Le quattro sentenze rese dalle Sezioni Unite in materia di compensatio lucri cum damno aderiscono ad un modello – quello della “giustizia del beneficio” – vicino, se non sovrapponibile, al paradigma tradizionale. Il “modello riformatore”, dunque, non ha prevalso. Diverse questioni, però, rimangono sul tavolo ed il dibattitto sul tema rimane aperto.
Le quattro sentenze delle SS.UU.: i due “blocchi” contrapposti
Dopo una certa qual attesa il 22 maggio 2018 sono intervenute le quattro sentenze delle Sezioni Unite (nn. 12564, 12565, 12566 e 12567) che - lo si sperava - avrebbero dovuto dipanare i contrasti correnti sul complesso tema della compensatio lucri cum damno e, soprattutto, fornire chiarimenti in ordine a svariati dubbi sulla categoria in questione e le sue regole.
Possiamo ritenerci soddisfatti delle risposte fornite dalle Sezioni Unite?
Purtroppo il giudizio, nel suo complesso, non può essere positivo, soprattutto in relazione ai casi di danni alla persona e da uccisione (per un giudizio pure perplesso cfr., altresì, R. PARDOLESI, «Compensatio», cumulo e «second best», in Foro It., I, 2018, 1935-1941).
Al centro della presente critica si pone la distinzione fra due blocchi che, in una visione d'insieme, compongono le quattro sentenze: un primo blocco - costituito dalla “parte generale” comune a tutte le pronunce in disamina, centrata sull'idea della “giustizia del beneficio”, e dalla “parte speciale” di cui alla sentenza n. 12564 (intervenuta a sancire la non deducibilità della pensione di reversibilità) - è senz'altro apprezzabile sotto diversi profili, sicuramente sul piano dei concetti generali a livello di giustizia sostanziale e della coerenza dei ragionamenti; sennonché a questo blocco (il primo che si rinviene leggendo le sentenze in ordine di deposito) si contrappone nettamente, innanzitutto sul piano teorico/ideologico, un secondo blocco, quello sostanziato dalle “parti speciali” delle sentenze nn. 12565, 12566 e 12567, che, invece, è connotato da significative storture e profonde inesattezze, dunque tale da non poter essere accolto in primis proprio in ragione dei principi delineati molto chiaramente in seno al primo blocco, oltre che per svariati altri motivi.
Il conflitto interno corrente fra questi due blocchi non giova agli interpreti e costituisce già di per sé un valido motivo per esprimere un giudizio critico del poker di pronunce in esame e, comunque, per ritenere questo intervento delle Sezioni Unite lungi dall'essere risolutivo delle contese in materia.
In questa sede siffatte conclusioni non potranno che trovare soltanto succinte e parziali giustificazioni.
Il modello tradizionale
Quali modelli di gestione dei “benefici collaterali” nella r.c. erano in discussione avanti le Sezioni Unite ultime?
Invero, anche nel nostro ordinamento i modelli proposti sono tantissimi e variegati fra loro; nondimeno, pur con una certa quale approssimazione può affermarsi come in gioco avanti le Sezioni Unite fossero essenzialmente due paradigmi, quello “tradizionale” e quello “riformatore”.
In particolare, il modello posto sotto assedio da parte delle ordinanze interlocutorie di rinvio del 22 giugno 2017 (Cass. civ., n. 15534/2017; Cass. civ., n. 15535/2017; Cass. civ., n. 15536/2017 e Cass. civ., n. 15537/2017, quest'ultima con relatore Marco Rossetti) e già in precedenza dalle “pronunce Rossetti” (Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233 e Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537) era quello recato dall'orientamentotradizionale (perdurato per quasi un secolo!) e di gran lunga maggioritario ancora al momento del suo approdo al giudizio delle Sezioni Unite.
Questo modello era chiarissimo e non lasciava spazi a particolari dilemmi per l'individuazione delle soluzioni da applicarsi a livello pratico: infatti, secondo esso, poiché ai fini dell'operatività del principio della compensatio lucri cum damno (ossia di defalchi) è necessario che il vantaggio economico sia arrecato direttamente dal medesimo fatto concreto che ha prodotto il danno, «dall'importo liquidato a titolo di risarcimento del danno alla persona (patrimoniale o biologico) – così la Suprema Corte in plurime decisioni (cfr., per es., Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2005, n. 17764 e Cass. civ., sez. III, 18 novembre 1997, n. 11440) - non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, oppure a titolo di assegni, di equo indennizzo, o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte od all'invalidità» (indennizzi da polizze infortuni compresi), tolti i casi di conseguimento, da parte del danneggiato, di una posta positiva direttamente scaturita dalla stessa condotta lesiva (illecito o inadempimento) o proveniente dal danneggiante, con finalità risarcitorie per quello specifico evento, nel contesto di una “unicità del rapporto obbligatorio” (questa, per es., la fattispecie affrontata dal Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n. 1), oppure di intervento del terzo in vece del responsabile civile o, ancora, di specifiche previsioni legislative recanti azioni di surrogazione, di regresso o, comunque, di “rivalsa” o “recupero”.
