Il reato di esercizio abusivo di una professioneFonte: L. 11 gennaio 2018 n. 3
14 Agosto 2018
L'originaria previsione si limitava a prevedere la punibilità in sede penale di chiunque, privo della prescritta abilitazione dello Stato, fosse stato colto nell'esercizio di una professione. In tal caso, la pena prevista era quella della reclusione fino a sei mesi, oppure quella della multa da euro 103 a euro 516. Nella vigenza della vecchia previsione, il fatto di esercitare abusivamente una professione, quella di medico, di avvocato, di ingegnere, ecc. non costituiva un illecito penale particolarmente grave, dal momento che l'abusivo finiva per rischiare di fatto solo una pena pecuniaria, che non costituiva idoneo deterrente, capace di scongiurare il triste fenomeno dell'esercizio abusivo di una professione; ciò con notevole danno per i pazienti e anche per i professionisti, regolarmente abilitati. La nuova norma si compone di tre distinti commi: il primo comma modifica la punibilità, che viene elevata alla reclusione da sei mesi a tre anni, con previsione della multa da euro 10.000 a euro 50.000. Il secondo comma introduce, quale pena accessoria, la pubblicazione della sentenza di condanna e prevede la confisca «delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato». Prevede altresì che, nel caso in cui il professionista abusivo, del quale sia stata accertata la responsabilità per il delitto ex art. 348 c.p., abbia svolto «regolarmente una professione o attività», la sentenza di condanna sia trasmessa al competente «ordine, albo o registro ai fini dell'applicazione dell'interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata». Il comma 3 introduce e prevede una più severa punibilità, da uno a cinque anni di reclusione e da euro 15.000 a euro 75.000, «nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo». Il primo comma non sollecita particolari approfondimenti; trattasi solo di un inasprimento delle pene, soggetto unicamente alla disciplina dell'art. 2, comma 4, c.p. Il secondo comma, invece, quale importante elemento di novità, introduce la pubblicazione della sentenza di condanna, pena accessoria di sicura efficacia preventiva; prevede, inoltre, la confisca di quanto risulterà essere stato destinato a commettere il reato. Trattasi di confisca obbligatoria, come tale prevista espressamente dalla norma; una confisca che si sottrae alla regola generale di cui all'art. 240, comma 1, c.p. che, in casi di questo tipo, si limita a prevedere la confisca facoltativa, come tale rimessa alla discrezionalità del giudice. Una discrezionalità che, in applicazione della regola generale, quella del primo comma dell'art. 240 c.p., teneva conto anche dell'occasionalità del comportamento, della gravità e della potenziale lesività dello stesso. Ora, in mancanza di interpretazioni correttive della giurisprudenza, che potranno introdurre nuove e più ragionevoli letture della medesima norma, si potranno verificare casi di minore importanza, in punto di danno e/o di pericolo, che potranno ugualmente comportare sanzioni molto gravi sul piano patrimoniale, tipo la confisca obbligatoria di una costosissima struttura sanitaria. Qualche ulteriore riflessione merita la sanzione della trasmissione della sentenza di condanna all'ordine, albo o registro, ove il professionista abusivo risulti effettivamente iscritto. La trasmissione, si precisa nella legge, sarà finalizzata «all'applicazione dell'interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata». Obbligatoria la trasmissione; obbligatoria l'interdizione; discrezionale la durata! La lettura della norma giustifica l'insorgere di alcune perplessità. Ricorrendo a un paradosso, l'ipotesi dovrebbe essere quella di chi, avvocato regolarmente iscritti all'Ordine, faccia abusivamente anche il medico, l'ingegnere o il geometra. Egli riporta condanna per l'esercizio abusivo di tali ultime attività professionali e la sentenza di condanna viene trasmessa all'Ordine ove effettivamente risulta la sua iscrizione, all'Ordine degli avvocati nel nostro caso. Un'ipotesi di tal genere sembrerebbe assai difficile a verificarsi; ma siccome nulla si può dare per scontato e poi, visto che è la stessa legge a farne riferimento, dobbiamo prenderla in considerazione; tanto per dire che potrebbe apparire perlomeno privo di ragionevolezza che un soggetto, che sia abilitato in un certo ambito professionale, venga sanzionato dal proprio Ordine di appartenenza in conseguenza dell'esercizio abusivo di attività diverse. Forse, in ipotesi di questo tipo, sarebbe stato meglio e più efficace limitarsi a prevedere, ma questa volta solo in via disciplinare, un'ipotesi di incompatibilità generalizzata per chi, regolarmente iscritto a un Albo professionale, eserciti altra attività, che si riveli incompatibile con quella per cui egli ha conseguito regolare abilitazione. Prevedere poi altra norma che, in caso di esercizio abusivo di altre professioni, per le quali pure sia previsto l'obbligo del previo conseguimento