Le sentenze delle Sezioni Unite sulla compensatio lucri cum damno: aspetti condivisibili e aspetti critici
17 Agosto 2018
Inquadramento generale della fattispecie
L'istituto della compensatio lucri cum damno non è disciplinato da una disposizione di diritto positivo, ma viene tradizionalmente individuato dalla giurisprudenza quale regola che concorre a delimitare l'ambito del danno risarcibile. Il fondamento della regola è duplice: esso si rinviene, in primo luogo, nel principio di integralità della riparazione o del “danno effettivo”, in base al quale il risarcimento deve reintegrare totalmente il patrimonio del danneggiato della perdita subìta e del mancato guadagno (cfr. l'art. 1223 c.c.), facendo in modo che egli non sia reso né più ricco né più povero di quanto non fosse prima dell'inadempimento o dell'illecito; in secondo luogo, il fondamento si rinviene nel principio di causalità giuridica, che impone di tener conto di tutte le conseguenze immediate e dirette (cfr. ancora l'art. 1223 c.c.) dell'evento dannoso, e dunque non solo delle conseguenze svantaggiose, ma anche di quelle vantaggiose, onde evitare che il risarcimento perda la sua funzione compensativo-riparatoria e determini un indebito arricchimento. Per la giurisprudenza prevalente (tra le tante, Cass. civ., 7 gennaio 2000, n. 81; Cass. civ., 2 marzo 2010, n. 4950; Cass. civ., 20 maggio 2013, n. 12248) «il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso». Si esclude, in tal modo, che il danno risarcibile venga determinato tenendo conto anche di eventuali effetti vantaggiosi che non trovino nell'illecito la loro causa, ma la semplice occasione. Il presupposto più corretto dal quale occorrerebbe partire è probabilmente quello che la compensatio lucri cum damno non è un principio generale, ma una tecnica di calcolo e di semplificazione del calcolo del danno patrimoniale, considerato come identificazione di un patrimonio prima dei sinistri e di un patrimonio dopo il sinistro. Il richiamo specifico al nesso di causalità in tema di compensatio probabilmente si rivela fuorviante ed inopportuno, atteso che, partendo dalla dottrina penalistica dell'evento, occorrerebbe vedere nel danno due momenti ontologicamente differenti (il danno-evento e i danni-conseguenze), individuando, nell'ambito della fattispecie di responsabilità, tre profili: comportamento, evento e danno. Questa tripartizione porrebbe l'ulteriore problema di una duplicità di nessi e, conseguentemente, di stabilire se in entrambi i casi possa parlarsi di nesso di causalità o se, piuttosto, un problema di causalità si configuri solo con riferimento al profilo relativo all'individuazione del soggetto cui ricondurre un determinato evento. In quest'ottica, una parte della dottrina riconosce la sussistenza del nesso eziologico (solo) tra il comportamento (azione od omissione) dell'uomo ed il fatto (o evento) dannoso. Anche la giurisprudenza, dopo qualche tentennamento, si è avveduta della sostanziale analogia tra gli artt. 1218 e 2043 c.c., da un lato, e gli artt. 40 e 41 c.p., dall'altro, che regolano il principio della causalità materiale, rispettivamente, nei settori civile e penale, ed ha modificato il proprio orientamento in merito all'art. 1223 c.c., ridimensionandolo da ‘fulcro' della disciplina del rapporto eziologico a norma la cui funzione è unicamente quella di delimitare le conseguenze risarcibili dell'evento dannoso, e riservando agli artt. 1218 - nell'ambito della responsabilità contrattuale - e 2043 - per quella extracontrattuale - la disciplina del nesso eziologico che intercorre tra comportamento ed evento. Il rapporto sussistente tra l'evento dannoso e le conseguenze dannose - che costituisce l'oggetto della previsione contenuta nell'art. 1223 c.c. - non dovrebbe più essere confuso col diverso rapporto di causalità che, ai sensi degli artt. 1218 e 2043 c.c. (relativi, rispettivamente, alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale), deve collegare l'evento dannoso al comportamento del soggetto agente. L'errore principale in cui spesso si incorre è quello di non distinguere, anzi di confondere, il problema della «imputazione materiale di un dato evento a determinati soggetti» con quello del collegamento giuridico delle ripercussioni dannose risarcibili. In realtà, la “compensazione” concerne la seconda fase del giudizio di responsabilità, in cui si selezionano quali sono le conseguenze dannose ammesse al risarcimento e quali no, a valle del giudizio, ormai intervenuto, sull'identificazione