A ben osservare, come dimostrano i noti contributi di Giorgio Giorgi e di Cesareo Consolo, questo modello di gestione dei “benefici collaterali” era già perorato pressoché negli stessi termini dalla dottrina italiana prima della comparsa, su importazione dai giuristi germanici, della stessa doctrine della compensatio lucri cum damno quale “latinismo di ritorno” (su questo singolare percorso storico cfr. U. IZZO, La compensatio lucri cum damno come «latinismo di ritorno, in Resp. civ. prev., 2012, 1738-1759).
Questo stesso risalente modello fu poi consacrato, sotto l'egida della etichetta “clcd” importata dal diritto germanico, pressoché negli stessi termini anche dalla dottrina successiva all'emanazione del Codice civile del 1942, come dimostra la seguente presa di posizione di Adriano de Cupis in relazione alla «ipotesi in cui, per un determinato evento dannoso, sia dovuto alcunché al danneggiato in virtù di un rapporto d'assicurazione». Sul punto, infatti, il de Cupis rilevava quanto segue: «concedendo al soggetto danneggiato di agire integralmente contro l'autore del danno e contro l'istituto assicuratore, non si rischia affatto di conferirgli un ingiusto arricchimento, attesochè egli ha versato all'assicuratore dei regolari premi come corrispettivo della somma assicurata. Dandosi luogo, viceversa, alla compensatio, egli, in sostanza, non otterrebbe la dovuta controprestazione, e si troverebbe in condizione peggiore rispetto a colui che non ha compiuto l'atto di previdenza dell'assicurazione: peggiore in proporzione dei premi pagati. Avvantaggiato risulterebbe l'autore del danno, in assoluto contrasto col fine naturale dell'assicurazione. Il problema, naturalmente, cessa di esistere ove la legge statuisca la surroga dell'assicuratore» (A. De Cupis, Il danno, Milano, 1946, 163-165).
Per tutto il resto del secolo scorso la doctrine della compensatio non si è discostata da questo paradigma.
La conformità del modello tradizionale all'impostazione del diritto positivo ed alla volontà del legislatore
Il predetto modello tradizionale, invero, era e rimane sostanzialmente compatibile con l'impianto normativo, a partire dal fatto che il legislatore non ha mai dettato alcuna regola generale circa la sottrazione dei “benefici collaterali” ai risarcimenti, al contrario in relazione a specifiche fattispecie limitandosi ad optare per la previsione di azioni di “recupero” e/o per dinieghi di cumulo.
Tantomeno il legislatore - né nel 1942, né in seguito - ha mai consolidato né il “principio di indifferenza” in una clausola generale (tale, peraltro, da allargare i confini di questo principio oltre la sua ristretta prospettiva originaria delineata dalla dottrina tedesca, ammissiva della considerazione delle sole poste positive di titolo identico e di diretta derivazione causale dall'illecito), al contrario avendo optato per clausole imperniate unicamente sulle poste negative, né generalizzato la portata operativa del principio indennitario (invero relegato a fattispecie in tutto e per tutto speciali), principi indicati, invece, dagli oppositori del modello tradizionale (in primis, Marco Rossetti e le ordinanze di rimessione del 22 giugno 2017) quale assodati criteri fondanti la regola in virtù della quale, poiché il risarcimento dovrebbe coprire l'intera perdita subita, ma al contempo non dovrebbe costituire un arricchimento per il danneggiato, il vantaggio conseguito dalla parte lesa, qualsiasi esso sia, andrebbe defalcato dal risarcimento non già in ragione di una sua compensazione con il danno, ma in quanto in presenza di una posta positiva non esiste la posta negativa (l'erogazione del “beneficio collaterale” rende inesistente il corrispondente pregiudizio).