dell'abilitazione, imponga il divieto temporaneo di iscrizione all'ordine, albo o registro, competente in relazione alle professioni abusivamente esercitate. Sembra, infatti, irragionevole che il soggetto di che trattasi venga punito dal proprio Ordine professionale per aver svolto altrove altra attività, tanto in mancanza di abilitazione. Ma abbiamo solo inteso enfatizzare un paradosso, visto che la norma in esame non prevede limiti; verità è che il Legislatore avrà inteso limitare il suo intervento alla previsione di esercizio abusivo di professioni omologhe rispetto a quella per cui il soggetto ha effettivamente conseguito abilitazione. Si pensi al geometra abilitato che fa l'ingegnere; oppure all'infermiere professionale che fa il medico; ed ancora al praticante avvocato che fa l'avvocato in un settore che ancora non gli compete. Anche qui la giurisprudenza farà da padrona! Il comma 3, infine, prevede un'ipotesi di reato del tutto nuova; nuova anche rispetto alle collaudate ipotesi di concorso di persone nel medesimo reato; situazione questa con la quale la norma in commento ha solo qualche assonanza. È prevista la pena della reclusione «da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l'attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo». La norma è di difficile lettura. Certamente, ogni sforzo ermeneutico, volto alla definizione della fattispecie come ipotesi aggravata del concorso di persone nel reato, sembra azzardato. In ipotesi, dovrebbe ricercarsi, nel professionista di cui sopra, la figura dell'istigatore, del determinatore di altri, non abilitato, all'esercizio della professione. Si pensi in proposito al professionista abilitato che, in qualità di coordinatore responsabile, si ponga a capo di una struttura presidiata, nei singoli settori di interesse, da una nutrita serie di collaboratori, privi di autonoma abilitazione professionale. Concorrono tutti nel medesimo reato? L'abilitato quale istigatore e gli istigati come meri concorrenti materiali? La costruzione non sarebbe sbagliata, ma la norma forse non la consente. Essa, infatti, prevede una punibilità autonoma e più grave per l'istigatore, laddove la norma ex art. 110 c.p., che disciplina il concorso di più persone nello stesso reato, prevede, salvo i casi disciplinati negli artt. 111 e 112 c.p. (che non ricorrono nell'ipotesi in esame) uguale punibilità per tutti i concorrenti. Si può pensare, tuttavia, che il Legislatore abbia inteso creare una nuova e autonoma aggravante, ad effetto speciale, del concorso di persone nel reato, capace di individuare aumenti di pena, diversi da quelli ordinari. Oppure, bisognerà scegliere altra soluzione di più basso profilo, quella secondo cui il terzo comma, così come descritto, appare dar luogo a una nuova ipotesi di reato, del tutto diversa da quella che descrive il concorso di persone nel medesimo reato. Le conseguenze sul piano applicativo sarebbero del tutto diverse, ove si acceda all'una o all'altra delle due soluzioni sopra prospettate. La casistica potrà indicare una serie non determinabile di ipotesi che, astrattamente, potranno identificarsi nella norma in commento. La nuova aggravante, identica nelle due ipotesi di reato sopra menzionate, prevede la pena della reclusione da tre a dieci anni, se “la morte di una persona” risulterà essere stata cagionata, per colpa, «nell'esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un'arte sanitaria»; negli stessi casi, prevede per le lesioni personali gravi, la pena della reclusione da sei mesi a due anni e, per le lesioni gravissime, quella della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni. La norma non è di semplice interpretazione anche perché, per come è scritta, sembra adattarsi a ogni attività professionale per la quale è richiesta una speciale abilitazione (ad es. quella dell'ingegnere, dell'avvocato, del commercialista, ecc.) oltre che, ovviamente, alle professioni sanitarie. Certo, l'ingegnere può causare colposamente la morte di una o più persone, quale conseguenza, in via di ipotesi, di una progettazione errata; ma l'avvocato …? il commercialista …? Vedremo la casistica e ne analizzeremo in futuro i suoi contenuti. L'impegno interpretativo, tuttavia, non può esaurirsi qui. La lettura della norma, identica nella sua parte descrittiva nelle due ipotesi, fa pensare a un'aggravante ad effetto speciale che, in sua presenza, inasprisce sensibilmente il regime punitivo previsto per le ipotesi non aggravate. Ma resta pur sempre un'aggravante! Il che sta a significare che l'interprete, ancor prima di valutare le ragioni dell'aggravamento della pena, quale conseguenza della presenza della condizione, deve aver potuto apprezzare la presenza di tutti gli elementi strutturali della fattispecie ordinaria. Il riferimento è soprattutto al riconoscimento della presenza del nesso causale e della colpa, nelle sue varie accezioni. In mancanza di tali condizioni, sarà del tutto inutile valutare la presenza o meno delle ragioni dell'aggravamento della pena.
