Domanda di ammissione al passivo via PEC e conoscenza della pendenza del giudizio interrotto

22 Agosto 2018

La dichiarazione di fallimento di una delle parti determina l'automatica interruzione del processo, con termine trimestrale per la sua riassunzione decorrente dalla data della conoscenza legale dell'evento, che ne ha causato l'interruzione, estesa, per la Curatela fallimentare, anche alla conoscenza della pendenza del processo. Tale conoscenza legale deve essere acquisita...
Massima

La dichiarazione di fallimento di una delle parti determina l'automatica interruzione del processo, con termine trimestrale per la sua riassunzione decorrente dalla data della conoscenza legale dell'evento, che ne ha causato l'interruzione, estesa, per la Curatela fallimentare, anche alla conoscenza della pendenza del processo. Tale conoscenza legale deve essere acquisita non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento assistita da fede privilegiata, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell'intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva. Idonea a determinare la conoscenza legale della pendenza del giudizio interrotto a causa del fallimento, per il curatore, è l'istanza di ammissione al passivo a quest'ultimo trasmessa a mezzo PEC e recante il riferimento, quanto al titolo giustificativo dei crediti invocati, al procedimento interrotto.

Il caso

Con atto di citazione ex art. 829 c.p.c. la società P. S.p.A. impugnava, innanzi alla Corte d'appello di Milano, il lodo con il quale il collegio arbitrale aveva accolto la domanda promossa da B.S. S.p.A. tesa al riconoscimento dell'indennizzo per la mancata corresponsione di canoni di locazione per la detenzione di alcuni immobili, chiedendone, in via d'urgenza, la sospensione dell'efficacia esecutiva e, nel merito, la declaratoria di nullità ai sensi dell'art. 829, comma 1, n. 5 e n. 11 c.p.c.

La causa veniva ritualmente iscritta a ruolo e la comparizione delle parti fissata il 2 dicembre 2014.

Nelle more dell'udienza suddetta, con sentenza del 24 giugno 2014, P. S.p.A. veniva dichiarata fallita.

Con ricorso ex art. 93, comma 2, l. fall. trasmesso al curatore, a mezzo posta elettronica certificata (PEC), il 6 novembre 2014, B.S. chiedeva l'ammissione con riserva al passivo del Fallimento P. S.p.A. dei crediti oggetto del lodo arbitrale, in esso dando nota della pendenza del giudizio dinanzi alla Corte d'appello e allegando copia degli atti difensivi depositati dalle parti.

La domanda di insinuazione al passivo promossa da B.S. veniva parzialmente condivisa dalla Curatela, che nel progetto di stato passivo trasmesso, a mezzo PEC, ai creditori il 24 novembre 2014, proponeva l'ammissione dei crediti ai sensi dell'art. 96, comma 3, l. fall. condizionatamente all'esito del giudizio pendente dinanzi alla Corte d'appello.

All'udienza di prima comparizione del 2 dicembre 2014 la Corte d'appello, rilevato il fallimento della ricorrente P. S.p.A., dichiarava l'interruzione del giudizio ai sensi dell'art. 301 c.p.c., che veniva poi riassunto dalla Curatela del fallimento con ricorso depositato in data 27 febbraio 2015.

B.S. si costituiva nel procedimento riassunto deducendo, in via preliminare, la tardività della riassunzione in ragione del decorso del termine di tre mesi dalla data di conoscenza effettiva e legale, da parte della Curatela del Fallimento P., della pendenza del giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale, sul quale l'evento interruttivo (dichiarazione di fallimento) aveva inciso.

La Corte territoriale, in accoglimento delle difese svolte da B.S., rilevava la tardività della riassunzione del procedimento relativo al gravame, per essere stato il ricorso depositato oltre il termine di tre mesi previsto dall'art. 305 c.p.c. decorrente dalla data di presunzione di conoscenza, in capo alla Curatela, della pendenza del giudizio.

Nella ricostruzione fatta dai giudici, a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 139 del 1967, n. 178 del 1970, n. 159 del 1971 e n. 36 del 1976, il termine per la prosecuzione o per la riassunzione del processo interrotto a causa della morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo bensì da quello in cui la parte interessata alla riassunzione (nel caso di specie, il curatore) abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, ovvero a seguito di lettura in udienza dell'ordinanza di interruzione (in tal senso, richiamava l'ordinanza di Cass. Civ., n. 3782/2015). Applicando tale acquisito principio alla fattispecie, il Collegio osservava che B.S. aveva documentato che nella domanda di ammissione al passivo del Fallimento dell'appellante, da essa trasmessa in data 6 novembre 2014, a mezzo PEC, al curatore dello stesso Fallimento, era stato specificamente indicato che i crediti dei quali aveva chiesto l'ammissione erano fondati sulle statuizioni del lodo arbitrale impugnato da P. S.p.A. in bonis con atto di citazione notificato il 12 giugno 2014, con il quale era stato introdotto davanti alla Corte d'appello di Milano il giudizio d'impugnazione per nullità, indicandone tutti gli estremi.

B.S. aveva altresì documentato che, con email trasmessa a mezzo PEC in data 24 novembre 2014, il Curatore del Fallimento P. S.p.A. le aveva inviato il progetto dello stato passivo, dal quale risultava, con riferimento alla domanda di insinuazione predetta, l'ammissione al chirografo, con riserva, del credito di B.S.

Da tali documenti, entrambi ritualmente prodotti con i relativi rapporti di trasmissione e consegna, risultava provato che il Fallimento aveva avuto conoscenza legale del fatto che l'effetto interruttivo della dichiarazione di fallimento era destinato ad operare sul giudizio, esattamente individuato nella domanda di ammissione proposta da B.S. quantomeno dal momento in cui il Curatore aveva comunicato alla stessa l'ammissione al passivo del credito, con l'espressa precisazione che l'ammissione era condizionata “all'esito del giudizio pendente e nella misura in cui verrà accertato”.

La riassunzione del giudizio risultava tardiva rispetto alla comunicazione del progetto dello stato passivo, avvenuta il 24 novembre 2014.