In particolare, a sconfessare l'esistenza di una siffatta regola generale, per cui i vantaggi annullano de plano i danni anche se i primi discendono da altri “titoli” e/o dai sacrifici economici della vittima e/o da soggetti - pubblici o privati - estranei al rapporto obbligatorio sorto dall'illecito od all'inadempimento, si annoverano nel diritto positivo, scrutinato anche sul piano sistematico, le seguenti indicazioni:
è del tutto assente una disposizione dotata di portata generale che contempli espressamente e de plano operazioni di sottrazione, compensazione od altro dei “benefici collaterali” dai risarcimenti (l'assenza di una base normativa per tali operazioni è stata rilevata costantemente in dottrina: cfr. ex plurimis M. Franzoni, Dei fatti illeciti, Comm. Cod. Civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 1236);
può affermarsi senz'altro come costituisca un'autentica forzatura la tesi per cui l'art. 1223 c.c. riguarderebbe non solo le poste negative, ma anche gli incrementi del patrimonio del danneggiato che successivamente al verificarsi di un illecito o di un inadempimento intervengano a colmare, in tutto od in parte, determinate conseguenze pregiudizievoli (cfr., per es., G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, 2° ed., Padova, 1999, 218); sul punto soccorre sia la lettera della norma (i “benefici collaterali” non costituiscono né “perdite subite”, né “lucri cessanti”) che, a livello di ratio legis degli artt. 1223 e 1226 c.c., l'indifferenza assoluta da parte della Relazione del Ministro guardasigilli al Codice civile (cfr. rispettivamente punti n. 572 e n. 801) verso la prospettiva di eventuali “benefici collaterali”, tant'è che pure le «sopravvenienze» sono rilevanti soltanto in quanto di segno negativo, ossia in quanto, sempre e comunque, «causa di danno» (non già di vantaggi); ad ogni modo, come pure confermato dalle Sezioni Unite del 2018 (cfr. infra § 6), la dimensione causale dei “benefici collaterali” è fenomenologicamente e giuridicamente diversa da quella della causalità giuridica all'interno del quale si collocano e sono selezionati i danni-conseguenza suscettibili di risarcimento ex art. 1223 c.c. (il “circuito causale” dei “vantaggi” provenienti - “mediati” - da terzi è lungi dall'essere sovrapponibile a quello dei “danni” consequenziali causati dal danneggiante);
gli artt. 1905,1907,1908,1909 e 1910 c.c., che assoggettano l'assicurazione contro i danni al cd. “principio indennitario”, sono norme che, con formule generiche, si contestualizzano in un ambito, giuridico ed economico, preciso e decisamente più ristretto – quello del contratto di assicurazione contro i danni e, quindi, del rapporto tra assicuratore ed assicurato – e risultano concepite e, comunque, sono calibrate esclusivamente sul versante dei danni emergenti alle “cose”, come si evince direttamente dal richiamo al lucro cessante quale prospettiva residuale, nonché dagli artt. 1907 («cosa assicurata»), 1908 («cose perite o danneggiate»; «cose assicurate»; «prodotti del suolo»), 1909 («cose»; «cosa assicurata»); tali norme, peraltro, sono tutte derogabili contrattualmente dalle parti, sicché risulta decisamente critico fondare su di esse un principio di portata generale tale da scavalcare l'ambito del rapporto assicuratore-assicurato ed assurgere a principio di ordine pubblico inviolabile laddove si tratti di risarcire una persona la quale abbia subito la lesione dell'integrità psicofisica o la compromissione di un rapporto famigliare;
l'art. 1916 c.c., laddove prevede il diritto di surrogazione dell'assicuratore, è a sua volta norma derogabile fra le parti (dunque, tale diritto - come pure riconosciuto da Cass. civ., sez. III, ord., 4 maggio 2018, n. 10602 - è rinunciabile da parte dell'impresa assicuratrice) e significa soltanto due cose: 1) l'assicuratore nulla può contro il soggetto responsabile del danno il quale abbia risarcito integralmente il danneggiato; 2) l'assicuratore non può pretendere, nell'eventualità di una sua azione avverso il terzo responsabile (eventualità da rinvenirsi non già nella legge, ma nella polizza stessa), di conseguire una somma superiore all'indennità corrisposta all'assicurato;
il comma 1 dell'art. 1224 c.c. si limita a sancire una presunzione di prova circa l'attribuzione di interessi legali (precisazione, invero, pleonastica);
gli artt. 1149,1479,1589,1592 c.c., laddove contemplano specifici scenari di compensazioni, non fanno che confermare l'assenza di una regola generale.
In breve, il diritto positivo, nel suo insieme, fornisce delle indicazioni che appaiono piuttosto oggettive: il sistema risarcitorio si interseca con i sistemi di welfare pubblico (pensionistici, assicurativi o di altra natura) e con i sistemi di assicurazione privata o di benefit privati soltanto laddove, posta l'omogeneità tra poste risarcitorie e “benefici collaterali”, vi sia un'espressa previsione legislativa di un'azione di “recupero” o della non-cumulabilità; la regola generale perorata dalle ordinanze di rinvio del 22 giugno 2017 non alberga in questo quadro normativo, tantomeno nel “principio indennitario” che taluni, anche in seno alla Suprema corte, pretendono possa e debba uscire dai confini delle assicurazioni per danni a “cose” per spaziare nel diverso ambito della responsabilità civile.