Ma si potranno porre problemi che potrebbero indurre l'interprete a decisioni sbagliate: 1) siamo convinti che, una volta accertato che l'intervento chirurgico (ad es.) è stato effettuato nel rispetto di tutte le buone pratiche operatorie da un laureato in medicina e chirurgia, privo di abilitazione, e che il paziente sia deceduto a seguito di una patologia non manifesta e neppure prevedibile; sarà mandato assolto quell'operatore? La risposta, nel rispetto delle consuete regole d'interpretazione, non potrà che essere affermativa, proprio perché un'aggravante non può accedere a un reato che non c'è, che non è stato realizzato in tutti i suoi elementi strutturali. 2) Si potrebbe tuttavia, ma molto timidamente, rispondere anche di no; visto che, in ogni caso, quell'operatore avrà violato quanto meno la norma che gli impone di esercitare la professione di chirurgo previo il conseguimento dell'abilitazione. Ma si sarà trattato di una violazione di legge, intesa come elemento della colpa c.d. specifica, capace di realizzare l'idea che noi abbiamo della colpevolezza, che impone un nesso, una certa corrispondenza, tra violazione di legge ed evento? Forse, si! È opinione comune, infatti, che il non abilitato sia privo delle cognizioni, quelle che generalmente si appartengono a chi ha conseguito l'abilitazione. Ma ciò non è sempre vero; e comunque sarà sempre possibile offrire prova del contrario?
Abbiamo preso la licenza di ipotizzare una discussione su un tema reso di difficile interpretazione per via dalla presenza di una norma poco chiara. Forse sarebbe stato meglio proporre un'ipotesi autonoma di reato, la cui previsione avrebbe risolto in origine una serie di problemi che, ancora una volta, restano affidati alla saggezza dell'interprete. Analoghe riflessioni si rendono possibili se analizziamo la nuova norma anche sotto il profilo della causalità. Anche qui si ha netta la sensazione che la norma di che trattasi sia, per così dire, sfuggita di mano al Legislatore; ciò a meno che non si pensi che abbia effettivamente voluto dettare un principio generale secondo cui, per il solo fatto di aver esercitato una professione senza essere munito di abilitazione, ogni evento non voluto, compresa la morte di un soggetto che si sia a lui affidato, si considera causato dalla sua azione o omissione. Non è così, proprio perché la causalità ha le sue regole: l'azione e/o l'omissione devono potersi riconoscere come condizione dell'evento, altrimenti rischiamo di costruire un mostro giuridico. D'altra parte, non sarebbe ragionevole che la sola mancanza di abilitazione, in mancanza di altre condizioni, generi una causalità capace, come tale, di procurare morte o lesioni personali. Anche qui la giurisprudenza sarà chiamata a risolvere una serie infinita di problemi a fronte di iniziative giudiziarie, al momento, del tutto imprevedibili. La norma in commento sembra riferirsi a tutte le professioni per esercitare le quali è prevista una specifica abilitazione; forse essa andrà meglio specificata nel suo contenuto, data l'oggettiva difficoltà di vederla collegata all'esercizio di attività professionali diverse dalla professione del medico; e, pure in tale ambito, bisognerà ancora chiarire la nozione di “arte sanitaria”. La norma, invero, si presenta del tutto generica; essa prevede, infatti, l'applicabilità dell'aggravante sia in capo a colui che eserciti abusivamente una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, sia in capo a chi eserciti un'arte sanitaria; quest'ultima sembra includere anche l'attività di coloro che esercitano arti ausiliare alle professioni sanitarie e per le quali non è richiesto il titolo universitario. È il caso dell'ottico, dell'operatore socio sanitario, della puericultrice, etc. Staremo a vedere! «La detenzione di medicinali scaduti, guasti o imperfetti, nella farmacia è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.500 a euro 3.000, se risulta che, per la modesta quantità di farmaci, le modalità di conservazione e l'ammontare complessivo delle riserve, si può concretamente escludere la loro destinazione al commercio». La nuova norma, che sostituisce quella previgente, prevede la punibilità solo in sede amministrativa del farmacista che detenga, nella sua farmacia, medicinali scaduti, guasti o imperfetti, a condizione che si possa escludere la loro destinazione al commercio. A tal fine, la norma individua alcune condizioni, che costituiscono altrettanti parametri di riferimento, utilizzando i quali l'interprete può agevolmente escludere che tali medicinali siano destinati al commercio. Tanto nella previsione della norma. Questa – bisogna riconoscere – ha l'indiscutibile pregio di aver tentato di superare un antico problema interpretativo, che si è posto ogni qual volta, in farmacia, sono stati rinvenuti medicinali scaduti, privi di fustella o, comunque, invendibili. In tali casi, è spesso capitato che l'accusa ha contestato la violazione della norma di cui all'art. 443 c.p., limitandosi a constatare la presenza in farmacia di prodotti di tal genere e in tali condizione di conservazione. Tanto starebbe a dimostrare di per sé la messa in commercio di tali prodotti, con la conseguenza della responsabilità del farmacista in ordine al reato di cui sopra, inteso come reato di pericolo. Se offrire la prova del contrario, vale a dire del non aver inteso mettere in vendita quei prodotti, appariva diabolica per il farmacista, con l'entrata in vigore della nuova norma, le cose potrebbero notevolmente mutare. Non si ha certo la presunzione di aver risolto ogni problema interpretativo in merito alla configurabilità, nei casi sopra individuati, della violazione alla legge penale; tuttavia, d'ora in avanti, sarà più agevole sostenere che, in presenza delle condizioni indicate nella legge di riforma, non si sarà verificata la condizione di accesso alla punibilità in sede penale. Residuerà la punibilità in sede amministrativa ogni qual volta si renderà possibile escludere la destinazione al commercio di quei prodotti.