del soggetto responsabile e sull'attribuibilità allo stesso, in base al rapporto di causalità o al nesso eziologico, di quel determinato fatto dannoso delle cui conseguenze patrimoniali negative si discute. D'altra parte, troppo spesso si confonde il rapporto (per il quale può ammettersi l'affermazione per cui l'illecito non è “causa” dell'attribuzione patrimoniale) tra danneggiato-assistito (o assicurato) e soggetto obbligato al pagamento del beneficio (ente previdenziale o compagnia assicurativa) con quello che lega vittima e responsabile, in relazione al quale ultimo occorrerebbe, semmai, quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito dal punto di vista economico, tenendo presente che senza l'illecito non vi sarebbe stato l'incremento patrimoniale. Le fattispecie sottese alle ordinanze interlocutorie della III Sezione civile della Suprema Corte di rimessione alle Sezioni Unite erano estremamente diversificate tra di loro:
I criteri di risoluzione delle questioni
In tempi non sospetti (La compensatio lucri cum damno: la rilevanza della causa in concreto del contratto di assicurazione, in Ri.Da.Re., dicembre 2017) e, dunque, prima dell'intervento nomofilattico in commento si erano individuate le coordinate sulle cui basi si reputava possibile fornire una soluzione ragionevole alle questioni connesse all'istituto della compensatio lucri cum damno.
In primo luogo, le conseguenze vantaggiose pongono un problema di titolarità (del chi ne debba beneficiare: il danneggiato o il danneggiante?) che può essere risolto solo analizzandone la causa, cioè la giustificazione giuridico-economica dell'attribuzione patrimoniale. Mentre per le conseguenze dannose "il concetto di «conseguenza immediata e diretta» serve per non porre a carico del debitore tutte le «conseguenze» che potrebbero andare all'infinito", per quelle favorevoli tale questione non si pone, in quanto - una volta risolto a favore del danneggiante il preliminare problema della titolarità -, è sufficiente tener presente, nel computo del risarcimento, di quel ben determinato e delimitato vantaggio di cui è richiesta la compensazione con il danno.
In secondo luogo, sia nel caso in cui il danneggiato riceva prima l'indennizzo assicurativo, sia nel caso in cui consegua prima il risarcimento, il danno — almeno per la quantità coperta dall'ammontare dell'indennizzo — è da considerarsi ormai ristorato. Nella prima evenienza l'intervento dell'assicuratore riesce ad elidere, almeno fino alla concorrenza del corrisposto a titolo di indennizzo, il pregiudizio sofferto dalla vittima, non potendosi pretendere il risarcimento di un danno che non sussiste più; nel secondo caso, l'assicuratore non è tenuto alla corresponsione di alcuna indennità, non essendovi più alcuna conseguenza lesiva da riparare. In definitiva, l'eventuale somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario escluderebbe la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno: un danno indennizzato, infatti, non dovrebbe essere più, per la parte indennizzata, tale, almeno nell'orbita di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo spunti di carattere (ancora) settoriale, rifugge da intenti punitivi, sanzionatori o, comunque, lato sensu afflittivi per il danneggiante e si pone il solo scopo di rimediare, mediante la ricostituzione (in forma specifica o per equivalente monetario) del patrimonio del danneggiato, ad un'alterazione patrimoniale o patrimonialmente valutabile della di lui sfera giuridica.
In terzo luogo, l'orientamento tradizionale, nel momento in cui ritiene che i vantaggi patrimoniali conseguiti, in dipendenza di un fatto dannoso, per effetto di una norma di legge o di un contratto siano, non già causati, ma semplicemente occasionati dall'illecito, cade nell'errore concettuale di utilizzare, per stabilire se il “lucro” sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito, ai sensi dell'art. 1223 c.c., un criterio più rigoroso di quello utilizzato in relazione al “danno”. Infatti, mentre per quest'ultimo si è ormai consolidata l'utilizzazione del criterio della “regolarità causale” o della “probabilità dell'evidenza” - in forza del quale il rapporto tra condotta ed evento può anche non essere diretto ed immediato, se il secondo non si sarebbe verificato in assenza della prima -, per il lucro si continuerebbe ad esigere un rapporto di consequenzialità immediata e diretta con il fatto dannoso, con ciò incorrendo in una applicazione «asimmetrica» dell'art. 1223 c.c.