Ai sostenitori dei modelli alternativi a quello tradizionale sembra sfuggire proprio questa esatta fotografia del diritto positivo, eppure sufficientemente nitida.
Purtroppo, come si illustrerà oltre, in larga misura anche le Sezioni Unite del 2018 si sono perse per strada il quadro normativo ora tracciato, così finendo con l'invocare un modello - quello della “giustizia del beneficio” - sì apprezzabile, ma, per come presentato, disancorato da dati legislativi affidabili e, invece, eccessivamente imperniato su fumosi criteri, alcuni dei quali elaborati da gruppi ristretti (talvolta asfittici) di accademici che hanno apposto l'etichetta di “principi europei” a soluzioni (“scopi dei vantaggi”, “fair and reasonable”, ecc.) lungi dall'essere rappresentative di un fantomatico moderno “diritto comune” in questo campo e, comunque, tali da ammontare ad autentiche “scatole vuote” (per inciso: come si dirà infra al § 4, può essere periglioso richiamare acriticamente a supporto di questa o quella teoria documenti quali i Principles of European Tort Law od il Draft Common Frame of Reference).
Il “modello riformatore”
Da ultimo – soprattutto in seguito alle due pronunce della Sezione III con relatore Marco Rossetti (Cass. civ. n. 13233/2014 e Cass. civ. n. 13537/2014) – in una parte della giurisprudenza e della dottrina si è invertita totalmente lanarrazione tradizionale (secondo la quale il danneggiato, accedendo al cumulo tra risarcimento dei danni e benefici, non diventa ricco, ma semplicemente consegue ciò che gli spetta dal sistema sociale o da contraenti suoi o, nei casi di uccisione, del suo congiunto-vittima primaria).
In particolare, gli oppositori del modello ristretto dei diffalchi hanno preso a mettere al centro ed a sponsorizzare scenari di “ingiuste locupletazioni” da parte dei danneggiati, come se per la vittima di lesioni personali od i congiunti di una persona uccisa o menomata per la vita il “cumulare” i risarcimenti (fra l'altro vieppiù parziali ed affidati a tempistiche dilatate) con rendite od indennità garantite dal sistema sociale (sostenuto con i sacrifici dei cittadini) o, a spese della stessa parte lesa, da un'assicurazione privata possa costituire un'ingiustizia equiparabile al danno arrecato da chi con dolo, colpa o inadempimento abbia privato una famiglia del suo caro od un soggetto della sua salute.
Questo ribaltamento di prospettive e di narrazione corrisponde ad una discutibile “policy of law” di stampo riformatore che si riconduce alle “mistificazioni” tipiche dei “tort reformer” statunitensi, le cui strategie sono state importate a più riprese in Europa.
In effetti l'obiettivo di espandere gli orizzonti operativi della compensatio (ovvero delle fattispecie in cui operare defalchi) rientra da tempo nell'agenda politica dei sostenitori della “tort reform”, ossia di quel movimento di interpreti/operatori/politici che a partire dagli USA propugnano riforme protese a conseguire sgravi di ogni sorta e tipo delle obbligazioni risarcitorie a tutto beneficio di imprese, assicurazioni e pubbliche amministrazioni (cfr. ex plurimis F.P. Hubbard, The nature and impact of the “tort reform” movement, Hofstra Law Review, 2006, Vol. 35:437, 483-486, il quale per l'appunto riporta gli assalti alla cittadella della regola tradizionale della “collateral source rule”, o “collateral benefits rule”, opposta a quella, sostenuta dai “riformatori”, della deduzione di larga parte dei “benefici collaterali”, inclusi indennità provenienti da assicurazioni private e dal welfare pubblico).
Sta di fatto che, sulla base di tale nuova “rappresentazione” della situazione dei danneggiati a seguito di una tragedia, si è costruito a tavolino - sotto il vessillo del “principio di indifferenza” (reinventato rispetto alle doctrine tedesche, che lo forgiarono, e mitizzato in questa sua nuova vorace veste) e del “principio indennitario” (estratto a viva forza dalle ristrette nicchie in cui il legislatore lo aveva relegato) - un modello diametralmente opposto a quello tradizionale, ciò con il manifesto obiettivo di realizzare un sistema di generalizzata esclusione dei pregiudizi materialmente coperti da altre fonti pubbliche o private.