Il Fallimento insorgeva contro la decisione della Corte d'appello, proponendo ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Con il primo motivo di ricorso la Curatela stigmatizzava non l'astratta correttezza dei principi invocati dai giudici d'appello alla base della propria decisione, ritenuti correttamente in linea con il pacifico indirizzo della Cassazione, bensì la loro applicazione alla vicenda concreta.

Ad avviso del Fallimento, la Corte d'appello aveva errato nell'assegnare rilevanza, ai fini del decorso del termine trimestrale:

(i) alla comunicazione PEC con la quale B.S. aveva trasmesso al Curatore, il 6 novembre 2014, la domanda di ammissione al passivo del Fallimento, che a suo dire, in termini assoluti ed astratti, non configurava e non poteva configurare una "dichiarazione, notificazione o certificazione assistita da fede privilegiata" (la ricorrente richiamava, al riguardo, la sentenza della Cassazione n. 5650/2013, che aveva specificamente escluso la rilevanza della “istanza di ammissione al passivo” stabilendone la “inidoneità” a far decorrere il termine trimestrale in quanto “non configurante una forma di conoscenza legale”) e nulla aveva detto "circa l'effetto che la presentazione dell'istanza avrebbe dovuto produrre rispetto alla riassunzione del giudizio", non perseguendo una specifica finalità informativa mirata alla decorrenza del relativo termine;

(ii) alla comunicazione del Curatore, inviata a mezzo PEC il 24 novembre 2014 - recante il progetto di stato passivo del Fallimento e contenente il riferimento al "giudizio pendente" (il giudizio di impugnazione per nullità del lodo), al cui esito era stata condizionata l'ammissione stessa dei crediti vantati da B.S. - in quanto inidonea a dimostrare l'acquisizione della “conoscenza legale” della pendenza del giudizio (e, cioè, che il curatore ne fosse venuto a conoscenza per il tramite di una "dichiarazione, notificazione o certificazione assistita da fede privilegiata") e piuttosto atta a dimostrare le sola "conoscenza empirica" del fatto, non sufficiente a far decorrere il termine di legge per la riassunzione.

L'errore di fondo che, a dire del Fallimento P., viziava l'intera sentenza della Corte territoriale interessava il concetto di “conoscenza legale”, concetto tecnico-giuridico da tener distinto dalla “concreta conoscenza”, che invece rappresenterebbe una condizione psicologica di fatto e, pertanto, un “concetto empirico legato alla soggettività della mente umana”, non rilevante nella prospettiva giuridica.

Adduceva, inoltre, la Curatela che la decisione della Corte d'appello finiva per violare il diritto della Curatela medesima di agire in giudizio per la tutela dei diritti, propri e dei creditori della massa, con simmetrica violazione del diritto alla difesa e del principio del contraddittorio.

Alla stregua di tali considerazioni il Fallimento deduceva, quindi, che il termine trimestrale per la riassunzione del giudizio era decorso non il 24 febbraio 2015, coma ritenuto dalla Corte d'appello, bensì il 2 marzo 2015, tre mesi dopo, cioè, il provvedimento dichiarativo dell'interruzione, essendo tale provvedimento « il primo e unico atto idoneo a determinare la conoscenza legale e non di mero fatto, in capo alla Curatela, dell'evento interruttivo; e quindi a far decorrere il termine di tre mesi per la riassunzione ».

Con il secondo motivo d'impugnazione la ricorrente deduceva l'erroneità e illegittimità della sentenza per avere la Corte territoriale dichiarato l'estinzione del giudizio pur in mancanza della prova, il cui onere sarebbe gravato su B.S., della conoscenza legale, e non di mero fatto, in capo al Curatore della pendenza del giudizio sul quale l'effetto interruttivo avrebbe in concreto operato.

L'evoluzione giurisprudenziale successiva al ricorso

Successivamente alla costituzione in giudizio delle parti e nelle more della fissazione della camera di consiglio, la Cassazione, pronunciando su una fattispecie identica a quella in esame, era pervenuta ad esprimere un principio di diritto dirimente. Nella fattispecie, la Corte d'appello aveva ritenuto tardiva la riassunzione del giudizio di primo grado in quanto l'evento interruttivo, e cioè il fallimento della società opposta, era stato portato a conoscenza del procuratore della società opponente attraverso una specifica dichiarazione effettuata dal procuratore della stessa società opposta, comunicata a mezzo posta elettronica certificata. La società opponente, ricorrente in Cassazione, aveva sostenuto che tale comunicazione non fosse idonea a determinare la conoscenza legale dell'evento e che il termine per la riassunzione avrebbe dovuto farsi decorrere dalla data in cui il giudice aveva dichiarato l'interruzione del processo (con conseguente tempestività della sua riassunzione), per la ragione che “in linea generale, la comunicazione a mezzo P.E.C. non potrebbe dirsi assistita da fede privilegiata” (tesi, questa, sostenuta anche dal Fallimento P. nella fattispecie in analisi).

Nella decisione resa (Cass., 15 settembre 2017, n. 21375) la Cassazione chiariva che "La comunicazione della dichiarazione dell'evento interruttivo del giudizio, effettuata mediante posta elettronica certificata dal difensore della parte interessata dallo stesso a quello della controparte, è equivalente, ai sensi dell'art. 48, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 82 del 2005, alla notificazione a mezzo posta ed è pertanto idonea, in mancanza di prova contraria, a dimostrare la conoscenza legale dell'evento da parte del destinatario", ciò non senza prima aver premesso che:

(i) ai sensi del D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, artt. 4 e 6 "la posta elettronica certificata consente l'invio di messaggi la cui trasmissione è valida agli effetti di legge" (art. 4, comma 1), e "la ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione" (art. 6, comma 3);

(ii) ai sensi del D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 48, commi 1 e 2, "la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con le regole tecniche adottate ai sensi all'art. 7" e "la trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta".

