Enti di Terzo settore. La difficile coesistenza tra attività commerciali e non commerciali

Giuseppe Rivetti
24 Agosto 2018

La corretta coesistenza tra attività istituzionali e attività commerciali degli enti di Terzo settore, rappresenta il punto di svolta dell'intera riforma.La problematica risulta essere particolarmente complessa e le scelte legislative, seppur orientate verso un allineamento con i principi comunitari, rischiano di incidere negativamente sulle prospettive di crescita dell'intero settore. Considerare la natura non commerciale delle attività di interesse generale (art. 5, Codice del Terzo settore) solo quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superino i costi effettivi, non appare funzionale per lo sviluppo degli enti in esame. Enti per i quali è necessario prevenire pratiche evasive o elusive senza, comunque, incidere sulle modalità di svolgimento delle attività di interesse generale, nell'ambito dei sistemi di welfare state.
Enti di Terzo settore. Soggettività tributaria

Il Terzo settore viene (ri)qualificato come il complesso «degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» che, «in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi».

Il profilo problematico prevalente, nelle nuove applicazioni giuridiche, è rappresentato dal rapporto tra attività commerciali e attività istituzionali degli enti di Terzo settore. Del resto, “non commercialità” e “assenza di scopo di lucro” sono concetti differenti, spesso confusi, rispetto ai quali non risulta agevole, sul piano giuridico, individuare un corretto punto di equilibrio. Una delle cause va ricercata nella mancata armonizzazione di ciò che può essere considerato commerciale e non commerciale, ai fini delle diverse imposte. Sul punto, il legislatore interviene con una disciplina di dettaglio il cui obiettivo evidente è quello di allinearsi con la normativa dell'Unione europea di settore (anche alla luce di recenti orientamenti giurisprudenziali nazionali - Cons. di Stato, 28 gennaio 2016, n. 292).

In particolare, l'art. 79 del D.lgs. n. 117/2017 - Codice del Terzo settore - emanato al fine di revisionare organicamente e riordinarela normativa degli enti di Terzo settore (ETS), delinea specifici criteri per determinare la natura commerciale o non commerciale degli enti in esame.

Il legislatore delegato riconosce la natura non commerciale agli enti “che svolgono in via esclusiva o prevalente le attività di interesse generale”, indicate nell'art. 5, norma cit. Inoltre, specifica che le attività di interesse generale si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superino i costi effettivi (art. 79, comma 2, norma cit.).

Si prevede un differente regime per gli enti che svolgono le attività di interesse generale con modalità commerciali, ed enti che non esercitano ˗ o esercitano solo marginalmente ˗ attività di impresa. Tutto ciò al fine di superare le problematiche derivanti dalla difficile coesistenza tra un modello generale di imposta sul reddito delle società e molteplici discipline speciali.

Sulla base dei richiamati presupposti, si considerano “non commerciali” solo gli enti che svolgono il servizio senza corrispettivo, vale a dire a titolo gratuito, o dietro versamento di un emolumento solo simbolico, o comunque di un corrispettivo tale da coprire il costo effettivo del servizio.

A questo punto, per riempire di contenuti il concetto di “servizio senza fini di lucro”, appare necessario richiamare la Decisione della Commissione europea, 19 dicembre 2012, n. 2013/284/UE, in materia di aiuti di Stato, con la quale è stato chiarito che non la distribuzione di eventuali avanzi di gestione tra i soci ovvero il reinvestimento nell'attività istituzionale, non escludono la natura economica dell'attività. Per cui solo in presenza di un servizio offerto gratuitamente o quasi gratuitamente, si può configurare una attività non commerciale. Diversamente, il vantaggio selettivo, concesso ad alcune imprese operanti nel settore, costituirebbe aiuto di Stato.