Senza dubbio alcuno le quattro ordinanze interlocutorie del 22 giugno 2017 si sono collocate a pieno titolo nel solco dei precedenti a supporto di questo nuovo modello, peraltro perorando la sua versione più estrema.
Esse così hanno fissato i principi del modello opposto a quello tradizionale: «(a) alla vittima d'un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione; (b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito, ed abbia per risultato diretto o mediato quello di attenuare il pregiudizio causato dall'illecito; (c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell'illecito».
In tutta evidenza questo nuovo paradigma va oltre la compensatio stessa: i vantaggi non si sottraggono ai danni, ma li rendono inesistenti. Soprattutto il “beneficio collaterale”, qualsiasi esso sia, potrebbe rilevare in diminuzione dell'obbligazione risarcitoria a prescindere dall'esistenza o meno di un'azione di surrogazione o del sacrificio economico del danneggiato alla base del suo conseguimento della posta positiva.
Orbene, tale modello confligge con il quadro normativo esposto innanzi al § 3 e su cui si tornerà al § 6.
L'evocazione del diritto romano in materia - effettuata anche dalle ordinanze del 22 giugno 2017 - lascia poi il tempo che trova; anzi, andrebbe pure scongiurata: a parte il fatto che le ricostruzioni storiche sin qui proposte in dottrina sono lungi dall'avvalorare particolari radici della compensatio lucri cum damno nella tradizione giuridica romana o nel diritto comune, in ogni caso il prestigio di quest'ultima dovrebbe risultare pressoché nullo perlomeno discorrendosi di risarcimento dei danni alla persona e da morte e, ancor di più, di incroci di questo sistema risarcitorio con sistemi di welfare pubblico ed assicurazioni private (ossia di mondi del diritto e dell'economia sconosciuti ai romani); è davvero singolare che per affrontare un problema di oggi si debba dibattere sulla corretta interpretazione del digesto da parte dei glossatori; trattasi o di uno sfoggio di gran cultura o di un tentativo di rafforzare un'idea attribuendogli un risalente lignaggio tale da confondere operatori sempre meno fini; nondimeno richiamare il diritto romano per avvalorare una regola priva di copertura normativa si risolve in un esercizio dal sapore ottocentesco accostabile al tentativo di Gabba di precludere l'accesso al danno non patrimoniale per il fatto che i latini non lo ammettevano.
Documenti quali i Principles of European Tort Law od il Draft Common Frame of Reference, citati anche dalle ordinanze di rinvio, possono supportare il teorema della generalizzazione della regola della compensatio oltre i suoi ristretti confini tradizionali?
Tali documenti, sono lungi dal rappresentare delle sintesi (del resto impossibili) delle regole operazionali presenti nei singoli Stati europei (comunque, privi di principi a portata generale); al contrario, come già si osservava al § 3, non sono altro che meri auspici riformatori provenienti da circoscritti manipoli di interpreti; peraltro, le fumose indicazioni recate da tali documenti in relazione al tema dei “benefici collaterali” non solo non collimano con le indicazioni provenienti dagli studi comparatistici (questi consegnano un quadro di netta predominanza di modelli assimilabili alla nostra impostazione tradizionale: cfr., ex plurimis, C. van Dam, European Tort Law, 2nd ed., Oxford, 2013, 372-374), ma altresì omettono di rilevare e recepire il ruolo nevralgico, che, ai fini della deducibilità di taluni “benefici collaterali”, la maggior parte delle giurisdizioni attribuisce alla ricorrenza ed all'effettivo esercizio di azioni di “recupero”.
La “parte generale” delle SS.UU.: il modello della “giustizia del beneficio”
Illustrati i due modelli venutisi a trovare in conflitto per ferma volontà di una parte della Sezione III della Suprema corte (Rossetti in primis), quale paradigma è prevalso nel quartetto di sentenze del 22 maggio 2018?
In seno alla “parte generale”, comune a tutte le quattro pronunce in questione, le Sezioni Unite hanno senz'altro rigettato il “modello riformatore” proposto dalle ordinanze di rinvio del giugno 2017, del resto dichiarando espressamente e sin da subito la loro convinta avversione per «la prospettiva “totalizzante” del computo nella stima del danno di vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima».
