Passo indietro della Cassazione sulla definizione dell'interesse di gruppo per l'attribuzione di responsabilità ex d.lgs. 231/2001

Ciro Santoriello
16 Agosto 2018

Come è noto, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231 del 2001, la sussistenza della responsabilità da reato dell'ente collettivo si fonda su un duplice presupposto ovvero da un lato la circostanza che l'illecito sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio ...
Massima

In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs. 231/2001 all'interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento.

Il caso

La società Tizia S.R.L. era condannata al pagamento della sanzione pecuniaria di euro 28.600,00, in relazione all'illecito amministrativo di cui all'art. 25-undecies, comma 2, lett. b), nn. 2 e 3, d.lgs. 231/2001 in relazione all'art. 5, comma 1, lett. a), del medesimo d.lgs. e all'art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, disponendo anche la confisca dell'area della superficie di 43.000,00 metri quadrati, in quanto destinata a discarica non autorizzata di rifiuti speciali anche pericolosi.

In particolare, in sede di merito si era accertato l'abbandono di molti veicoli e loro componenti nell'area utilizzata dalla Tizia S.R.L. per ricoverarvi i veicoli sottoposti a sequestro giudiziario e affidati alla sua custodia con conseguente sussistenza del reato di cui all'art. 256, comma 3, seconda parte, d.lgs. 152/2006, per essere tale area stata trasformata in una vera e propria discarica abusiva, per il protratto e ormai definitivo accumulo di rifiuti (non costituiti solamente da veicoli e parti di essi, quali le batterie, costituenti rifiuti pericolosi), che aveva portato il sito a una condizione di evidente degrado, sottolineando la mancata bonifica della maggior parte dei veicoli ivi presenti e la mancata impermeabilizzazione dell'area; era stato, inoltre, ritenuto configurabile anche il reato di scarico di reflui industriali non autorizzato, sottolineandosi l'inidoneità del sistema di raccolta esistente a captare la totalità delle acque meteoriche e di dilavamento ricadenti sul deposito, stante l'assenza di opere di impermeabilizzazione, la mancanza di pendenze, la insufficienza strutturale dei pozzetti di raccolta delle acque, la assenza di manutenzione.

Sulla scorta di tali acquisizioni probatorie veniva poi dichiarata responsabilità dell'ente Tizia S.R.L. tenendo conto della responsabilità del suo amministratore per il reato di cui all'art. 256, comma 3, seconda parte, d.lgs. 152/2006, considerando la presenza nell'area gestita da tale società e trasformata in discarica abusiva di numerosi veicoli da demolire, presi in carico da un'altra società, la Caia S.R.L., ma facente capo allo stesso nucleo familiare che deteneva le quote sociali della Tizia S.R.L., con la conseguente sussistenza di un interesse quest'ultima ad agevolare l'attività imprenditoriale della Caia S.R.L.

In sede di ricorso per cassazione, accanto ad alcuni considerazioni, che non rilevano nell'ambito della nostra riflessione ed attinenti la ricorrenza della fattispecie criminosa predetta e la sussistenza della colpa di organizzazione in capo all'ente condannato, veniva denunciata la violazione dell'art. 5 d.lgs. 231/2001 con riferimento alla presenza dei requisiti necessari per l'affermazione di responsabilità della persona giuridica rappresentata dall'imputato. In particolare, si contestava l'affermazione secondo cui la Tizia S.R.L. avrebbe avuto un interesse alla realizzazione delle condotte illecite e ne avrebbe tratto un vantaggio, in quanto nella condotta del relativo amministratore non vi era alcuna tensione finalistica volta al perseguimento di un interesse qualificabile della società, né da tale condotta era derivato alcun apprezzabile vantaggio in termini di risparmio di costi, dal momento che la Tizia S.R.L. aveva assolto a tutte le prescrizioni imposte per lo svolgimento della attività di depositeria giudiziaria e dalla disciplina in materia di sicurezza, mentre l'eventuale risparmio di costi era attribuibile eventualmente ad un'altra società, la predetta Caia S.R.L., per la provvisoria collocazione dei veicoli nell'area della depositeria, che così aveva visto aumentare la propria capacità ricettiva dei veicoli da avviare alla demolizione.