Nello stesso ordine di idee, sempre nelle more della pronuncia in commento, nell'ottobre del 2016, il Consiglio di Stato perveniva a ritenere le osservazioni al progetto di stato passivo ex art. 95, comma 2, l. fall., trasmesse a mezzo PEC all'indirizzo della Curatela (con le stesse modalità di trasmissione dell'istanza di ammissione al passivo), idonee a generare la “conoscenza legale del Curatore fallimentare dell'evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento e dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare” e, quindi, atte a far decorrere il termine di tre mesi per la riassunzione di un giudizio interrotto a causa del fallimento della società appellante (Cons. Stato, 7 ottobre 2016, n. 4136).

Ancor più intransigente era la posizione assunta dalle corti di merito.

Pochi giorni dopo il deposito del controricorso, il Tribunale di Pavia, adìto in una fattispecie analoga a quella in analisi, giungeva ad affermare che “in mancanza di circostanze di segno contrario, dalle quali desumere una carenza di collaborazione del liquidatore, o addirittura una condotta ostruzionistica, si deve presumere la conoscenza del giudizio in capo al curatore sin dalla data di deposito della sentenza. L'eventuale condotta negligente in capo al liquidatore, per non avere informato tempestivamente il curatore della pendenza del giudizio (diligenza esigibile dal curatore), non può essere opposta alla controparte convenuta nel giudizio, al fine di spostare in avanti nel tempo il termine per l'utile riassunzione, rilevando semmai nei rapporti interni, di responsabilità, tra questi ultimi.Occorre poi considerare l'obbligo incombente in capo al difensore della società, che l'ha assistita nel giudizio, prima della dichiarazione del Fallimento, di comunicare al curatore la pendenza delle liti interessate all'interruzione, in adempimento degli obblighi attinenti al mandato.Tra l'altro, dalla lettura degli atti, si desume che la società abbia chiesto di essere ammessa alla procedura di concordato preventivo; inoltre, in virtù dell'intervenuta dichiarazione di fallimento, si desume altresì che l'istanza sia stata disattesa. Entrambe le circostanze sono comunque verificabili in quanto pubblicate sul registro delle imprese. In considerazione di quanto sopra si evidenzia, pertanto, che la dichiarazione di Fallimento non è stata improvvisa, risultando al contrario inserita all'interno di un percorso in relazione al quale il liquidatore e il procuratore legale dovevano avere ben chiaro il quadro giuridico economico della società, e quindi certamente la pendenza di un giudizio nel quale viene chiesto il risarcimento del danno per due milioni di Euro, il cui esito positivo verosimilmente avrebbe potuto scongiurare lo stesso fallimento della società.In quest'ottica, valutata complessivamente la questione, tenendo conto tanto degli elementi in diritto quanto di quelli in fatto, in particolare applicando il dato normativo in base a quanto emerso dai fatti concreti, si deve concludere nel senso di ritenere che il curatore non poteva non conoscere, o comunque avrebbe dovuto conoscere, l'esistenza del giudizio al momento del deposito della sentenza dichiarativa del Fallimento, e quindi ben avrebbe potuto riassumere tempestivamente il giudizio”(Trib. Pavia, 31 marzo 2016).

Le più recenti pronunce occorse dopo l'avvio del giudizio erano, quindi, nel segno del pieno valore legale (e di opponibilità ai terzi) della posta elettronica certificata (PEC) nell'ordinamento processuale. Esse confermavano che la domanda di ammissione al passivo, trasmessa (obbligatoriamente) a mezzo PEC alla casella PEC del Fallimento, cui ha accesso solo il Curatore, nel rispetto dell'art. 93 l. fall., configura - per il Curatore che la riceve - una "dichiarazione, notificazione o certificazione assistita da fede privilegiata", idonea a offrire compiuta conoscenza legale del procedimento interrotto per effetto della pronuncia di fallimento e, per l'effetto, a determinare il decorso del termine di tre mesi per la sua riassunzione.

La decisione della Cassazione

Con l'ordinanza in commento, la Suprema Corte, nell'affermare l'idoneità dell'istanza di ammissione al passivo (trasmessa a mezzo PEC al curatore e recante il riferimento al procedimento interrotto) a determinare la conoscenza legale della pendenza del giudizio interrotto a causa del fallimento, precisava che nessun rilievo, al fine di negare tale riconosciuta idoneità, può assumere il precedente di Cass. n. 5650/2013 che ha sì escluso che la conoscenza “legale” possa essere fornita dall'indicazione della pendenza del giudizio nella domanda di ammissione al passivo, ma con riferimento ad un giudizio nel quale tale domanda era stata proposta anteriormente al 2012 (anche se in un fallimento dichiarato dopo il 2006), dunque in ossequio all'art. 93 l. fall., nella versione ratione temporis vigente, che individuava nella cancelleria del tribunale - e non nel curatore - il destinatario della trasmissione della domanda di ammissione al passivo del fallimento.

Inoltre, se da una parte l'istanza di ammissione al passivo produce tutti gli effetti della domanda giudiziale, la cui trasmissione, in via telematica, all'indirizzo di posta certificata comunicato dal curatore costituisce l'unico mezzo per proporla, dall'altra proprio tale modalità di comunicazione è pacificamente equivalente, ai sensi dell'art. 48, commi 1 e 2, D. Lgs. n. 82/2005, alla notificazione a mezzo posta, sicché è idonea, proprio perché rientrante in una di quelle modalità comunicative (dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa assistita da fede privilegiata) di un evento, in mancanza di prova contraria, a dimostrare la conoscenza legale dell'evento medesimo da parte del destinatario (è qui richiamato il precedente di Cass., 15 settembre 2017, n. 21375).

Né persuasivo appariva l'assunto che la domanda di ammissione al passivo, così come la comunicazione del progetto di stato passivo da parte del curatore fallimentare, benché recanti riferimento al giudizio interrotto, nulla specifichino in merito al fallimento che tale interruzione ha determinato, essendo il curatore nominato proprio per effetto della pronuncia del fallimento, che, quindi, non può ignorare.

Per l'effetto, il ricorso proposto dal Fallimento veniva rigettato e la sentenza della Corte d'appello di Milano confermata.

Osservazioni: il valore legale della PEC

L'interruzione automatica del giudizio in caso di fallimento

A norma dell'art. 43, comma 3, l. fall., l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo.