Nello specifico, ponendosi expressis verbis sotto il diverso vessillo della «“giustizia” del beneficio» e, dunque, nel profondo solco tracciato da numerosi contribuiti dottrinali tra i quali in primis quelli di Umberto Izzo pubblicati dal 2012 in avanti sulla rivista Responsabilità civile e previdenza (da ultimo confluiti in una monografia recante il medesimo titolo di tale stendardo), le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti basilari principi (indubbiamente condivisibili):
non è per l'appunto dato rinvenire una soluzione indistinta e omologante in relazione a tutti i possibili “benefici collaterali”: una regola generale non è plasmabile;
sul piano della causalità giuridica l'illecito (o l'inadempimento) deve risultare non già un mero «coefficiente causale» del “beneficio collaterale”, bensì direttamente la sua «fonte», attesa del resto l'impossibilità di un'applicazione simmetrica delle medesime regole causali tanto per accertare la relazione causale evento lesivo e “benefici collaterali” quanto per affrontare quella tra evento lesivo e danni-conseguenza («il beneficio non è computabile in detrazione con l'applicazione della compensatio allorchè trovi altrove la sua fonte e nell'illecito solo un coefficiente causale»);
il nesso di causalità giuridica, comunque, non costituisce affatto un criterio risolutivo, al contrario dovendo venire soddisfatti pure i seguenti due essenziali presupposti:
il defalco, per avere in concreto luogo, necessita di una sua specifica «ragione giustificatrice», il che significa che il “beneficio”, per poter essere sottratto, deve risultare preordinato a rimuovere l'effetto dannoso dell'illecito o dell'inadempimento e, quindi, deve essere corrisposto «per un interesse» specifico, quello - si noti bene - di «beneficiare il soggetto danneggiante»; inoltre, sempre innanzitutto per evidenti ragioni di giustizia, il “vantaggio” non deve scaturire da unsacrificio economico del danneggiato, per l'appunto altrimenti venendo a difettare la «ragione giustificatrice»;
la deduzione può avere luogo soltanto in presenza di un meccanismo di surroga, di rivalsa o di “recupero”, altrimenti, in violazione del “principio di responsabilità” (letto alla luce della poliedricità delle funzioni della r.c.), si finirebbe per premiare senza merito il danneggiante con un'autentica «sofferenza del sistema», essendo «preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato».
La “parte speciale”, di cui alla prima sentenza del quartetto (Cass. civ. n. 12564/2018), completa poi, in piena sintonia con essa, tale “parte generale”.
Infatti, con riferimento alla cumulabilità della pensione di reversibilità le Sezioni Unite hanno affermato a chiare lettere che questo particolare “beneficio collaterale” non deve essere detratto dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal parente-attore sulla base dei seguenti motivi (giustappunto tali da completare la “parte generale” e fornire delle indicazioni concrete agli interpreti circa il modello sposato dalle Sezioni Unite):
«ragione giustificatrice» dell'erogazione del “beneficio collaterale” in questione causalmente distinta dalla finalità indennitaria o risarcitoria, ciò anche alla luce della sua derivazione dai contributi versati dalla vittima primaria;
assenza di una previsione legislativa ammissiva di un'azione di surrogazione o di regresso a favore dell'INPS.
Mettendo insieme queste diverse indicazioni, manifesta, dunque, è la profonda divergenza tra il modello proposto dalle Sezioni Unite del 2018 ed il modello perorato dalle ordinanze di rinvio del 2017.
Invero, a scorrere la “parte generale”, così come pure illuminata dalla “parte speciale” di cui alla sentenza n. 12564, si trae inevitabilmente l'indicazione di una netta riconferma del modello tradizionale, ossia di un sistema connotato da un numero decisamente limitato di fattispecie aperte a scenari di compensatio.
Questa è una conclusione che non è dato smentire e che neppure le “parti speciali” delle sentenze nn. 12565, 12566 e 12567 possono mettere in discussione.
Certamente l'etichetta della “giustizia del beneficio” attribuisce una nuova veste al modello tradizionale di gestione del “collateral benefits”, magari lo rende pure più “sexy”, ma nella sostanza il primo blocco del quartetto di pronunce si richiama a paletti, concetti e argomenti non dissimili da quelli già rinvenibili in de Cupis o Giorgi. Soprattutto rimane scolpito un concetto da sempre fondamentale: il danneggiante non può godere di sconti che siano il frutto di sacrifici economici del danneggiato.
Il modello della “giustizia del beneficio” è normativamente fondato?
Le quattro pronunce delle Sezioni Unite non risultano particolarmente brillanti quanto all'individuazione delle basi normative a supporto delle idee affermate in seno alla “parte generale” (così come poi riprese dalla “parte speciale” della sentenza n. 12564). La stessa evocazione della «“giustizia” del beneficio» tanto costituisce un indubbio pregio del modello apprestato dalle Sezioni Unite quanto risulta poter essere il suo “tallone d'Achille”, non essendo accompagnata da una soddisfacente riflessione intorno a suoi supporti legislativi.