La questione

Come è noto, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231 del 2001, la sussistenza della responsabilità da reato dell'ente collettivo si fonda su un duplice presupposto ovvero da un lato la circostanza che l'illecito sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica e dall'altro che il reato sia stato posto in essere da un determinato novero di soggetti. Tale scelta si spiega in ragione del fatto che il Legislatore – anziché qualificare come sufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità della societas, la sola sussistenza di un rapporto di immedesimazione organica fra soggetto agente ed ente collettivo, attestandosi così su una interpretazione del canone di personalità della responsabilità penale assolutamente minimale per cui la responsabilità dell'ente poteva essere rinvenuta per il solo fatto che il singolo aveva agito per conto dell'organizzazione – ha ritenuto necessario fondare il coinvolgimento dell'ente nella vicenda criminale sulla base tanto dell'esistenza di un rapporto di compenetrazione organica fra singolo e persona giuridica che in considerazione delle conseguenze che l'ente può ottenere dalla altrui condotta delittuosa posto che solo valutando tali esiti si può comprendere se l'azione del singolo vada riferita alla posizione apicale che egli riveste all'interno della società o se si sia invece in presenza di una condotta tenuta in assoluta autonomia ed anche in spregio agli obblighi di gestione societaria (SELVAGGI).

La tesi assolutamente prevalente tanto in dottrina che in giurisprudenza è quella secondo cui il requisito dell'interesse va diversificato rispetto a quello del vantaggio (in giurisprudenza, nello stesso senso Cass., Sez. un., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri; Cass. pen., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265, Banca Italease S.P.A.; Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo).

Quanto al significato, diverso, di questi due termini, l'interesse ha un'indole – per così dire – soggettiva, inequivocabilmente riferita alla sfera volitiva del soggetto persona fisica che agisce, per cui la presenza o meno di tale requisito è suscettibile di valutazione ex ante, potendosene sostenere la sussistenza nella misura in cui la persona fisica non abbia agito in contrasto con gli interessi della società. Di contro, la caratterizzazione del vantaggio è prettamente oggettiva e opera ex post, per cui la responsabilità della persona giuridica può sussistere anche laddove il soggetto abbia agito prescindendo da ogni considerazione circa le conseguenze che in capo all'ente collettivo sarebbero derivate dalla sua condotta e sempre che fra le conseguenze del reato possa annoverarsi anche il maturare di un beneficio economico a favore dell'organizzazione collettiva.

In sostanza, mentre il giudizio circa il fatto che il reato sia stato commesso per il perseguimento di un interesse societario richiede una valutazione in ordine al contenuto e all'atteggiamento della sfera volitiva del soggetto che pone in essere la condotta, l'accertamento in ordine ai vantaggi tratti dalla persona giuridica a seguito dell'accaduto presenta invece una caratterizzazione oggettiva, nel senso che quand'anche la persona fisica abbia agito nel suo esclusivo interesse, se da tale condotta delittuosa è derivato comunque un beneficio patrimoniale in capo alla società tale circostanza è sufficiente – unitamente ad altri profili richiamati dal d.lgs. 231/2001 – per poterne affermare la responsabilità. Come è stato sostenuto in giurisprudenza, si deve «distinguere un interesse "a monte" per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo).

Le considerazioni inerenti i requisiti dell'interesse e del vantaggio assumono poi una connotazione particolare quando la possibile responsabilità da reato riguardi un ente collettivo inserito o facente parte di un cosiddetto gruppo di società. In proposito, nonostante l'importanza e la rilevanza, tanto giuridica che economica, che il fenomeno del gruppo societario riveste nell'attuale diritto commerciale e nonostante nello stesso codice civile sia sta introdotta una disciplina articolata del gruppo societario e delle conseguenze connesse all'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento fra diverse persone giuridiche, il decreto legislativo 231/2001 non detta alcuna disciplina sul punto, quasi che l'organizzazione dell'attività d'impresa a mezzo di un coordinamento fra diverse società fosse una realtà di rilievo prettamente economico, rispetto alla quale l'ordinamento giuridico potrebbe assumere un atteggiamento di sostanziale indifferenza (per questa osservazione, SCAROINA). Tale opzione del legislatore impone quindi all'interprete di verificare se ed in che termini il decreto legislativo 231 del 2001 possa trovare applicazione anche nei confronti dei gruppi di società proprio perché non di rado l'organizzazione di gruppo aggredisce in maniera incisiva una serie indeterminata di beni riuscendo al contempo, proprio in virtù della propria complessità, «a scaricare su una delle società che lo compongono responsabilità e sanzioni derivanti invece da una politica unitaria e dalle decisioni imposte dalla holding».