Secondo l'autorevole e pacifico orientamento della giurisprudenza (Trib. Milano, 31 gennaio 2013, n. 1392; Trib. Terni, 21 febbraio 2011; Trib. Monza, 27 novembre 2010, Fall. 2011, 248; Trib. Bari, 14 dicembre 2010, n. 192, in Giur. Merito, 2011, 9, 2137; App. Firenze, 1 ottobre 2010; Trib. Roma, 10 febbraio 2009, in Foro. It., 2009, 9, I, 2534) e della dottrina (Marelli, Comm. Jorio, I, 714; Grossi, La riforma della legge fallimentare, 407; Pajardi, Paluchowsky, 293; M. Ferro, La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova 2014, 613; Ronco S., Gli effetti del fallimento. Gli effetti del fallimento sulla persona del fallito, in Comm. Schiano di Pepe, 139-146; Lo Cascio, Codice commentato del fallimento, 2015, 502-503), il disposto in commento è introduttivo della regola dell'interruzione automatica del giudizio, rilevabile anche d'ufficio dal giudice con dichiarazione dotata di efficacia meramente ricognitiva. L'interruzione opera di diritto sin dalla data della dichiarazione di fallimento e, in deroga alla previsione dell'art. 300 c.p.c., a prescindere dalla dichiarazione resa dal procuratore costituito.

Il processo così interrotto deve essere proseguito ai sensi dell'art. 302 c.p.c. o riassunto ai sensi dell'art. 303 c.p.c. dal curatore, se il fallito era attore, o nei confronti del curatore, se il fallito era convenuto, entro tre mesi dalla data dell'interruzione, pena l'estinzione ai sensi dell'art. 305 c.p.c.

Ora, a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 159/1971, n. 39/1976 e n. 178/1970, è principio consolidato che l'art. 305 c.p.c. vada interpretato nel senso che il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo, interrotto per morte o per impedimento del difensore, decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui lo stesso evento è venuto a conoscenza della parte interessata alla riassunzione, in forma legale, ossia attraverso una dichiarazione, notificazione o certificazione assistita da fede privilegiata, non essendo sufficiente la conoscenza altrimenti acquisita dalla stessa parte (Cass., 16 luglio 2003, n. 11162; Cass., 29 aprile 2003, n. 6654; Cass., 17 gennaio 2002, n. 440; Cass., 12 maggio 1999, n. 4691).

Tale tesi è stata consacrata dalla Corte Suprema nella sentenza n. 5650 del 7 marzo 2013: “(…) con riferimento alla ipotesi dell'interruzione del processo determinata dall'apertura del fallimento ai sensi della l. fall., art. 43, al fine del decorso del termine di riassunzione, non è sufficiente la sola conoscenza da parte del curatore dell'evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento maè necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale il detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare.La conoscenza deve inoltre essere "legale" nel senso sopra chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte; deve cioè essere acquisita non in via di mero fatto ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata.”.

E', quindi, pacifico - e del resto condiviso dalle parti nel giudizio in commento - l'assunto che gli atti assistiti da fede privilegiata siano gli unici idonei a offrire compiuta certezza dell'evento (e del processo sul quale esso è destinato a spiegare l'effetto interruttivo).

Il punto controverso della contesa che la Cassazione è stata chiamata a dirimere è se l'istanza di ammissione al passivo obbligatoriamente trasmessa a mezzo PEC ex art. 93, comma 2, l. fall. e il progetto di stato passivo predisposto dal curatore e con il quale il curatore ha rassegnato le sue motivate conclusioni (e parimenti trasmesso a mezzo PEC) siano annoverabili nel complesso di quelle "dichiarazioni, certificazioni e notificazioni assistite da fede privilegiata" alle quali la Suprema Corte ha riconosciuto l'idoneità a offrire compiuta conoscenza legale ai fini del decorso del termine per la riassunzione.

La tesi del Fallimento

Il Fallimento P., se per un verso ha negato che l'istanza di insinuazione al passivo fallimentare possa dare compiuta certezza di un processo e possa rappresentare atto assistito da fede privilegiata, per altro verso non ha spiegato il motivo alla base di tale diniego limitandosi a riferire che la Suprema Corte, nella nota sentenza n. 5650 del 7 marzo 2013, avrebbe escluso la rilevanza dell'istanza di ammissione al passivo stabilendone la inidoneità a far decorrere il termine trimestrale per la riassunzione.

In effetti, nella pronuncia n. 5650/2013 citata, la Cassazione era stata investita del giudizio su una fattispecie similare a quella in analisi. In essa la Corte d'appello di Napoli, richiamata la documentazione prodotta dall'appellata (consistente nella sentenza dichiarativa di fallimento dell'appellante, nell'avviso ex art. 92 l.fall. inviato dal curatore in ordine alla data fissata per l'adunanza dei creditori e nell'istanza di ammissione al passivo depositata dalla stessa appellata), aveva ritenuto che ai fini della riassunzione del procedimento interrotto il termine semestrale di cui all'art. 305 c.p.c., in coerenza con la indicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 139 del 1967, iniziasse a decorrere dal momento della conoscenza legale dell'evento interruttivo in capo alla parte interessata alla riassunzione e quindi, nel caso di specie, dell'appellante; esso pertanto decorreva “se non dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento - 23.7.2007 - certamente dal 6 agosto 2007 (comunicazione dell'intervenuta dichiarazione di fallimento dell'I.C.D.S. s.r.l. con la quale il curatore avvisava l'appellato che l'adunanza dei creditori per la formazione dello stato passivo si sarebbe tenuta il 7.11.2007) o, a tutto voler concedere, dal 4/5.10.2007 (istanza di ammissione al passivo per gli importi dovuti in forza della sentenza n. 185 /2004 del Tribunale di Benevento)”. In base a tale rilievo i giudici di appello avevano ritenuto che alla data del deposito del ricorso in riassunzione - in quella fattispecie, il 16 luglio 2009 - il termine semestrale stabilito dall'art. 305 c.p.c. per la riassunzione fosse ormai decorso e il giudizio, pertanto, estinto.

