La conciliazione in materia agraria
21 Agosto 2018
Il quadro normativo
La Corte costituzione, con l'ordinanza n. 73/1988, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 46 l. n. 203/1982 con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.. In particolare, la Consulta, muovendo dalla considerazione per la quale, già all'epoca della pronuncia, l'istituto della conciliazione preventiva trova applicazione in diverse materie e risulta chiaramente finalizzato ad evitare la pendenza giudiziaria della lite, essendo strutturato nei vari casi secondo diversi modelli di raccordo con l'azione giudiziaria, ha ribadito, in relazione all'art. 24 Cost., che tale precetto costituzionale non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, e non vieta quindi che la legge possa subordinare l'esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale (cfr. ordinanza n. 73/1988 nonché sentenza 13 aprile 1977, n. 63). Non ravvisando nello speciale onere del previo tentativo di conciliazione – ex art. 46 l. n. 203/1982 – un adempimento vessatorio di difficile osservanza, né un'insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell'attore, la Corte costituzionale ha ritenuto la piena legittimità costituzionale dell'obbligatorio tentativo di conciliazione in materia agraria. Più di recente, il legislatore, con la finalità di semplificare i riti civili riconducendoli, per materia, ad a uno dei modelli di rito contemplati dal codice di procedura civile e di trasporre in un unico contenitore tutte le disposizioni processuali applicabili alle singole tipologie di controversie, ha riprodotto, per ciò che in questa sede, rileva le disposizioni in materia di conciliazione agraria di cui all'art. 46 l. n. 203/1982, ai commi 3-7 dell'art. 11 d.lgs. n. 150/2011. L'obbligatorietà del tentativo di conciliazione ex art. 11 d.lgs. n. 150/2011 risulta estesa, per effetto del richiamo al comma 1 contenuto al comma 3 della disposizione di legge citata, a qualsiasi tipo di contratto di affitto agrario. Vi risultano, dunque, comprese anche le ipotesi in cui conduttore non sia un coltivatore diretto. L'intervento legislativo in esame ha risolto la questione dibattuta in giurisprudenza circa l'applicabilità dell'obbligo del tentativo di conciliazione anche ad ipotesi diverse dall'affitto a coltivatore diretto. In particolare, a risolvere la querelle, più volte si è pronunciata la Suprema Corte, la quale, muovendo dal mancato richiamo all'art. 46 da parte dell'art. 23, l. n. 203/1982, ha statuito nel senso della riferibilità dell'obbligo di conciliazione, a pena di improponibilità, alle sole domande concernenti contratti a coltivatore diretto, anche se proposte in via riconvenzionale (cfr. Cass. civ., 14 novembre 2008, n. 27255). Alla stregua di quanto accade in materia locatizia, anche per le controversie agrarie si è posto il problema di distinguere, ai fini dell'individuazione del rito applicabile, le domande fondate su un titolo agrario da quelle fondate sulla inesistenza del titolo. Rientrano tra queste ultime sicuramente le domande di rilascio in cui l'attore alleghi che il convenuto detiene la res senza titolo, povero in assenza di contratto. In tale ipotesi, anche qualora la res sia un fondo rustico e il detentore un coltivatore diretto, ugualmente la lite, non concernendo aspetti controversi di un contratto agrario, rimane sottratta all'obbligo del tentativo di conciliazione e, a monte, al rito agrario e attratta al rito ordinario di cognizione (cfr. in questo senso Cass. civ., n. 21389/2005). Con riferimento alla natura giuridica dell'istituto in esame, non pare potersi dubitare del fatto che la definizione del tentativo di conciliazione o, in alternativa, il decorso del termine dilatorio di 60 giorni di cui al comma 7 dell'art. 11, costituisca condizione di proponibilità della domanda giudiziale. Del resto, la ratio dell'onere posto dall'art. 46 l. n. 203/1982 - oggi art. 11 d.lgs. n. 150/2011 - alle parti che intendono proporre una domanda relativa a una controversia in materia di contratti agrari, risiede nella circostanza che le stesse siano poste in grado di rendersi conto dell'oggetto della controversia e di valutare la convenienza di comporla, ed è proprio a