terzi, esula dalla tematica risarcitoria, e conferma che la compensatio attiene ai criteri di determinazione del danno, a prescindere dalla sua causa.

Risarcimento danni e pensione di reversibilità

La sent. 12564 ha per oggetto il concorso tra risarcimento del danno dovuto dal terzo responsabile della morte di una persona e la pensione di reversibilità spettante ai suoi congiunti.

Nella specie si trattava di un incidente stradale.

Essa ha enunciato il seguente principio: “Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di riversibilità accordata dall'Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto”.

Fin dagli anni 50 del secolo scorso l'orientamento dominante è stato nel senso ora confermato dalle Sezioni Unite (Cass. 29 luglio 1955, n. 2442; Cass. 14 marzo 1996, n. 2117; Cass.18 novembre 1997, n. 11440; Cass. 10 febbraio 1998, n. 1347; Cass. 25 marzo 2002, n. 4205; Cass. 31 maggio 2003, n. 8828; Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357, Cass. 10 marzo 2014, n. 5504).

Questo indirizzo è stato messo in discussione da Cass., sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537 (in Foro it., 2014, I, 2489, con nota di PARDOLESI, Erogazione previdenziale e danno patrimoniale da morte del familiare) la quale ha affermato l'opposto principio del non-cumulo: dall'ammontare del risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere sottratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto. Motivo: tale trattamento ha funzione indennitaria, in quanto rivolto a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile.

Disattendendo le ragioni della ordinanza di rimessione, le Sezioni Unite hanno confermato l'orientamento tradizionale, con due argomenti:

  1. la differenza della rendita Inail, rivolta a sopperire alla lesione della integrità psicofisica ed allo stato di bisogno presunto indotto dall'infortunio dalla malattia professionale, la pensione di reversibilità non ha una funzione indennitaria, perché l'incremento patrimoniale corrispondente all'acquisto del diritto alla reversibilità si ricollega ad un sacrificio economico del lavoratore, che la finanzia con il pagamento dei contributi, e quindi non costituisce un vero e proprio lucro;
  2. l'ordinamento prevede l'azione di surroga dell'Inps verso il terzo responsabile o di rivalsa verso l'assicuratore privato non in generale per tutte le assicurazioni sociali gestite dall'Ente, ma solo di volta in volta per specifiche prestazioni, tra le quali non è menzionata la pensione di reversibilità:
    • la surrogazione dell'art. 1916, comma 4, c.c. si applica, testualmente, solo all'assicurazione sociale contro gli infortuni sul lavoro;
    • la l. 12 luglio 1984, n. 222,art. 14, prevede la surroga in tema di invalidità pensionabile;
    • la l. 4 novembre 2010, n. 183, art. 41, riguarda la surroga per le pensioni, gli assegni e le indennità spettanti agli invalidi civili;
    • l'art. 42 della medesima legge, nel disciplinare le comunicazioni delle imprese di assicurazione all'Inps, si occupa delle azioni surrogatorie e di rivalsa spettanti all'ente assicuratore “nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi”.

Ad entrambi gli argomenti si possono fare delle osservazioni: l'argomento contributivo appare debole e, per altro verso, suscettibile di sviluppi sconvolgenti.

Come risulta dalla stessa disamina delle Sezioni Unite, l'azione di surroga e rivalsa spetta anche per prestazioni corrispettive del pagamento di contributi, come le pensioni e gli assegni di invalidità per gli assicurati (art. 14, l. n. 222 del 1984). D'altra parte, legare tali azioni ai casi in cui non sono dovuti contributi a carico dei soggetti beneficiari (come per gli infortuni sul lavoro e gli invalidi civili) significa porre problemi di costituzionalità delle leggi che le prevedono anche in caso di pagamento di contributi.

A noi sembra che la fattispecie della pensione di reversibilità non sia diversa, sotto l'aspetto strutturale, da quella analizzata al punto 5.

Anche la rendita ai superstiti Inail prescinde dalla causa specifica dell'infortunio (sempre che ci sia la causa di lavoro): se questa è accidentale o per colpa del lavoratore, l'Inail paga le prestazioni senza possibilità di rivalersi verso un terzo responsabile, che non esiste; ma se l'infortunio è colpa di un terzo, allora vi è un aspetto risarcitorio e si pone il problema della compensatio.

Analogamente l'Inps eroga sempre e comunque la pensione di reversibilità per il solo fatto della morte del lavoratore (al di fuori della causa di lavoro); ma se vi è un responsabile della morte, vi è anche un risarcimento danni a favore dei superstiti, e un danno per l' Istituto assicuratore che deve pagare la prestazione altrimenti non dovuta, analogamente al datore di lavoro che paga la retribuzione al lavoratore assente per colpa di un terzo, ed ha azione verso costui per il recupero di quanto erogato.