Ebbene, indubbiamente vero è che con la citata sentenza n. 5650/2013 la Corte Suprema aveva accolto il ricorso formulato dalla società fallita cassando la decisione della Corte d'appello sul presupposto della “(…) la inidoneità, degli atti presi in considerazione dai giudici di appello al fine del decorso del termine per la riassunzione, perché non configuranti una forma di conoscenza legale nei termini sopra indicati. La parte appellata che ne era onerata (avendo eccepito la tardività della riassunzione), non ha offerto prova della legale conoscenza dell'evento da parte della Curatela fallimentare in data anteriore al semestre precedente il deposito del ricorso in riassunzione. Ne deriva che in mancanza di prova di notificazioni provenienti dalla controparte, il primo atto idoneo a determinare il decorso del termine per la riassunzione è la dichiarazione resa dal difensore della parte appellata all'udienza del 16.1.2008, in base alla quale la Corte territoriale emetteva ordinanza di interruzione del giudizio”. Tuttavia, a un esame attento del provvedimento, risulta che, nella fattispecie al vaglio del Supremo Collegio nel 2013, l'istanza di ammissione al passivo prodotta dalla società appellata e dalla quale, "a tutto voler concedere", sarebbe decorso il termine (allora semestrale) di cui all'art. 305 c.p.c., era stata depositata il 4/5.10.2007, nel rispetto dell'art. 93 l. fall. ratione temporis vigente, a mente del quale “La domanda di ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili e immobili, si propone con ricorso da depositare pressola cancelleria del tribunale almeno trenta giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo. (…)”.

Si trattava, quindi, di una modalità di trasmissione ben diversa dell'inoltro a mezzo PEC. Mentre, infatti, nel 2007 il deposito dell'insinuazione presso la cancelleria del tribunale non poteva garantire che il curatore ne avesse conoscenza immediata, dovendosi verificare e attendere la comunicazione della cancelleria al curatore ovvero che il curatore medesimo accedesse al fascicolo della procedura fallimentare, nell'attuale regime il curatore è messo nella condizione di avere conoscenza immediata del contenuto della domanda di insinuazione allo stato passivo, essendo l'inoltro a mezzo PEC della medesima l'unica modalità di “deposito” contemplata dall'art. 93 l. fall.

Inoltre, dalla lettura della sentenza n. 5650/2013 invocata dal Fallimento P. si deduce:

a) la inidoneità degli atti presi in considerazione dalla Corte d'appello di Napoli al fine del decorso del termine per la riassunzione, perché non configuranti una forma di conoscenza legale;

b) che la parte appellata che ne era onerata (avendo eccepito la tardività della riassunzione) non aveva offerto prova della legale conoscenza dell'evento da parte della curatela fallimentare in data anteriore al semestre precedente il deposito del ricorso in riassunzione;

c) che in mancanza di prova di notificazioni provenienti dalla controparte, il primo atto idoneo a determinare il decorso del termine per la riassunzione è l'ordinanza di interruzione del giudizio.

Ebbene, non è dato sapere, perché non si deduce dal testo della pronuncia de qua:

(i) con quali modalità e tempistiche l'istanza di ammissione al passivo fallimentare fosse stata inoltrata al curatore del fallimento appellante; come detto, invero, allora l'istanza di ammissione al passivo si depositava in cancelleria;

(ii) se e in che termini detta istanza di ammissione fosse rappresentativa dell'evento destinato a interrompersi per effetto del dichiarato fallimento (quindi, se la società creditrice istante avesse non solo reso edotto il curatore della pendenza del giudizio ma altresì offerto prova di esso mediante allegazione degli atti di causa), tanto ciò è vero che la Cassazione fa questione di "inidoneità degli atti presi in considerazione dalla Corte d'appello" e di "mancanza di prova della conoscenza legale".

Ciò che ragionevolmente se ne deduce, allora, non è l'inidoneità di qualunque istanza di ammissione al passivo fallimentare in astratto a far decorrere il termine ex art. 305 c.p.c. per la riassunzione bensì di quella specifica presa in considerazione dalla Corte d'appello di Napoli nella fattispecie descritta, ciò evidentemente in ragione dei fatti in essa rappresentati, delle modalità di trasmissione, del contesto temporale di efficacia della normativa fallimentare e di tutte le variabili occorse nella fattispecie che sfuggono al dominio del lettore. Tanto ciò è vero che la Suprema Corte conclude rilevando la "mancanza di prova di notificazioni provenienti dalla controparte" (notificazioni che, nella fattispecie al vaglio nel 2018, invece sussistevano).

Le regole di funzionamento e il valore legale riconosciuto dalla normativa alle istanze trasmesse a mezzo PEC

La conoscenza legale viene realizzata con l'osservanza delle modalità di trasmissione e notifica prescritte dalla legge in ogni forma di notificazione, quale, nel caso dell'insinuazione al passivo, la trasmissione a mezzo PEC della domanda.

Venendo alla questio iuris centrale del giudizio, l'istanza di insinuazione al passivo del fallimento concreta, a tutti gli effetti, un'azione di accertamento nel contesto del procedimento fallimentare in corso, obbligando dapprima il curatore a redigere, inoltrare ai creditori e depositare in cancelleria il progetto di stato passivo e, poi, il giudice delegato a pronunciarsi sui termini della domanda. E', quindi, una domanda giudiziale da proporsi, a norma dell'art. 93, comma 1 e 2, l. fall., mediante ricorso trasmesso obbligatoriamente all'indirizzo di posta elettronica certificata del Fallimento, cui ha accesso, per legge, solo il curatore.

L'art. 93 l. fall. ammette forme di notificazione diverse da quelle ordinarie e tipiche del giudizio a cognizione piena; si tratta, in ogni caso, di un procedimento di notificazione garante del diritto di difesa, del principio del contraddittorio e dell'esigenza che le forme trovino corrispondenza nello scopo dell'atto, ciò attraverso l'osservanza di formalità idonee a garantire la conoscenza legale dell'atto e un grado di certezza non inferiore a quello offerto dai procedimenti ordinari, quali, per le notifiche a mezzo posta, l'avviso di ricevimento.