Vero è che le Sezioni Unite, non dissimilmente da altri precedenti interpreti, richiamano l'art. 1223 c.c. quale base del modello perorato per la compensatio lucri cum damno, ma a supporto di questo rinvio non forniscono particolari spiegazioni valevoli nella prospettiva dell'art. 12 delle preleggi. Anzi, la forza (già di per sé modesta) del rimando all'art. 1223 c.c. viene (peraltro giustamente) sminuita dallo stesso quartetto di pronunce, laddove nella “parte generale” si rinviene perorata - in direzione opposta a quella seguita dalle ordinanze di rinvio - l'interpretazione“asimmetrica” dell'art. 1223 c.c. a seconda che si tratti di indagare su danni-conseguenza o su “vantaggi”, per l'appunto non essendo possibile per le Sezioni Unite «affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all'asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio».
Ciò posto, il modello generale delineato dalle Sezioni Unite è, comunque, ampiamente condivisibile nella sostanza proprio alla luce del quadro normativo innanzi abbozzato al § 3.
Il richiamo alla necessità della previsione legislativa di un'azione di “recupero” a favore del soggetto erogatore del vantaggio a beneficio del danneggiato è senz'altro normativamente fondato: infatti, come già si ricordava al § 3, è lo stesso diritto positivo, laddove annovera speciali disposizioni con riferimento a specifici “benefici collaterali”, a confermare inequivocabilmente l'esistenza di questa imprescindibile condizione.
Per quanto concerne poi il criterio della “giustizia del beneficio”, dato che, in suo supporto le Sezioni Unite evocano il rischio di “ingiuste locupletazioni” dei danneggiati e, quindi, l'esigenza di scongiurare questo scenario, viene in mente - anzi, non può non venire in rilievo - il concetto di “ingiustificato arricchimento”: dunque, tolti i casi in cui la questione vada affrontata sul piano degli incroci creati dal legislatore (o, polizza per polizza, dagli assicuratori sulla base dell'art. 1916 c.c.) tra responsabilità civile ed altri sistemi (assicurativi, previdenziali, ecc.), la pretesa del danneggiante di dedurre dal risarcimento un determinato “beneficio collaterale” dovrebbe poter trovare giustificazione soltanto laddove il danneggiato si sia arricchito in suo danno sine causa, il che non può affermarsi ogniqualvolta a seguito dell'evento lesivo la persona lesa o, per reagire al suo dramma, si sia trovato ad effettuare delle scelte rilevatesi poi “vantaggiose” (in tal caso egli ha semplicemente esercitato il suo diritto ad autodeterminarsi) oppure abbia acquisito determinate esternalità positive con “giusta causa”, cioè sulla base di una norma di welfare assicurativo o previdenziale o, ancora, di una polizza privata o di altro.
Insomma, se si intende disquisire sul serio di “ingiusto arricchimento” del danneggiato, occorre allora farlo fino in fondo assumendo a paradigma l'unica norma che il legislatore ha predisposto per scongiurare e scoraggiare questa evenienza: l'art. 2041 c.c..
E', invero, intorno a questa disposizione che si può rinvenire la base normativa della “giustizia del beneficio”.
L'applicazione delle logiche dell'art. 2041 c.c. anche al dilemma degli “ingiusti arricchimenti” dei danneggiati riduce drasticamente i casi di compensatio, cioè di sottrazione dei “benefici collaterali”?
Senz'altro sì, ma di questo scenario (lungi dall'essere inconcepibile nella prospettiva di chi subisce un danno) si dovrebbe fare carico non già la magistratura, bensì il legislatore, il quale, peraltro, in effetti non manca di intervenire attraverso l'istituzione di incroci speciali fra, da un lato, il sistema risarcitorio e, dall'altro lato, fonti, pubbliche o private, indennitarie o para-indennitarie.
Le ragioni del giudizio negativo: dove cascano le SS.UU. del 2018?
I maggiori problemi, che l'intervento delle Sezioni Unite pone agli interpreti, scaturiscono dal raffronto fra il primo “blocco” e le “parti speciali” di cui alle sentenze nn. 12565, 12566 e 12567: i conti non tornano affatto.