L'evoluzione verso un sistema contributivo, nel mentre rende più stringenti gli aspetti attuariali, con ciò stesso accentua il carattere assicurativo delle relative forme di previdenza sociale, e non si vede perché se il rischio si è verificato per colpa di un terzo, questi non debba rispondere verso l'assicuratore del relativo danno.

Quanto all'argomento sub b), l'art. 142, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private) dispone, nella materia della circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l'ente gestore dell'assicurazione sociale (e quindi anche l'Inps) ha diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato.

La decisione delle Sezioni Unite implica una interpretazione di tale disposizione dove per danneggiato si intende la stessa persona fisica, con esclusione dei superstiti.

Posta la mancata previsione specifica di un' azione di surroga a favore dell'Inps per la pensione di reversibilità, vanno comparate due posizioni di vantaggio: quella del danneggiante che, ove fosse applicato il divieto di cumulo, si vedrebbe ridotto ingiustificatamente l'obbligo risarcitorio a causa dell'intervento dell'assicuratore sociale, e quella del danneggiato, che cumula i due benefici. A noi sembra plausibile la scelta delle Sezioni Unite, enunciata supra sub 3, di privilegiare il danneggiato consentendo il cumulo.

Altri casi di cumulo consentito

Applicando i medesimi principi alla varia casistica, le Sezioni Unite consentono il cumulo dei benefici nei seguenti casi:

  1. quando il vantaggio si presenta come frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato (ad es. nel caso di nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto);
  2. quando il vantaggio non è legato da un nesso specifico con la causa della morte, ad es. acquisto dell'eredità;
  3. nel caso di assicurazione sulla vita l'indennità si cumula con il risarcimento perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dell'assicurato sopportando l'onere dei premi nell'indennità, la quale costituisce una vera e propria contropartita di quei premi e svolge una funzione diversa da quella risarcitoria;
  4. nei casi di provvidenze a fronte di eventi catastrofici espressione della solidarietà nazionale, senza meccanismi di surroga, o per le vittime del dovere, del terrorismo, della criminalità organizzata, aventi anche una componente premiale.
Riflessi sull'azione di regresso dell'Inail

Le Sezioni Unite non affrontano il problema dei criteri da adottare nella comparazione tra risarcimento ed indennizzo, perché questione ad esse non devoluta, problema particolarmente acuto per il calcolo del danno differenziale tra danno civilistico ed indennizzo Inail, e rilevante per l'azione di regresso dell'Istituto.

La tesi dominante nella giurisprudenza di legittimità, elaborata in seno alla Sezione terza (Cass. 26 giugno 2015, n. 13222, in Foro it., 2015, I, 3169, seguita da Cass. 30 agosto 2016, n. 17407, in Foro it. 2016, I, 3468) e recepita dalla Sezione lavoro (Cass. 14 ottobre 2016, n. 20807, in Guida dir., 2016, 78; Cass. 21 novembre 2017, n. 27669) è che la comparazione va fatta per poste omogenee: da una parte danno patrimoniale e indennizzo Inail per le conseguenze patrimoniali, dall'altra risarcimento del danno non patrimoniale e indennizzo per danno biologico.

Tale orientamento prende le mosse dall'assetto bipolare del danno alla persona desunto dagli artt. 2043 e 2059 c.c., secondo la ricostruzione dommatica operata prima dalle sentenze gemelle 8827 e 8828 del 2003 e poi, a conferma, dalle Sezioni Unite 26972 del 2008; nonché dalla giurisprudenza costituzionale che ha isolato il danno biologico come forma di ristoro della lesione di un bene primario della persona, presidiato dall'art. 32 Cost., ad essa riservato, e come tale non aggredibile neppure con l' azione di regresso dell'Inail.

Dal bipolarismo del danno conseguirebbe quale corollario necessario la distinzione delle due poste anche nella liquidazione del danno conseguenza; viceversa le numerose voci di danno fiorite in dottrina e in giurisprudenza (danno morale, estetico, esistenziale, alla vita di relazione etc.) sono state riportate dalle Sezioni Unite del 2008 nel recinto del danno non patrimoniale, e per esse non si fa comparazione per poste.