In proposito, in alcune decisioni di merito si è proposto di ritenere lo stesso raggruppamento d'imprese quale diretto destinatario delle sanzioni previste dal citato d.lgs. 231/2001 quale potenziale soggetto attivo, ai sensi del comma 2 del citato art. 1, degli illeciti dipendenti da reato. In particolare, in diverse occasioni si è affermato che laddove una pluralità di società – che svolgono un distinto settore di attività, una distinta fase del processo produttivo – operino sotto la direzione unitaria e il coordinamento di un'altra persona giuridica che ne possiede la maggioranza delle azioni, si è in presenza di un unico soggetto giuridico, cui imputare gli effetti delle eventuali condotte delittuose tenute dalle persone fisiche (Gip Milano, 20 settembre 2004, secondo cui «la holding esercita, in modo mediato, la medesima attività d'impresa che le controllate esercitano in modo immediato e diretto; l'oggetto della holding in questo caso non è la gestione di partecipazioni azionarie come tali, ma l'esercizio indiretto di attività d'impresa»). Secondo questa ricostruzione, dunque, laddove il reato sia stato posto in essere nell'ambito di un raggruppamento di imprese e risponda alla logica imprenditoriale del gruppo stesso, occorre ricostruire la nozione di interesse in termini peculiari e particolarmente ampli, onde riconoscere rilevanza anche al cosiddetto interesse di gruppo, inteso quale interesse che prescinde dalle particolari posizioni delle diverse società che compongono il gruppo per identificarsi in un interesse unitario da riferirsi direttamente alla holding o al raggruppamento imprenditoriale complessivamente inteso: come è stato detto, «un'interpretazione lata della locuzione legislativa – di cui all'art. 5 d.lgs. 231 del 2001 – consente di ritenere che un comportamento nell'interesse della controllata sia realizzato anche in quello della controllante» (tra gli altri, DI GIOVINE. In giurisprudenza, oltre alla citata decisione del Giudice delle indagini preliminari presso Trib. Milano, 20 settembre 2004, si veda trib. Milano, Sez. riesame, 20 dicembre 2004, in Il merito, 2005, 2, 61).

Tale impostazione non ha ricevuto l'avallo della Cassazione. Con una sentenza non più recente (Cass pen., Sez. V, 17 novembre 2010, n. 24583. A commento, si vedano D'ARCANGELO; FANTETTI; EPIDENDIO), la Suprema Corte evidenziò come lascia perplessi la configurazione di un interesse di gruppo, in virtù del quale, nonostante il suo carattere indistinto e generico, si finisce per esporre la capogruppo a gravissime sanzioni in relazione a reati che di fatto hanno avvantaggiato solo altre società. Come da altri già osservato, l'interesse che rileva per fondare la responsabilità da reato di una persona giuridica deve essere immediato e diretto e non frutto di affrettate generalizzazioni, mentre individuare nel gruppo il destinatario delle disposizioni presenti nel decreto del 2001 «presuppone una lettura in controluce del fenomeno di gruppo all'interno di un meccanismo di imputazione che, verosimilmente, non lo aveva tenuto in considerazione e che, allo stato, non è in grado di adattarsi ad esso» (FOFFANI). Inoltre, non convince la possibilità di rinvenire nel gruppo di imprese un unico soggetto di diritto, superando così lo schermo della personalità giuridica delle diverse società: ammettere la responsabilità della holding per reati commessi da soggetti che operano all'interno di una delle società controllate «porterebbe a sconfessare l'intero impianto (oggettivo e soggettivo) del decreto, [il quale] condiziona la punibilità dell'ente all'adozione ed attuazione di un modello che da un lato, disciplini le attività a rischio reato e, dall'altro, abbia efficacia in qualche modo prescrittiva – essendo espressione del potere di autoregolamentazione dell'ente – nei confronti sia dei vertici che dei sottoposti: in tale contesto è evidente che la holding, non avendo alcun potere giuridico di imporre alla controllata l'adozione di un modello efficace, si troverebbe, nel caso di commissione da parte di esponenti di questa di un reato, ad essere responsabile del conseguente illecito in virtù di un generico potere di vigilanza e pure nell'impossibilità (giuridica) di apprestare le cautele richieste dall'ordinamento» (BASTIA).