tali fini che il legislatore ha previsto un termine minimo di sessanta giorni dalla comunicazione diretta a provocare il tentativo di conciliazione da parte dell'Ispettorato Provinciale per l'Agricoltura che deve trascorrere prima che venga adita l'Autorità Giudiziaria. Che lo scopo dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione sia quello di consentire alle parti la risoluzione amichevole della controversia, con evidenti effetti deflattivi, lo si ricava dalla necessità che il procedimento si svolga in modo che le parti possano efficacemente interloquire sulle questioni oggetto di lite. In questa prospettiva va sicuramente valorizzata l'esigenza, più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità, che il difensore della parte non comparsa personalmente innanzi all'organo di conciliazione, nei confronti della quale si intenda proporre la domanda riconvenzionale, sia munito di uno specifico mandato relativo agli argomenti che di questa costituiscono oggetto, ulteriori e diversi rispetto a quelli della domanda principale, non potendo, altrimenti, la procedura conciliativa perseguire la finalità deflattiva cui è preordinata (cfr. in materia agraria, Cass. civ., sez. III, sent., n. 19501/2013). Per “domanda soggetta all'obbligatorio tentativo di conciliazione” deve intendersi, sicuramente, quella introduttiva del giudizio agrario (secondo il rito speciale del lavoro e rimesso, quanto alla competenza, alla Sezione Specializzata Agraria).
Al pari della domanda introduttiva principale, non v'è ragione di escludere della obbligatorietà del tentativo di conciliazione per la domanda riconvenzionale eventualmente svolta dal resistente. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità è pacifica e cristallizzata nel tempo. (si vedano, per tutte, Cass. civ., n. 19436/08; Cass. civ., n. 23816/07; Cass. civ., n. 830/06; Cass. civ., n. 15802/05; Cass. civ., n. 11192/05; Cass. civ., n. 10993/03; Cass. civ., n. 10017/03; Cass. civ., n. 14900/02; Cass. civ., n. 467/02; Cass. civ., n. 408/02; Cass. civ., n. 12756/01; Cass. civ., n. 10497/01; Cass. civ., n. 7445/01; Cass. civ., n. 593/01).
La peculiarità dei procedimenti cautelari (artt. 669-bis e ss. c.p.c.), in quanto connotati da una particolare esigenza di celerità, è incompatibile con il tentativo obbligatorio di conciliazione, sicchè per essi ne è esclusa l'applicazione Tra le domande cautelari – escluse dal tentativo obbligatorio di conciliazione – va senz'altro compresa la fase cautelare innanzi al giudice dell'esecuzione nelle opposizioni esecutive (artt. 615 e 617, comma 2, c.p.c.). Mentre l'obbligatorietà sussiste per la successiva ed eventuale fase di merito innanzi al Giudice della cognizione (cfr., in questo senso, Cass. civ., sez. III, sent., n. 8370/2005).
L'obbligatorietà, a pena di improponibilità della domanda, del tentativo di conciliazione ex art. 46 l. n. 203/1982 ovvero ex art. 11 d.lgs. n. 150/2011 ratione temporis, non si estende alle domande che si pongano in rapporto di accessorietà e consequenzialità con quelle oggetto del tentativo di conciliazione. Segnatamente, in materia di controverse agrarie, è stato ritenuto (Cass. civ., n. 22665/2004; Cass. civ., n. 2388/2002; Cass. civ., n. 10993/2003) che la necessità di un autonomo tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 l. 3 maggio 1982, n. 203, non sussiste per le domande che, pur proposte unicamente in sede giurisdizionale, si ricolleghino direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dalle parti in occasione del tentativo di conciliazione. È stato, pertanto, affermato che la domanda di condanna al rilascio di un fondo rustico sia compresa nella domanda di accertamento della data di cessazione del rapporto, in relazione alla quale era stato sollecitato l'esperimento del tentativo di conciliazione. Tuttavia, la Suprema Corte ha sul punto precisato che, ove il titolo di godimento sia plurimo (detenzione in forza del contratto di affitto e possesso in forza di contratto preliminare con effetti anticipati, nella fattispecie affrontata dalla Suprema Corte) si impone l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione anche sulla domanda di rilascio (Cass. civ., sez. III, sent., n. 15757/2014).