L'indennizzo in capitale dell'Inail per le lesioni tra il 6 ed il 15% ristora solo il danno biologico, e da esso non può essere detratto il risarcimento del danno patrimoniale; l'indennizzo in rendita, continua questo orientamento, ha veste unitaria ma duplice contenuto: una posta egualitaria rapportata solo alla lesione della integrità psicofisica della persona (danno biologico) e una posta patrimoniale rapportata alla retribuzione individuale, che vanno distinte sia sul piano concettuale, sia, conseguenzialmente, su quello liquidatorio, anche a monetizzazione avvenuta.

Non sono mancate in giurisprudenza voci dissenzienti, secondo cui il diritto di regresso previsto dall'art. 11 t.u. 1123 è tendenzialmente onnicomprensivo di quanto corrisposto dall'ente, con il solo limite del quantum della responsabilità civile; ma senza una articolata confutazione della tesi dominante (Cass. 25 maggio 2017, n. 12908, s.m.).

La dottrina propone a tale criterio di comparazione dicotomico due obiezioni, una sui suoi effetti pratici, l'altra sul suo fondamento normativo alla luce delle leggi originarie e di quelle sopravvenute (CORSALINI, La surroga dell'Inail cit.; dello stesso A. Diritto di surroga dell'assicuratore sociale e art. 111 c.p.c., in Giust. civ., 2004, 2443 ss.; DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2016, 823; DI BONA, Concorso tra indennizzo e risarcimento del danno negli infortuni in itinere: criteri per una ragionevole determinazione della pretesa risarcitoria del lavoratore e della rivalsa da parte dell'INAIL, in Dir. sic. lav., 2016, 17; LA PECCERELLA, Il danno alla persona nell'infortunistica del lavoro tra indennizzo e risarcimento, in Riv. inf. mal. prof., 2008, 699 ss.; CRISCUOLO, Rivalse, regressi, surroghe e manleve in materia di r.c.a., in Danno resp., 1998, 973); ma una terza si può aggiungere, sul suo fondamento dommatico.

Sotto il primo profilo, rileva che la comparazione per poste conduce spesso in pratica ad una locupletazione del danneggiato, e ad un correlativo impoverimento dell'istituto assicuratore, a causa di molteplici fattori (e per i quali ci sia consentito rinviare a DE MATTEIS, cit., 789), tra i quali le differenti tabelle di riferimento e la diversa rilevanza del concorso di colpa.

Mentre il concorso di colpa del danneggiato nella causazione del sinistro riduce la responsabilità del terzo concorrente e, in misura corrispondente, la misura del risarcimento dovuto, il sistema di protezione sociale prescinde dalla colpa del lavoratore infortunato e paga l'indennizzo per intero. Può pertanto accadere che l'indennizzo per danno patrimoniale sia maggiore, e di molto, del danno patrimoniale civilistico; e viceversa che il danno biologico civilistico sia maggiore del danno biologico Inail. In questo caso una comparazione per poste conduce inevitabilmente a una locupletazione del lavoratore (CORSALINI, La surroga cit., 565, fa la seguente ipotesi: l'Inail indennizza una rendita capitalizzata pari a 100.000 Euro per danno biologico e 100.000 Euro per danno patrimoniale, per un totale di 200.000 Euro; se civilisticamente il danno non patrimoniale è pari a 150.000 Euro - generalmente il non patrimoniale civilistico è superiore al biologico INAIL - e il danno patrimoniale è pari a zero - perché il lavoratore non ha subito alcuna decurtazione del reddito -, stando all'indirizzo della Corte, l'INAIL può recuperare soltanto 100.000 Euro del danno biologico - perché è quanto ha erogato a tale titolo - e il lavoratore ottiene, oltre ai 200.000 Euro di prestazioni previdenziali, i 50.000, quale danno non patrimoniale differenziale. In sostanza, a fronte di un danno di 150.000 Euro, il danneggiato riscuote complessivamente 250.000 Euro, con un'evidente ingiusta locupletazione, e l'Inail, a fronte di un esborso di 200.000 Euro, ne recupera soltanto 100.000).

Sotto il secondo profilo, rileva che la comparazione globale si desume dall'art. 10 t.u. 1124, il quale dispone, ai commi 6 e 7, che nei casi in cui non opera la regola dell'esonero, e sussiste quindi la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, questi non è tenuto al risarcimento dei danni se il loro valore non supera l'indennizzo Inail; se lo supera, è obbligato solo per la parte differenziale; la parte di danni che non paga all'assicurato, perché già indennizzato dall'Inail, la paga all' Istituto assicuratore con l' azione di regresso (art. 11), e così il cerchio si chiude.