Da ultimo, l'attribuzione del terzo potrebbe essere qualificata come beneficio incidente sull'evento lesivo «solo quando la prestazione del terzo sia formalmente giustificata in funzione di risarcimento del danno» (il vantaggio, cioè, deve essere causalmente giustificato in funzione di rimozione dell'effetto dannoso dell'illecito). In quest'ottica, ove fosse rintracciata una finalità, anche indiretta, di ristoro del danno, la somma del vantaggio andrebbe defalcata dalla liquidazione del danno, non già in applicazione del principio della compensatio, ma semplicemente perché il danno risulterebbe in parte già risarcito. Dovrebbe, pertanto, ammettersi il cumulo allorquando, ad esempio, la finalità dell'attribuzione fosse espressamente di natura solidaristica (si pensi all'indennità riconosciuta ai Comuni distrutti per il disastro del Vajont), a prescindere dalla sua fonte (illecito, contratto o legge). È in questo contesto che si sono inserite le pronunce delle Sezioni Unite.
In estrema sintesi, due sembrano i cardini su cui si poggia la motivazione:
Osservazioni critiche
In primo luogo, si avverte una possibile sovrapposizione di piani, atteso che, pur partendo dalla premessa (più o meno condivisibile) secondo cui, in applicazione del principio di regolarità causale, si dovrebbe essere “più parsimoniosi” nel riconoscere vantaggi in qualche modo etiologicamente connessi al fatto illecito, si assume successivamente che il tutto deve comunque passare attraverso il filtro rappresentato dalla funzione specifica perseguita attraverso il vantaggio.
In secondo luogo, non è chiaro se, in presenza di una previsione normativa nel senso della finalità indennitaria perseguita con il beneficio collaterale riconosciuto, l'indagine del giudice debba fermarsi o debba estendersi anche all'altro profilo, vale a dire l'esistenza, in favore del terzo che a vario titolo lo abbia erogato, di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di recupero. Se l'attribuzione avesse expressis verbis lo scopo di ristorare il pregiudizio subito dal danneggiato, non si comprende la ragione per la quale occorrerebbe ugualmente scrutinare se la sua erogazione fosse o meno legata da un rapporto di sinallagmaticità (recte, di corrispettività) con un pregresso sacrificio economico gravante sul danneggiato. A voler prestare adesione alla prospettata soluzione, al fine di scomputare l'indennizzo patrimoniale dal risarcimento preteso dal danneggiato, non sarebbe sufficiente una previsione normativa in tal senso, così come non sarebbe sufficiente la finalità indennitaria perseguita, ma sarebbe altresì necessario l'assenza di un sacrificio di tipo economico a carico del danneggiato. In tal guisa ragionando, però, si introdurrebbe, di fatto, un terzo requisito, rappresentato dalla corrispettività (sotto forma di contributi o di premi) dell'indennizzo versato. Tuttavia, lo scopo perseguito di volta in volta dalla controprestazione non è – almeno in via diretta - quello di assicurare un ristoro complessivamente superiore al pregiudizio subìto, bensì quello di anticipare il risarcimento dovuto dal responsabile, coprendo l'eventualità in cui il medesimo sia impossidente, e di garantire la copertura del rischio.
In terzo luogo e con valenza pregnante, l'ammissibilità del cumulo di indennizzo e risarcimento non dovrebbe, a rigore, farsi dipendere dalla circostanza che l'assicuratore del danneggiato abbia o meno manifestato la volontà di surrogarsi a quest'ultimo nei confronti del responsabile, ex art. 1916 c.c.; e ciò in quanto la surrogazione dell'assicuratore non dovrebbe interferire in alcun modo con il problema dell'esistenza del danno, essendo del tutto irrilevante che sia stato esercitato o meno tale diritto, giacché non può mai essere risarcito un danno non più esistente per essere stato indennizzato, almeno fino all'ammontare dell'indennizzo assicurativo.
In realtà, a ben vedere, l'istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito sono "sganciati", perché la detrazione del vantaggio è «necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento»; ne consegue che, una volta escluso qualsiasi nesso di implicazione reciproca o bilaterale, il pagamento effettuato dall'assicuratore sociale o privato dovrà sempre essere detratto dal risarcimento, "a nulla rilevando né che l'ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, né che, avendolo, vi abbia rinunciato" .
In definitiva, pur condividendosi la conclusione finale cui le Sezioni Unite sono pervenute (alla cui stregua il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto), non se ne condivide appieno l'iter motivazionale che ha condotto a questa conclusione.