Applicazioni giuridiche. Rapporti tra attività commerciale e non commerciale, alla luce dei principi comunitari

In apparente contraddizione con le richiamate disposizioni risultano, a mio avviso, i principi che in ambito europeo regolano i rapporti con gli enti senza scopo di lucro.

Non a caso, le stesse istituzioni comunitarie, a più riprese hanno sottolineato la «necessità di promuovere le associazioni e le fondazioni no profit, che rivestono un ruolo importante in ogni campo dell'attività sociale».

Per questo l'Unione europea e gli Stati membri si sono impegnati a provvedere al riconoscimento dell'economia sociale e dei soggetti di Terzo settore, attraverso misure che consentano sgravi fiscali e l'accesso agevolato al credito, al fine di uscire da una dannosa e inevitabile logica di assistenzialismo di Stato (v. Risoluzione del Parlamento europeo n. 2008/2250, 19 febbraio 2009, Sull'economia sociale).

La modalità economica non dovrebbe, quindi, essere sovrapposta con quella commerciale. Non si può, infatti, negare la possibilità all'ente di organizzarsi in modo imprenditoriale/economico, per lo svolgimento delle proprie attività istituzionali (e di conseguire risorse finanziarie). Inoltre, ai fini, dell'inquadramento dei servizi di interesse economico generale in ambito UE, deve registrarsi la difficoltà di isolare dal genus «servizi di interesse generale», quei servizi che hanno una rilevanza economica.

Di conseguenza, l'Unione europea, nel rispetto del principio di sussidiarietà, ha sempre scelto di attribuire agli Stati membri la libertà di individuare tali servizi (riservandosi la possibilità di intervenire soloin caso di errore manifesto).

In termini di maggiore sistematicità, la scelta di adottare una nozione funzionale di impresa, incentrata sullo svolgimento di attività economica, anziché sulle caratteristiche del soggetto prestatore, identifica la linea di confine rilevante per l'applicazione della disciplina della concorrenza. In tale ambito, è possibile escluderla per gli enti che svolgono attività sociali prive di una correlata attività commerciale.

Tali criteri possono applicarsi, quindi, anche agli enti che erogando dietro corrispettivo prestazioni assistenziali realizzino utili di gestione, laddove questi utili vengano destinati – secondo quanto stabilito dallo statuto dell'ente stesso – al soddisfacimento dei fini istituzionali.

Al riguardo occorre, comunque, sottolineare la differenza tra «avanzi di gestione», i quali non costituiscono «profitto», bensì eventuale superamento tra le «entrate» e le «uscite» e «fine di lucro». L'utile di gestione costituisce, infatti, non il fine dell'associazione, ma il mezzo per il conseguimento delle finalità istituzionali dell'ente, complessivamente considerato.

La presenza di utili evidenzia una variabile economica e non commerciale (no-distribution constraint), rappresentativa del buon andamento gestionale dell'ente.

A differenza del comune imprenditore, il quale è libero di destinare i profitti della sua attività economica a propria discrezione, l'ente non lucrativo risulta obbligato ad impiegare tali «profitti» gestionali alla realizzazione delle finalità istituzionali.

Considerazioni conclusive

Attribuire soltanto alla “gratuità” oppure alla “quasi gratuità” del servizio una rilevanza prevalente, ai fini della determinazione dell'assenza di scopi lucrativi, ci porta a considerare, paradossalmente, che solo gli enti in perdita o destinati a gestioni fallimentari, potranno essere annoverati tra gli enti di Terzo settore.

Sul piano sistematico, i Trattati non contemplano una specifica competenza dell'Unione europea in materia di enti non profit, in ragione del principio di attribuzione (art. 5 TUE).

Pertanto, rientra nella competenza dei singoli Stati membri decidere come promuovere e attraverso quali iniziative incentivanti, le attività degli enti di Terzo settore, secondo una tradizionale scelta di policy giustificata dallo stretto collegamento tra attività degli enti non profit e sistemi nazionali di welfare.

(Fonte: ilTributario.it)

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