La confutazione sottintesa a questo argomento è che i commi 6 e 7 si riferiscono al danno patrimoniale, unica dimensione del danno alla persona allora oggetto dell'assicurazione infortuni, e non si applicano al danno non patrimoniale, estraneo a tale sistema di protezione, come statuito dalla Corte costituzionale.

Ma tale argomento viene meno dopo l'ingresso del danno biologico nell' assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, con l'art. 13, d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, e dopo la conferma del sistema di equilibri configurato dall'art. 10 ad opera dell'art. 142, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private).

Detto articolo, intitolato impropriamente “Diritto di surroga dell'assicuratore sociale” relativo all' assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore ed i natanti, dispone, come cennato, che “qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l'ente gestore dell' assicurazione sociale ha diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione (comma 1); a tal fine, l'impresa di assicurazione è tenuta ad accantonare somma idonea a coprire il credito dell'ente per le prestazioni erogate o da erogare (comma 2); dall'azione surrogatoria sono esclusi solo i danni alla persona non altrimenti risarciti (comma 4).

Quest'ultima disposizione, chiaramente applicativa della giurisprudenza costituzionale citata, di cui ripete le espressioni testuali, viene interpretata da una parte della dottrina nel senso che sono esclusi dalla comparazione globale solo i danni complementari, e cioè quelli non ricompresi nella assicurazione infortuni. L'unica posta che può essere sottratta a questo giudizio di comparazione è il danno complementare: ad es., l'importo per danno non patrimoniale per biologico temporaneo, non coperto dall'Inail, andrebbe detratto dal minuendo (danno civilistico), prima della sottrazione dell'indennizzo Inail (sottraendo), ed attribuito direttamente al lavoratore; su tale somma l'Inail non avrebbe azione di regresso né surrogatoria (Riverso, Fondamento e limiti dell'esonero dal datore di lavoro dalla responsabilità civile, in Riv. inf. mal. prof., 2014, I, 672; Giubboni, in Giubboni-Ludovico-Rossi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 2014, 417).

A noi sembra che l'espressione “non altrimenti” significhi “in qualsiasi altro modo”, e che pertanto un indennizzo per danno patrimoniale ridondante rispetto al risarcimento danni civilistico ben possa rifluire a compensazione del minor indennizzo per danno biologico, in una comparazione globale che da una parte copra l'intero danno, dall'altra eviti locupletazioni.

Il terzo, più radicale, argomento, è somministrato dalle Sezioni Unite del 2008 e dall' Adunanza plenaria citate al par. 2, raccordato con il primo.

Mentre il danno patrimoniale consiste in una perdita o in una spesa, facilmente monetizzabile (il venir meno del lavoro e della relativa retribuzione, le spese mediche etc.), quello non patrimoniale consiste nella lesione di un bene immateriale (la sofferenza psichica per la malattia, il mutamento dello stile di vita, l'impossibilità di praticare determinati sport, come prima, etc.).

Ma nonostante la natura non patrimoniale del danno, una sua quantificazione monetaria è necessaria, per realizzare la finalità compensativa del risarcimento, il che avviene facendo ricorso a criteri convenzionali, equitativi, tabellari, personalizzazioni. Una volta liquidato il danno non patrimoniale, il relativo risarcimento diventa patrimoniale, e si confonde con qualsiasi altra attribuzione monetaria (“non altrimenti”) compensativa dell'unitario danno alla persona, seppure scomposto in varie voci, più o meno numerose nel tempo; senza che abbia valore preclusivo la diversità dei soggetti e dei titoli (v. supra par. 2), in questo caso patrimoniale e non patrimoniale.

Opinare diversamente, conclude l'Adunanza plenaria, significa attribuire al risarcimento del danno, in caso di locupletazione, una finalità punitiva non consentita nel nostro ordinamento.

Il nostro augurio è che dopo le tre sentenze delle Sezioni Unite in esame, il cui fulcro motivazione e decisionale è costituito dai due principi: quello della indifferenza, che comporta il divieto di locupletazione, e quello della scelta legislativa del sistema di equilibrio tra i vari soggetti coinvolti attraverso le azioni di surroga e di rivalsa dell' assicuratore sociale, che si rafforzino le voci, anche in giurisprudenza, a favore della comparazione globale.

Non ci nascondiamo che la strada appare in salita, perché l' orientamento dominante proviene da un incubatoio formato da insigni studiosi; ma come dimostra la sent. 12564 in esame, che ha disatteso un suggerimento proveniente dal medesimo incubatoio, non si può escludere una diversa maturazione della questione, ove venga portata alle Sezioni Unite per un parola definitiva sul punto.

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