Una strada alternativa per ritenere operante anche nei confronti del gruppo di imprese il sistema sanzionatorio del d.lgs. 231/2001 è rinvenibile affermando che – sulla base di quanto disposto dagli artt. 5 e 6 d.lgs. 231 del 2001 – potrebbe rinvenirsi una responsabilità diretta della holding per illeciti commessi da parte delle altre società nell'interesse della capogruppo o del gruppo complessivamente inteso. Questa affermazione postula l'adesione a una prospettiva secondo la quale la holding potrebbe configurarsi quale amministratore di fatto della o delle società controllate (per un suggerimento in tal senso, sia pur senza alcun riferimento al tema in esame, di modo che la società controllante sarebbe responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone che, in quanto esponenti della società controllata sottoposta alla direzione di gruppo della controllante, sono a loro volta sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lett. a) art. 5 d.lgs. 231/2001, a loro volta esponenti della società controllante esercente la direzione di gruppo. Tale tesi, tuttavia, pare poter operare solo con riferimento all'ipotesi di cosiddetto gruppo apparente, in cui l'autonomia delle persone giuridiche è mera forma, giacché in realtà vi è un unico soggetto giuridico cui realmente imputare gli effetti delle condotte materiali tenute (dai soggetti che operano per conto delle) dalle società controllate; di contro, al di fuori di tale ipotesi, «estranea alla fisiologia dei gruppi, di regola caratterizzati da una sostanziale autonomia delle società che ne fanno parte» (SCAROINA, 233), la costruzione teorica sopra illustrata non pare poter trovare applicazione alcuna, dovendosi rifuggire da pericolose generalizzazioni che inducano a ritenere esistente una forma di assoluto controllo e dominio ogni qualvolta vi sia un forma di controllo azionario, mentre invece può correttamente e fondatamente parlarsi di una responsabilità della holding quale amministratore di fatto delle società del gruppo solo in presenza di una ingerenza non episodica della capogruppo nella direzione e nell'attività concreta delle controllate, di cui vengono definite non solo le strategie generali ma anche le concrete e singole condotte operative, fino ad escludere ogni significativo margine di autonomia in capo alle altre società facenti parte del medesimo raggruppamento.

Da ultimo va richiamata la tesi – di origine prevalentemente giurisprudenziale ma che trova adesioni anche in dottrina – secondo cui in capo alla capogruppo sarebbe rinvenibile un generico obbligo di vigilanza sull'operato delle controllate, così da fondare in capo ad essa o ai suoi vertici una posizione di garanzia ex art. 40 cpv. c.p., con conseguente possibile responsabilità da reatodella holding in relazione a reati commessi dalla controllante in vista di un proprio interesse o di un proprio vantaggio (in dottrina, con varietà di accenti,). In questo caso la responsabilità della società capogruppo è costruita in relazione ad una condotta illecita tenuta da terzi – in particolare dalle persone giuridiche controllate – in vista del perseguimento di un interesse o di un vantaggio non facente capo alla holding, bensì riferibile direttamente al soggetto che agisce in maniera illecita; nondimeno, la responsabilità della holding è ritenuta sussistente nella misura in cui su di essa soggetto grava una posizione di garanzia rispetto alla condotta delle società controllate, per cui la capogruppo è tenuta ad impedire che le persone giuridiche di cui detiene il controllo possano realizzare violazioni della legge penale.