Con la nuova previsione, è stabilito che «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 del codice per l'esercizio abusivo di una professione sanitaria, i beni immobili confiscati sono trasferiti al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, per essere destinati a finalità sociali e assistenziali». Trattasi di una scelta in ordine alla destinazione dei beni confiscati a norma dell'art. 348, comma 2, c.p., del quale abbiamo sopra parlato.
Il nuovo comma 7-bis dell'art. 9 l. 376 del 2000, dettato in materia di tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping
La nuova disposizione estende la punibilità, già prevista al comma 7 dell'art. 9 della citata legge e, in origine, destinata a «chiunque commercia farmaci […] attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico […]», anche al farmacista che, «in assenza di prescrizione medica, dispensi i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all'art. 2, comma 1, per finalità diverse da quelle proprie ovvero da quelle indicate nell'autorizzazione all'immissione in commercio». Come si vede, la nuova previsione si pone in continuità con l'interesse manifestato dallo Stato, volto a fornire tutela sanitaria alle attività sportive nel condivisibile intento di osteggiare il ricorso al doping. Il farmacista, nel rispetto della normativa previgente (comma 7), restava escluso da ogni previsione di punibilità in sede penale, visto che la norma in argomento, ragionevolmente, si rivolge a chiunque, escluso proprio il farmacista, che avesse procurato e ceduto farmaci per finalità diverse da quelle consentite. La norma di cui al comma 7-bis dell'art. 9, ora, offre maggiore tutela alla collettività, dal momento che punisce anche il farmacista che abbia dispensato quei farmaci «in assenza di prescrizione medica» e «per finalità diverse da quelle proprie» del farmaco, nonché diverse «da quelle indicate nell'autorizzazione all'immissione in commercio». Resta, in punto di interpretazione, da capire se la nuova norma, perché si possa ritenere violata, imponga o meno la presenza congiunta delle tre condizioni di cui sopra, oppure se sia sufficiente, per scongiurare ogni coinvolgimento del farmacista, l'esistenza di una prescrizione medica. Assisteremo in futuro a ipotesi, le più varie, di coinvolgimento di farmacisti con i medici che, per le più varie ragioni, anche censurabili, risulteranno aver prescritto il farmaco in questione; si verificheranno casi di grosse incertezze applicative. La pena prevista è quella della reclusione da due a sei anni e della multa da lire 10 milioni a lire 150 milioni; potrà sembrare particolarmente grave se rapportata a comportamenti occasionali e di non particolare gravità. Introduzione, tra le circostanze aggravanti comuni previste dall'art. 61 c.p., della norma di cui al n. 11-sexies
Aggrava il reato «l'avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie residenziali o semiresidenziali pubbliche o private, ovvero presso strutture socio-educative». Qualunque delitto non colposo risulterà aggravato se commesso in danno di una persona in stato di ricovero. Trattasi di una particolare forma di tutela, prevista a sostegno di persone che, per infermità, potranno opporre solo una minore difesa a fronte dell'azione illecita di terzi. Si porrà il problema di individuare dove finisce il campo di applicazione dell'aggravante di cui al n. 5 c.p. e dove inizia quello che il Legislatore ha inteso affidare alla nuova aggravante di cui al n. 11 sexies. Sarebbe inopportuna la contestazione di entrambe rispetto al medesimo fatto. Del tutto corretto è la scelta di prevedere che l'aggravante de qua sia applicabile solo ai delitti dolosi, escludendo dalla sua portata i delitti colposi.
(Fonte: ilpenalista.it) |