Impugnabilità (o meno) dell'atto di accertamento con adesione per errore
20 Agosto 2018
Il contribuente (lavoratore autonomo) sottoscrive un atto di accertamento con adesione, a seguito della notifica di avviso di accertamento con rilievi a fini IRPEF, IVA e IRAP. Con tale atto l'Ufficio "rinuncia" all'applicazione dell'IRAP (per difetto del presupposto d'imposta) e vengono confermati i rilievi a fini IRPEF e IVA. Successivamente, ci si avvede del fatto che l'imponibile a fini IRPEF, quale "rettificato" dall'Ufficio nell'atto di adesione, è di importo identico a quello ai fini IVA riportato nello stesso atto, cioè per mero errore materiale, anche nella dichiarazione dei redditti, indicato ai fini IRPEF al lordo dei contributi 4% per cassa previdenziale. Con la conseguenza che l'atto di adesione ha ad oggetto un "maggiore" imponibile a fini IRPEF in realtà inesistente. È possibile, quindi, far valere tale errore dell'Ufficio, in sede di autotutela, cioè "per evidente errore di calcolo" o "per evidente errore materiale del contribuente" nella dichiarazione dei redditi che sarebbe stato (ed è) "facilmente riconoscibile dall'Ufficio"? Ovvero con un'istanza di rimborso? L'acccertamento con adesione non è impugnabile o modificabile dall'Ufficio, ma questo può valere anche per un mero errore materiale quale innanzi descritto? Nel caso specifico, l'accertamento aveva ad un oggetto un imponibile a fini IRPEF di € 130.710 ma in realtà pari a € 125.682 al lordo del CPA 4%. Per evidente mero errore materiale, quindi, l'accertamento con adesione ha avuto ad oggetto un importo obbiettivamente indebito. Un'istanza di rimborso sarebbe da ritenersi inammissibile, secondo la costante giurisprudenza di legittimità. Ma, domanda: perfezionato dunque l'accertamento con adesione, sarebbe possibile per il contribuente presentare una dichiarazione integrativa per correggere il suddetto errore, atteso che non sarebbe decorso il termine di decadenza ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, e riportando quindi a credito, per il periodo di imposta successivo, la maggiore imposta indebitamente pagata? Ferme ovviamente le sanzioni di cui all'accertamento con adesione.
La procedura dell'accertamento con adesione è prevista nell'ambito di tutte le più importanti imposte; essa è attivabile sia ad iniziativa dell'Agenzia delle Entrate che dello stesso contribuente. La fonte normativa è il D.lgs. n. 218/1997. Nel caso si addivenga all'accordo, esso deve essere formalizzato con un atto di adesione in duplice copia, sottoscritto dal direttore dell'ufficio o da un suo delegato e dal contribuente o un suo rappresentante, contenente per ogni tributo oggetto di adesione tutti gli elementi ed i motivi che hanno portato alla definizione, nonché la liquidazione delle imposte, sanzioni e interessi eventualmente dovuti. Gli effetti dell'avvio e dell'eventuale conclusione del procedimento, i cui contenuti devono essere riportati su un atto di adesione che va sottoscritto dalle Parti, ma che si perfeziona solo con il pagamento di tutte o della prima rata delle somme risultanti dall'accordo stesso (infatti, la copia per il contribuente deve essere rilasciata solo a seguito della ricezione della quietanza di avvenuto pagamento), sono molteplici:
Sulla possibilità di rimettere in discussione i contenuti dell'accertamento con adesione la Cassazione ha sempre avuto un orientamento restrittivo. Secondo i giudici di legittimità, infatti, “una volta definito l'accertamento con adesione, mediante la fissazione anche del quantum debeatur, al contribuente non resta che eseguire (o, per usare lo stesso termine della legge, ‘perfezionare') l'accordo, versando quanto da esso risulta; essendo normativamente esclusa la possibilità d'impugnare simile accordo e, a maggior ragione, quella d'impugnare l'atto impositivo oggetto della transazione; il quale conserva efficacia, ma solo a garanzia del fisco, finché non sia stata ‘perfezionata' la procedura, ossia non sia stata interamente eseguita l'obbligazione scaturente dal concordato”.
In sostanza quindi la Corte di Cassazione ha stabilito che l'accertamento con adesione è intoccabile e che una volta fissato l'importo dell'imposta, non può più essere impugnato dal contribuente né l'atto impositivo iniziale né l'accordo con il fisco. Perciò, una volta definito l'accertamento con adesione, mediante la fissazione anche del "quantum debeatur", alla parte contribuente non resta che eseguire l'accordo, versando quanto da esso risulta, essendo per legge esclusa la possibilità d'impugnare l'accordo stesso (cfr. Cass. civ. n. 18962/2005 e n. 10086/2009, nonché a "contrariis" n. 15170/2006).
Detto questo e ripercorrendo le soluzioni prospettate dall'istante si precisa che: 1) non percorribile appare la strada del rimborso, in particolare del cd. Rimborso anomalo ai sensi dell'art. 21 del D.lgs. n. 546/1992 in quanto ancora non c'è una somma versata indebitamente. Secondo condivisibile classificazione di dottrina, le liti di rimborso riguardano solo crediti del contribuente ed esse nascono o "perché ha versato una somma non dovuta", o "perché ha versato acconti che, a consuntivo, superano il dovuto", o "perché si sono verificate situazioni alle quali il legislatore collega il sorgere, in capo al contribuente medesimo, di crediti d'imposta in senso stretto"; 2) l'autotutela è lo strumento attraverso il quale l'Amministrazione finanziaria esercita il potere di riesaminare la propria azione e, conseguentemente, di annullare i propri atti che riconosca illegittimi, in attuazione del principio costituzionale di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa. Nel caso di specie non siamo in presenza di un provvedimento amministrativo unilaterale, bensì di un vero e proprio accordo che ha visto la partecipazione volitiva anche del contribuente. Secondo la prassi, solo la presenza di un giudicato sul rapporto amministrativo preclude l'esercizio dell'autotutela che può essere esercitata anche se l'atto è divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini per ricorrere. Nel caso di specie non abbiamo un avviso di accertamento ma un accordo che si sostituisce al provvedimento nella regolazione del rapporto tributario; quindi l'autotutela è esclusa; 3) la strada praticabile potrebbe essere quella di firmare un successivo accordo con l'Ufficio, sostituivo del precedente, con il quale si dà atto dell'errore materiale commesso, con la rideterminazione degli importi globalmente dovuti e delle singole rate; 4) nel caso l'Ufficio non recepisca si potrebbe indicare il credito nella dichiarazione integrativa e nel caso di accertamento dell'ufficio far valere la giurisprudenza che ormai ammette sempre l'emendabilità della dichiarazione, anche in sede contenziosa, in ossequio al principio della effettiva capacità contributiva. Secondo tale giurisprudenza il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dal d.P.R. n. 322/1998, art. 2 e dall'istanza di rimborso di cui al d.P.R. n. 602/1973, art. 38, "in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull'obbligazione tributaria" (cfr. Cass. civ., SS.UU. n. 13378/2016 e, da ultimo n. 5728/2018). In altri termini, anche alla luce della predetta sentenza delle Sezioni Unite, il contribuente, è sempre ammesso, in sede contenziosa, a provare che egli non ha giustificatamente versato la (maggiore) somma pretesa dall'Amministrazione finanziaria con la cartella esattoriale poiché l'originaria dichiarazione era viziata da un errore di fatto o di diritto (e, dunque, il presupposto impositivo non era sussistente), senza che rispetto a tale difesa siano configurabili decadenze di sorta.
|