Anche tale tesi, tuttavia, può godere di un assai limitato ambito di applicazione. Può riconoscersi infatti che in alcune ipotesi (per l'appunto non frequenti), quando l'esistenza di una pluralità di persone giuridiche controllate da un'unica società è una mera apparenza, posto che sulla condotta degli organi sociali delle diverse controllate i soggetti che gestiscono la holding vantano un dominio pressoché assoluto – e quindi vi è una integrale precostituzione delle decisioni spettanti all'organo amministrativo della controllata, al quale le decisioni già assunte dalla controllante vengono sottoposte solo per essere pedissequamente trascritte nei verbali consiliari e ogni operazione imputata alla controllata è decisa, in ogni particolare, dagli amministratori della pseudocontrollante –, il sistema sanzionatorio disegnato dal d.lgs. 231/2001 è senz'altro applicabile alla supposta holding, la quale non si limita alla mera gestione di partecipazioni azionarie ma di fatto svolge direttamente – sia pur con l'interposizione fittizia di altri soggetti giuridici – un'attività imprenditoriale, realizzando nel corso della stessa svariate attività illecite. Al di fuori di tale ipotesi, però, la tesi in commento si presenta assolutamente criticabile.

In primo luogo, l'esercizio di una direzione unitaria non determina certo l'instaurarsi di una posizione di supremazia gerarchica assoluta e immutabile, posto che, anche nell'ambito del gruppo di imprese, ciascuna società mantiene assolutamente una propria personalità giuridica e una propria autonomia operativa, con la conseguenza che gli amministratori della holding, pur se venissero a conoscenza di illeciti commessi nella gestione delle società controllate, comunque non avrebbero a loro disposizione alcuno strumento giuridico per intervenire e costringere gli amministratori delle altre persone giuridiche a modificare il proprio atteggiamento. In secondo luogo, ciò che pare mancare in capo alla holding e a quanti la governano è proprio il dovere di impedire che le altre società presenti nel medesimo gruppo conformino la loro condotta ai dettami del diritto penale (per questa osservazione anche SGUBBI, 7): la capogruppo, infatti, rispetto alle altre società, è un mero titolare di partecipazioni azionarie e «nessun obbligo di vigilanza ed intervento incombe sul socio come tale, indipendentemente dalla misura della sua partecipazione e dall'eventuale capacità di influenza dominante» (PEDRAZZI).

Le soluzioni giuridiche

Nel confermare la responsabilità della società la Cassazione supera le censure in ordine alla sussistenza di un interesse o vantaggio in capo alla società condannata sostenendo che tali presupposti sarebbero «stati correttamente ravvisati dai giudici di merito … [nel] risparmio di spesa conseguente al mancato adeguamento dell'impianto alla disciplina di settore e al mancato avvio allo smaltimento dei rifiuti, sia in considerazione della partecipazione della [Tizia S.R.L. e della Caia S.R.L.] al medesimo gruppo». Infatti, sia Tizia S.R.L., proprietaria del terreno dove era stato realizzato il deposito abusivo di rifiuti che la Caia S.R.L., che aveva depositato nel sito gestito dalla prima veicoli che aveva preso in carico per destinarli allo smaltimento, facevano parte del medesimo gruppo di imprese, facente capo ad un medesimo nucleo familiare, cosicché la disponibilità da parte della Caia S.R.L. del sito della Tizia S.R.L. (utilizzato per abbandonarvi i veicoli presi in carico anziché destinarli allo smaltimento), riducendo i costi d'impresa, ha determinato un beneficio anche per il gruppo nel suo complesso, dunque anche Tizia S.R.L.. Ne consegue che, secondo la Cassazione, il vantaggio derivante dalla vicenda «non è stato conseguito esclusivamente da un terzo, del tutto estraneo alla Tizia S.R.L., bensì dalla controllante o capogruppo o, comunque, dalla medesima compagine di soci, non essendo stata contestata la coincidenza tra le compagini delle sue società, per cui correttamente è stato escluso che il vantaggio sia stato solamente di terzi, cioè di persone del tutto estranee alla compagine sociale, e che quindi possa operare la clausola di salvaguarda di cui al secondo comma dell'art 5 d.lgs. 231/2001: una tale coincidenza è, infatti, sufficiente per escludere l'operatività della suddetta clausola di salvaguardia, che non fa riferimento alle società controllate (di cui all'art. 2359 cod. civ.) o al fenomeno della direzione e coordinamento di società (di cui agli artt. 2497 e 2497 septies cod. civ.) o ai gruppi di imprese, ma richiede solamente che la condotta non sia stata tenuta nell'interesse esclusivo dell'amministratore o di terzi, come tali dovendosi intendere, proprio alla luce della genericità dell'espressione volutamente utilizzata dal legislatore, soggetti del tutto estranei alla compagine sociale e che abbiano ricevuto tutti i benefici dalle condotte illecite; una tale circostanza è stata, nel caso in esame, esclusa, non essendo stato della sola Caia S.R.L. il vantaggio derivante dal reato, ma anche del gruppo o, comunque, della medesima compagine di soci, con la conseguente corretta affermazione della configurabilità di un vantaggio per la società ricorrente, anche in relazione alla tolleranza del deposito dei veicoli presi in carico per lo smaltimento dalla Caia S.R.L., e invece abbandonati nella discarica non autorizzata gestita dalla Tizia S.R.L.».