D'altra parte, proprio nella direzione da noi avallata sembra, in fine, muoversi la Siprema Corte nel momento in cui afferma che la Corte d'appello di Roma ha «correttamente escluso che X - che nel 1980 è stata integralmente tacitata dal proprio assicuratore, avendo incassato da A, per la perdita dell'aeromobile, un'indennità assicurativa di lire 3.800.000.000, importo superiore al valore corrente dell'aeromobile al momento del disastro, stimato dal c.t.u. in lire 1.586.510.540 - possa poi cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con l'ammontare del risarcimento dovuto dai terzi responsabili, a nulla rilevando che A non abbia mai esercitato la surroga nei confronti dei Ministeri (la sottolineatura è dello scrivente). Infatti, una volta che abbia riscosso l'indennizzo dal proprio assicuratore, il danneggiato non può agire contro il responsabile se non per la differenza, non essendovi spazio per una doppia liquidazione a fronte di un pregiudizio identico. E poiché nella specie tale indennità è superiore al valore corrente dell'aeromobile al momento del disastro, essa, in assenza di prova della sua insufficienza rispetto al danno effettivo, ha effettivamente eliso, secondo l'incensurabile apprezzamento dei giudici del merito, il danno, e con esso il diritto di X di ottenere, da parte delle Amministrazioni convenute, il risarcimento per la perdita dell'aeromobile».
Eseguita la prestazione in favore del danneggiato ed esercitato dall'assicuratore il diritto di surroga con la comunicazione al terzo responsabile della volontà di surrogarsi nei diritti del danneggiato, quest'ultimo perde la titolarità del credito per la quota corrispondente all'indennizzo assicurativo corrispostogli ed in tale credito succede l'ente surrogatosi.
Su queste basi il cumulo tra indennizzo e risarcimento può escludersi anche prescindendo dall'art. 1916 c.c. Del resto, vi sono delle ulteriori specifiche ragioni (che trovano fondamento sia nelle norme sul contratto di assicurazione, sia in quelle sulla responsabilità civile e sul risarcimento del danno) che impediscono, comunque, di ritenere possibile tale cumulo: a) l'assicurato potrebbe avere in teoria un interesse positivo all'avverarsi del sinistro, venendo così a mancare la causa tipica del contratto di assicurazione (il rischio di cui all'art. 1895 c.c., inteso quale evento futuro, incerto, dannoso e non voluto); b) verrebbe violato il principio di integralità del risarcimento, in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui versava prima di restare vittima del fatto illecito.
Assolvendo, dunque, indennizzo e risarcimento ad una identica funzione, la corresponsione dell'indennizzo al danneggiato-assicurato produce l'effetto di elidere in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue, non potendo più essere preteso né azionato. E ciò accade, ripetesi, non tanto perché sia da escludere l'applicazione dell'istituto della "compensatio lucri cum damno", bensì in quanto non vi è più danno risarcibile per la parte già indennizzata dall'assicuratore.
Viene, invece, pienamente condivisa l'affermazione secondo cui, in forza del principio indennitario, un sinistro non può diventare fonte di lucro per chi lo subisce, neppure quando l'indennizzo gli spetti a duplice titolo e da parte di soggetti diversi, e cioè dall'assicuratore e dall'autore del danno. Altresì è apprezzata l'opzione per una regola non rigida, come quella che avrebbe potuto portare sempre ed in ogni caso ad escludere a priori l'esistenza stessa del danno in presenza di un vantaggio riconducibile alla condotta illecita, avallando un approccio diversificato a seconda della fattispecie. Una verifica caso per caso consente, infatti, di selezionare le ipotesi di operatività del meccanismo, nel senso di ammetterne l'operatività ogni qualvolta sia rinvenibile nell'ordinamento un correttivo di tipo equitativo che valorizzi l'indifferenza del risarcimento, ma, nello stesso tempo, eviti che della stessa ne benefici l'autore dell'illecito. Tale correttivo dovrebbe essere individuato, al di fuori dei casi in cui il legislatore espressamente si pronunci a favore di una determinata soluzione, nella finalità o funzione economico-sociale (indennitaria o previdenziale) perseguita attraverso l'erogazione dell'indennizzo. Altro correttivo potrebbe operare, invece, implicitamente dall'interno in tutti i casi in cui sussiste una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge o contratto ad erogare il beneficio, con l'effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio integrale e senza duplicazioni.
*Fonte: www.ridare.it |