Ulteriore questione affrontata e risolta dalla Suprema Corte, inerisce la sovrapponibilità del tentativo di conciliazione in materia agraria con quello in materia lavoristica. Valorizzando il dato sistematico circa l'autonomia e la specialità del disposto di cui all'art. 46 l. n. 203/1982 (ma la prospettiva non muta con l'entrata in vigore dell'art. 11 d.lgs. n. 150/2011) è stato affermato che in materia agraria, la necessità del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, secondo quanto previsto dall'art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203, configura una condizione di proponibilità della domanda, la cui mancanza, rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità; diversamente, nella materia lavoristica, alla stregua di quanto stabilito dall'art. 412-bisc.p.c., l'esperimento del tentativo di conciliazione integra una condizione di procedibilità e la sua mancanza una improcedibilità sui generis, avuto riguardo al regime della sua rilevabilità ed all'iter successivo a siffatto rilievo. Ne consegue che l'art. 412-bisc.p.c., anche se successivo all'anzidetto art. 46 (siccome introdotto dall'art. 39 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), giacché reca una disciplina peculiare del processo del lavoro, non può trovare applicazione nel processo agrario, il quale mantiene inalterata la propria diversa ed autonoma regolamentazione positiva dettata dal citato art. 46 (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., n. 2046/2010). Può dunque serenamente affermarsi che, a differenza di quanto previsto nel rito lavoro - ove l'improponibilità della domanda per difetto del previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione deve formare oggetto di un'eccezione sollevata dalla controparte processuale, in materia agraria essa è rilevabile d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, stante la natura imperativa e inderogabile della norma di cui all'art. 46 l. n. 203/1982 (nel senso della natura imperativa e inderogabile dell'art. 46, cfr. Cass. civ., sez. III, sent., n. 19436/2008).
Come noto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 276/2000, ha statuito che il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. Per tale ragione, rimangono estranei all'istituto i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo ex artt. 633 e ss. c.p.c.. Sulla scorta di tale enunciato, la giurisprudenza di merito ha ritenuto la non obbligatorietà del tentativo di conciliazione nel procedimento monitorio. Recentissima è invece la pronuncia, in senso diametralmente opposto, della Suprema Corte, la quale, valorizzando le peculiarità della materia anche rispetto al tentativo di conciliazione in sede lavoristica, nonché il dato letterale del disposto di cui all'art. 11 d.lgs. n. 150/2011, ha affermato che in materia agraria, grava sulla parte che intenda proporre ricorso per decreto ingiuntivo a tutela di un diritto nascente da un rapporto agrario l'onere di esperire il preventivo tentativo di conciliazione nei modi stabiliti dall'art. 11 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, a pena di improponibilità̀ della domanda rilevabile di ufficio. In particolare, a parere della Corte, l'aggettivo “preventiva” contenuto all'art. 11 (e già presente all'art. 46 l.n. 203/1982) depone inequivocabilmente nel senso di ritenere che il tentativo obbligatorio di conciliazione configura una condizione di accesso alla tutela giurisdizionale, cioè a dire un adempimento che, a pena di improponibilità dell'azione, deve precedere l'introduzione della lite e il ricorso all'autorità giudiziaria, e ciò anche quando la richiesta di tutela venga articolata con le forme della cognizione sommaria proprie del procedimento per ingiunzione. Né il riferimento alla “domanda” contenuto all'art. 11 va inteso in senso tecnico giuridico restrittivo (ovvero in termini di domanda introduttiva del giudizio a cognizione piena. In tal