Osservazioni

La sentenza in commento pare decisamente criticabile rappresentando un passo indietro rispetto all'elaborazioni sul punto che aveva formulato la stessa Corte di cassazione (oltre alla già citata Cass. pen., Sez. V, 20 giugno 2011, n. 24583, si veda anche Cass. pen., Sez. II, 9 dicembre 2016, n. 52316 . In tali decisioni infatti si era sostanzialmente sostenuto che qualora il reato presupposto sia stato commesso nell'ambito dell'attività di una società facente parte di un gruppo o di una aggregazione di imprese, la responsabilità può estendersi alle società collegate solo a condizione che all'interesse o vantaggio di una società si accompagni anche quello concorrente di altra società e la persona fisica autrice del reato presupposto sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria, ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231/2001, ai fini della comune imputazione dell'illecito amministrativo da reato, precisandosi dunque che la responsabilità della capogruppo o di una controllata non può discendere dalla mera presunzione di coincidenza dell'interesse di gruppo con quello delle singole società, dovendosi verificare in concreto la sussistenza di un interesse o di un vantaggio della holding o di altra società del gruppo

Di contro, nella decisione in parola vi è – oltre ad un erroneo richiamo alla nozione di gruppo societario, rinvenendosi l'esistenza di tale fenomeno giuridico per il solo fatto che le due società facevano capo ad un medesimo nucleo familiare, profilo che, ex se, sotto un profilo giuridico è irrilevante ai fini della qualificazione di gruppo – una frettolosa individuazione di un generico vantaggio che una società – la quale, peraltro, non rivestiva né la qualifica di holding né di società controllante – avrebbe ricevuto da un illecito commesso da un'altra persona giuridica alla prima collegata in virtù della identità della compagine sociale dei due enti collettivi.

In realtà, la circostanza che il reato sia stato commesso nell'ambito dell'attività di una società controllata o collegata con altre imprese collettive non rende di per sé l'interesse connesso all'azione delittuosa o il vantaggio che ne consegue immediatamente riferibile a quest'ultime, la cui responsabilità di quest'ultima per fatti di reato commessi nell'esercizio di attività imprenditoriali di altre società sussiste solo laddove sia possibile – sulla base di un attento esame della vicenda concreta – sostenere che l'interesse perseguito dalla controllata o il vantaggio da questa ottenuto si riverbera in maniera significativa sul patrimonio e sulle disponibilità della holding o di altre società. paiono dunque per tale profilo inaccettabili generalizzazioni secondo cui ogni vantaggio patrimoniale conseguito dalle società operative è destinato inevitabilmente, in un modo o nell'altro, a riverberarsi sulla persona giuridica che detiene le partecipazioni azionarie di maggioranza: quale interesse abbia soddisfatto o quale vantaggio abbia maturato l'holding o altre società deve essere pienamente provato dall'accusa per poter applicare a tale società le sanzioni descritte dal d.lgs. 231/2001.

(Fonte: IlPenalista.it)

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