Ed infatti, la fattispecie procedimentale di cui al citato art. 93 l. fall. si perfeziona con il ricevimento della PEC, che segna il momento da cui decorrono gli effetti del deposito (notificazione) della domanda di insinuazione.

Non sembra, a chi scrive, ragionevole e corretta la tesi del Fallimento P. secondo la quale l'istanza di ammissione al passivo notificata secondo le modalità prescritte dalla legge e, come meglio si illustrerà a breve, atte a conferire valore legale al documento che la incorpora, sarebbe inidonea a garantire la legale conoscenza dei fatti rappresentati in capo al ricevente. E, infatti:

(i) il diritto e la giurisprudenza nulla esigono in ordine alla provenienza dell'atto con il quale il destinatario debba essere portato a conoscenza della pendenza del giudizio specificando, semmai, quali debbano essere le modalità di comunicazione di detto evento (dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento assistita da fede privilegiata);

(ii) la trasmissione a mezzo PEC dell'istanza di ammissione al passivo del fallimento fa sì che il processo comunicativo sia espletato secondo modalità atte a garantire, con certezza, l'acquisizione della notizia da parte del ricevente (l'invio a mezzo PEC è basato su un sistema di attestazioni atto ad assicurare la non alterabilità dei messaggi e dei documenti che con essa sono trasmessi, donde il pieno valore legale riconosciuto dalla legge e l'opponibilità ai terzi delle ricevute generate dal gestore);

(iii) ciò che conferisce certezza alla notizia della pendenza del procedimento contenuta nell'istanza di ammissione al passivo non è tanto l'atto in sé quanto la modalità di comunicazione dell'evento (i.e. messaggio PEC), contemplato dalla normativa (art. 93 l. fall., appunto) quale unico mezzo idoneo ad assicurare conoscenza legale della domanda di insinuazione e dei documenti alla medesima allegati.

Orbene, la PEC è uno strumento atto a conferire, al messaggio che incorpora, lo stesso valore legale di una raccomandata con avviso di ricevimento tradizionale (art. 48 D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 - Codice dell'Amministrazione Digitale). Ai fini legali, il messaggio si considera consegnato al destinatario quando è stato depositato nella sua casella di posta senza che a ciò sia necessaria l'effettiva lettura dello stesso da parte del destinatario. La procedura è assimilabile a quella della raccomandata tradizionale consegnata in busta chiusa, che si considera ricevuta anche se chi la riceve, per esempio, dimentica o trascura di aprirla.

Rispetto alla normale posta elettronica (ordinaria), se entrambi gli utenti hanno un indirizzo di PEC, il mittente alla consegna del messaggio riceve una attestazione di avvenuta consegna con valore legale. Ciò perché la PEC, al pari della lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, prevede un sistema di attestazioni aventi a oggetto l'invio e la consegna dei messaggi a opera di soggetti terzi (gestori del servizio) e assicura la non alterabilità dei messaggi e dei documenti che con essa vengono trasmessi.

A differenza della tradizionale posta elettronica, quindi, alla PEC è riconosciuto pieno valore legale e le ricevute possono essere usate come prove dell'invio, della ricezione e anche del contenuto del messaggio inviato. Le principali informazioni riguardanti la trasmissione e la consegna vengono conservate per 30 mesi dal gestore e sono anch'esse opponibili a terzi.

La Posta Elettronica Certificata è, non a caso, definita, dall'art. 1, lett. V - bis del D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell'Amministrazione Digitale), come il "sistema di comunicazione in grado di attestare l'invio e l'avvenuta consegna di un messaggio di posta elettronica e di fornire ricevute opponibili ai terzi".

Ciò è stato confermato anche dalla giurisprudenza: "Il sistema di notifica a mezzo posta elettronica certificata (p.e.c.) consente di inviare e-mail con valore legale equiparato a una raccomandata con ricevuta di ritorno, come stabilito dal d.P.R. n. 68 del 2005 e in ogni avviso risulta apposto un riferimento temporale che certifica la data e l'ora della operazione. Il Codice della amministrazione digitale (c.a.d.), di cui al d.lgs. n. 82/2005, ha sancito che tra due indirizzi p.e.c. è possibile scambiare documenti con le pubbliche amministrazioni, a mezzo di un sistema che fornisce ricevute opponibili ai terzi e il Centro nazionale per l'informatica nella p.a. (C.n.i.p.a.) ha confermato che l'invio e la ricezione di un messaggio PEC ha valore legale se avvenuto tra PEC sia del mittente, che del destinatario. Il d.l. 29 dicembre 2009 n. 193, in vigore dal 31 dicembre 2009, ha introdotto l'art. 149 bis c.p.c. che ha equiparato le notificazioni a mezzo p.e.c. a quelle eseguite a mezzo posta, facendo salve le sole eccezioni previste dalla legge tra le quali non vi è il processo tributario. Dal principio di libertà delle forme della notifica deriva che tutte le forme degli atti del processo sono previste non per la realizzazione di un fine proprio e autonomo, ma allo scopo del raggiungimento di un certo risultato con la conseguenza che l'eventuale inosservanza della prescrizione formale è irrilevante se l'atto viziato raggiunge ugualmente lo scopo cui era destinato. Pertanto, si può ritenere che il ricorso presentato a mezzo del servizio postale o a mezzo posta elettronica certificata non vada a pregiudicare le esigenze di controllo, ma semmai possa rispondere a esigenze di maggiore certezza, tanto da poter essere utilizzato per le notificazioni" (Comm. Trib. Prov. Brescia, 16 ottobre 2012, n. 121; in termini analoghi T.A.R. Milano, 3 dicembre 2013, n. 2677)..