caso, quindi, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo), ma in senso ampio e omnicomprensivo di «istanza volta al riconoscimento di un diritto o comunque alla tutela di un bene della vita avente scaturigine in un contratto agrario» (per questa definizione, Cass. civ., 28 dicembre 1995, n. 13140), non assumendo, per contro, alcuna rilevanza la sequenza procedimentale attivata (ordinaria o semplificata) o la modalità di proposizione seguita (in via principale o riconvenzionale). Deporrebbe ancora per l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione anche nei procedimenti monitori, la ratio della norma, da individuarsi non soltanto nella esigenza, di rilievo squisitamente processuale, di predisporre un filtro riduttivo dei procedimenti giurisdizionali (non lesivo del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost., per non essere l'esercizio del diritto innanzi l'A.G. sottoposto ad «un adempimento vessatorio di difficile osservanza» né ad «un'insidiosa complicazione»: così Corte cost., 21 gennaio 1988, n. 73) ma soprattutto nel bisogno di salvaguardare l'interesse, di natura sostanziale, alla conservazione dei rapporti agrari e della attività di impresa collegata all'utilizzazione del fondo: finalità in tutta evidenza compromesse qualora con l'adozione della forma semplificata di tutela ingiuntiva (sempre alternativa - si rammenti - al procedimento di cognizione ordinaria) fosse consentito di eludere il tentativo della preventiva composizione amministrativa della controversia. Quanto, infine, al soggetto su cui far gravare l'onere di esperire il necessario tentativo di conciliazione, secondo la Suprema Corte esso non può che individuarsi nel creditore, giacché, ove si facesse gravare sul debitore, essa slitterebbe ad una fase successiva (quella dell'opposizione di cui all'art. 645 e ss. c.p.c.), in contrasto con la natura “preventiva” rispetto alla proposizione in sede giudiziale della lite e in insanabile distonia con il termine perentorio per la proposizione dell'opposizione. Preme, infine, evidenziare come la commentata pronuncia della Suprema Corte si pone, con riferimento al soggetto su cui far gravare l'obbligo di adire l'autorità preposta al fine di conciliare la lite, in contrasto con l'orientamento espresso in materia di mediazione obbligatoria, seppure, è bene ricordarlo, l'obbligatorietà del tentativo di mediazione è escluso ex lege per i procedimenti monitori ed è previsto, invece, per la fase successiva dell'opposizione ex art. 645 c.p.c.. Ci si riferisce alla sentenza n. 24629/2015 con cui la Suprema Corte, fondando la ratio dell'art. 5 del d.lgs.n. 28/2010 nel principio della ragionevole durata del processo, ha individuato nel debitore ingiunto/opponente ex art. 645 c.p.c. la parte su cui grava l'obbligo, a pena di improcedibilità della stessa opposizione, di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione. Optare per tale l'orientamento comporta inevitabilmente che il mancato esperimento della mediazione obbligatoria condurrà all'improcedibilità della stessa opposizione, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto. Non mancano, per vero, nella giurisprudenza di merito opinioni in dissenso con quanto predicato dalla Suprema Corte, per le quali l'onere di esperire il tentativo di mediazione deve intendersi posto a carico dell'opposto, in quanto soggetto che svolge la “domanda” acclusa nel ricorso per decreto ingiuntivo. É chiaro che ove si aderisca a tale orientamento, il mancato esperimento della mediazione obbligatoria condurrà all'improcedibilità della domanda introdotta con il ricorso per decreto ingiuntivo con conseguente revoca di quest'ultimo. Non può escludersi che la questione, mai sopita nella giurisprudenza di merito, si riveli, proprio alla luce della sentenza della Cassazione n. 6839/2018, alimentata da nuovo vigore e da nuovi spunti di riflessione. Riferimenti
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