L'art. 17 del D.L. 18 ottobre 2012 n. 179 (cd. Decreto sviluppo bis convertito in legge dalla L. 17 dicembre 2012 n. 221) ha operato l'introduzione del processo civile telematico nell'ambito di tutte le procedure concorsuali dichiarate dopo il 19 dicembre 2012, modificando in ampia parte la legge fallimentare. È stato, così, modificato significativamente l'art. 93, non tanto nel co. 1 – dove si introduce il concetto di “trasmissione” dell'insinuazione, in luogo di quello di “deposito” – quanto nel correlato co. 2, ove si stabilisce che il ricorso per l'ammissione allo stato passivo è trasmesso, almeno 30 giorni prima dell'udienza fissata per l'esame dello stato passivo, all'indirizzo di posta elettronica certificata del curatore, così come indicato nel suddetto avviso di cui all'art. 92 l. fall., unitamente ai documenti dimostrativi del diritto del creditore o del terzo che chiede la restituzione o rivendica il bene.

Nemmeno convincente è l'opinione, tra l'altro fatta propria anche dal Fallimento P., che trae ragione di inidoneità dell'istanza di ammissione al passivo a far decorrere il dies a quo del termine trimestrale di riassunzione dalla circostanza che detta istanza non persegua la specifica finalità informativa mirata alla decorrenza del termine per la riassunzione del giudizio interrotto.

Viene, infatti, da opporre che tale specifica finalità informativa non è espressamente contemplata dalla normativa (art. 43, comma 3, l. fall. e art. 305 c.p.c.) né richiamata o indicata come imprescindibile dalla pregressa giurisprudenza della Suprema Corte. Peraltro, nella fattispecie viene da rilevare che la stretta connessione corrente tra l'istanza di ammissione al passivo di P. e la pendenza del giudizio in essa rappresentato, che aveva la specifica ragione e finalità di giustificare la domanda di ammissione con riserva e in via condizionale ex art. 96, comma 2, n. 3, l. fall. dei crediti di B.S., il cui accertamento era, al momento della trasmissione, ancora sub iudice.

Non è, del resto, chiara la ragione per la quale sulla parte appellata/resistente debba gravare l'onere di asservire l'eventuale comunicazione/dichiarazione resa alla controparte e comportante il decorso del termine per la riassunzione a tale specifica finalità. Né pare che detta comunicazione, istanza o dichiarazione debba specificare l'effetto che dalla sua ricezione consegue (e, quindi, indicare che ne decorrerà il termine di tre mesi indicato dall'art. 305 c.p.c., pena l'estinzione del giudizio), come se fosse fatto onere (o addirittura obbligo) processuale alle parti di darsi reciproca informazione in ordine alle decadenze e preclusioni processuali nelle quali rischiano di incorrere.

Ritiene l'autrice che, poiché nel sistema processuale vigente la legge lascia alle parti la auto-responsabilità della condotta tecnica nel processo, tanto più ci si potrà giovare dei rimedi offerti dall'ordinamento quanto più si userà vigilanza, sollecitudine e scaltrezza.

Il Progetto di Stato Passivo trasmesso a mezzo PEC

Secondo la tesi propugnata dal Fallimento P., neppure era da ritenersi idonea a far decorrere il termine trimestrale per la riassunzione la comunicazione con la quale il Curatore, nel rispetto dell'art. 95, comma 2, l. fall., il 24 novembre 2014, aveva trasmesso a mezzo PEC a B.S. il progetto di stato passivo fallimentare e nella quale egli aveva fatto più volte riferimento al "giudizio pendente" innanzi alla Corte d'appello.

Ma la tesi non sembra condivisibile. Secondo il disposto dell'art. 30 l. fall., il curatore, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale. Ora, il progetto di stato passivo - così come, in genere, le relazioni e gli atti redatti dal curatore - costituisce atto pubblico ed è assistito da fede privilegiata. Ai sensi dell'art. 2700 c.c., infatti, l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.

Ma si deve anche ritenere che, ancor prima dell'invio del progetto di stato passivo fallimentare, il curatore aveva inviato l'avviso ai sensi dell'art. 92 l. fall. a B.S. avendo tratto ragione della sua posizione giuridica dalle scritture contabili della Fallita, che come di legge aveva dovuto registrare la soccombenza nel giudizio arbitrale, ancorché non definitiva, o direttamente dalla sentenza rinvenuta nella documentazione aziendale (ciò, peraltro, in considerazione dell'ingente ammontare degli importi oggetto del debito). Escluso che B.S. fosse altrimenti creditore, se ne deve dedurre che già alla data dell'invio dell'avviso ex art. 92 l. fall. il curatore del Fallimento fosse a conoscenza del giudizio pendente.

Al riguardo vengono in soccorso due precedenti della giurisprudenza di merito. Da una parte, Trib. Brescia, 8 gennaio 2013, in Dir. fallim., 2014, II, 241, che ha individuato il dies a quo del termine per la riassunzione nella data di ricezione della comunicazione ex art. 92 l. fall., confermata da dichiarazione confessoria della parte nel verbale d'udienza. Dall'altra, Trib. Bologna, 18 dicembre 2014, che ha parimenti ritenuto: "può attribuirsi alla comunicazione fatta dal curatore a mezzo PEC ad uno dei procuratori di ALFA S.p.a. il valore di conoscenza legale richiesto dal suddetto orientamento".

Alla luce dei citati orientamenti, la piena prova di atti idonei a garantire la conoscenza legale della pendenza del procedimento interrotto da parte del Curatore finanche prima del 24 novembre 2014 e, pertanto, prima della dichiarazione in giudizio dell'evento medesimo (2 dicembre 2014), doveva ritenersi pienamente integrata. Ciò, in particolare, alla luce:

(i) della domanda di insinuazione al passivo trasmessa a mezzo PEC in data 6/11/2014, con i relativi rapporti di accettazione, invio e ricezione generati dal gestore del servizio;

(ii) delle relazioni ex art. 172 l. fall. trasmesse a mezzo PEC dal curatore, che provavano che il medesimo aveva ricoperto anche la carica di Commissario Giudiziale del Concordato Preventivo P., ciò anche all'epoca del conferimento della procura ai fini dell'impugnazione per nullità del lodo arbitrale;

(iii) dall'avviso ai sensi dell'art. 92 l. fall. inviato in data 10/7/2014 a mezzo PEC dal curatore a B.S., creditrice di P., esclusivamente in ragione dei crediti accertati nel lodo;

(iv) dalla comunicazione con la quale il curatore, nel rispetto dell'art. 95, comma 2, l. fall., il 24/11/2014, aveva trasmesso, a mezzo PEC, a B.S. il progetto di stato passivo fallimentare e nel quale era fatto più volte riferimento al "giudizio pendente" innanzi alla Corte d'appello, a giustificazione dell'ammissione dei crediti con riserva e in via condizionale ex art. 96, comma 2, n. 3, l. fall.;

(v) dalle scritture contabili della Fallita, che come di legge aveva dovuto registrare la soccombenza nel giudizio arbitrale, ancorché non definitiva, o comunque indicato la pendenza del contenzioso nei bilanci di esercizio relativi alle annualità 2011, 2012, 2013 e 2014;

(vi) dalla sentenza rinvenuta nella documentazione aziendale (o consegnata dagli amministratori) successivamente alla dichiarazione di fallimento;

(vii) dalla stessa dichiarazione di fallimento.

Vale anche la pena osservare che, spingendosi ben oltre, alcune corti di merito hanno ritenuto, addirittura, che per il curatore il termine di riassunzione debba decorrere - in ogni caso - dalla dichiarazione di fallimento (Trib. Milano, 26 maggio 2014, in Foro It. 2014, I, 2979; T.A.R. L'Aquila, 8 giugno 2013, n. 545, DFSC 2014, II, 243; BONFATTI-CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova 2007, 116; MARELLI, Comm. all'art. 43, in Comm. Jorio, Bologna 2006, 714; Trib. Roma, 6 febbraio 2011, 978; Trib. Venezia, 5 febbraio 2013). Si è ritenuto, in tal senso, che la mancata conoscenza incolpevole da parte del curatore dell'esistenza di una causa pendente non determina un diverso decorso del termine di riassunzione (Trib. Roma, 30 giugno 2009).

A tal riguardo val la pena ricordare quanto puntualizzato da Trib. Milano, 26 maggio 2014, in Foro It. 2014, I, 2979,: "(…) deve ritenersi che in tal caso il termine per la riassunzione del processo decorra, per il fallimento, dalla data del verificarsi dell'evento interruttivo, e quindi dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento (…) quel che rileva ai fini della decorrenza del termine in questione, anche alla luce dei principî del giusto processo e della sua ragionevole durata sanciti dall'art. 111, 1° e 2° comma, Cost., può e deve essere la conoscenza (legale) dell'evento interruttivo verificatosi (…), ma non certo anche quella dell'esistenza del processo interrotto (di diritto) per effetto del fallimento della parte, spettando al curatore, una volta nominato, attivarsi prontamente per acquisirne conoscenza in tempo utile per la riassunzione, ove ciò risponda all'interesse del fallimento ".

Si rifletta, in effetti, che il curatore è tenuto ad adempiere ai propri doveri con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico, come qualsiasi pubblico ufficiale.Sul curatore incombono, in ragione del delicatissimo compito assegnatogli, ingenti responsabilità che egli non può e non deve trascurare, come del resto ciò vale per ogni professionista incaricato della tutela degli interessi altrui. La mancata conoscenza di una causa pendente alla data della dichiarazione di fallimento parrebbe, in altre parole, pur sempre ascrivibile a una condotta quando non colposa certamente poco avveduta. Ciò perché grava sul Curatore un dovere di diligenza che gli impone, proprio in ragione dell'automatico effetto interruttivo di tutti i giudizi pendenti sancito dall'art. 43, comma 3, l. fall., di accertare se e quali siano le controversie che vedono coinvolto l'imprenditore al momento del suo fallimento.

Conclusioni

Il messaggio PEC garantisce con valore legale la identità del mittente, la integrità del messaggio e degli allegati, nonché la data e l'ora di spedizione e si ha per consegnato nel momento in cui viene messo a disposizione del destinatario, indipendentemente dal fatto che questi ne prenda effettiva conoscenza.

Ebbene, nella fattispecie, come riconosciuto anche dal Fallimento, in data 6 novembre 2014, B.S. aveva trasmesso a mezzo PEC al curatore del Fallimento P. la domanda di ammissione al passivo, in essa dando nota della pendenza del giudizio per impugnazione del lodo arbitrale ex art. 829 c.p.c., del numero di ruolo assegnato e del giudice incaricato della controversia e allegando copia degli atti defensionali delle parti. E', pertanto, in tale data che il curatore del Fallimento aveva acquisito conoscenza effettiva e legale della pendenza del giudizio di impugnazione del lodo ed è da tale data che, in osservanza delle disposizione di procedura e della nota giurisprudenza costituzionale, doveva ritenersi decorrente il termine perentorio di tre mesi utile alla riassunzione del giudizio.

Il ricorso in riassunzione, dunque, alla luce della sopra ripercorsa giurisprudenza, era tardivo e legittima pare a chi scrive l'ordinanza della Corte Territoriale, che ne ha fatto conseguire la declaratoria di estinzione del giudizio.

La pronuncia in commento interviene a chiarire, si potrebbe dire definitivamente, dopo l'arresto di Cass. 15 settembre 2017, n. 21375, non soltanto il valore legale da riconoscersi al documento trasmesso via PEC, ma anche l'idoneità dell'istanza di ammissione al passivo trasmessa al curatore a far decorrere il termine di riassunzione del processo interrotto a causa del fallimento sin dalla data del suo invio (sia ben inteso, sempre a condizione che tale istanza rechi un riferimento puntuale al procedimento dichiarato interrotto) e, pertanto, ad integrare quella “dichiarazione, notificazione o certificazione assistita da fede privilegiata” che sola può fornire la conoscenza legale dell'evento interruttivo.

La soluzione offerta dalla Cassazione ha, peraltro, il pregio di dimostrarsi coerente con le posizioni affermate dalle corti di merito e dalla Cassazione stessa nei precedenti arresti nonché perfettamente in linea con la recente riforma legislativa che ha riconosciuto alla PEC il pieno valore legale della lettera raccomandata cartacea.

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