Nella pronuncia n. 12565 - indubbiamente quella più critica innanzitutto per i suoi potenziali risvolti sul fronte del rapporto fra sistema risarcitorio e polizze infortuni/malattie (questione, comunque, rimasta in ombra) - le Sezioni Unite, con riferimento all'assicurazionecontro i danni e più nello specifico - il punto è rilevante - in relazione ad un indennizzo avente per oggetto il valore di una res (il velivolo colpito in volo sui cieli sopra Ustica), hanno superficialmente affermato che indennità assicurative per i danni ed obbligazione risarcitoria, pur avendo «fonte e titolo diversi», non possono cumularsi, ciò - questi i profili dolenti - anche laddove vi sia l'inerzia dell'assicuratore del danneggiato nell'agire in via di surrogazione e, comunque, a prescindere dalla corresponsione dei premi assicurativi, prima dell'illecito, da parte del soggetto leso (in definitiva, con arricchimento del danneggiante senza giustizia alcuna).
Anche nelle “parti speciali” delle pronunce nn. 12566 e 12567 le Sezioni Unite hanno sancito l'assoluta irrilevanza del mancato esperimento dell'azione di surrogazione da parte del soggetto erogatore del “beneficio collaterale”.
Le “parti speciali” di queste tre sentenze, dunque, tradiscono sotto più profili le statuizioni recate dalla “parte generale” e da quella “speciale” della sentenza n. 12564: in pratica fanno scivolare il quartetto di pronunce verso il modello riformatore, che, pur messo al bando nel primo blocco, viene così ad annidarsi nelle stesse ponendo gli interpreti dinanzi ad una coesistenza di ragionamenti e soluzioni lungi dall'essere fra loro compatibili.
Questa sorta di rigurgito di una parte delle logiche, che contraddistinguono il modello riformatore, è censurabile sotto più profili, innanzitutto sulla base della stessa “parte generale”.
In merito alla supposta irrilevanza dell'inerzia dell'erogatore del “beneficio collaterale” nel recupero di quanto versato al danneggiato, la conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite non ha proprio senso d'essere, giacché il fatto dell'intervenuta corresponsione dell'indennità al danneggiato è circostanza neutra rispetto all'eventuale deducibilità della stessa, ciò innanzitutto alla luce della derogabilità del meccanismo dell'art. 1916 c.c., tale da smontare in radice che tale norma colleghi il prodursi della vicenda successoria, automaticamente, al mero pagamento dell'indennità assicurativa; nella realtà, assicuratore ed assicurato potrebbero avere concordato la rinuncia, da parte del primo, all'azione di surrogazione, sicché il pagamento dell'indennità – non associandosi ad una tale azione – non dovrebbe risolversi, in assenza del diritto di surrogazione ed in conformità con quanto declamato dalle stesse Sezioni Unite nella “parte generale”, in un gratuito vantaggio per il responsabile civile alle spalle del sacrificio economico del danneggiato compiuto per il conseguimento di tale polizza.
Ad ogni modo, rinuncia o meno, da parte dell'assicuratore, all'azione di surrogazione, rimane come le stesse Sezioni Unite, come si è già illustrato al § 5, in seno alla “parte generale” abbiano sottolineato, evocando la “giustizia del beneficio” ed il “principio di responsabilità”, come la posizione debitoria del responsabile dell'illecito non possa in nessun modo venire alleggerita «per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l'evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all'intervento del terzo», poiché per questa via«si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente»: che senso ha, allora, dichiarare in seconda battuta l'indifferenza assoluta per l'esercizio concreto dell'azione di surrogazione?
In tutta evidenza la declamata totale irrilevanza del concreto esercizio dell'azione di “recupero” contraddice le predette condivisibili affermazioni di cui alla “parte generale”.
Al massimo, laddove nessuna azione di “recupero” sia stata esperita, la “giustizia del beneficio” potrebbe escludere il cumulo soltanto qualora, posta l'identità di funzioni delle poste comparate e la loro omogeneità, si possano svolgere altre considerazioni circa il contributo fornito dal responsabile civile al “vantaggio collaterale” (per es., con riferimento all'indennità di accompagnamento, si potrebbe passare sopra il mancato esercizio dell'azione di surrogazione, osservandosi come alle risorse economiche all'origine di questa posta positiva abbia contribuito, pur indirettamente, anche il responsabile civile nella sua veste di contribuente; medesimi rilievi, a fortiori, potrebbero svolgersi per quanto concerne l'indennità INAIL corrisposta per un infortunio avvenuto nell'azienda in relazione al datore di lavoro chiamato exart. 2087 c.c. a risarcire il danno occorso al suo dipendente, dato che è il datore ad avere sostenuto i premi; viceversa, rilievi di questo tipo non avrebbero senso in relazione ad un infortunio in itinere a favore del responsabile civile e/o della sua impresa assicuratrice per la r.c.a., che, invece, non hanno contribuito all'assicurazione INAIL).
Quanto poi alla rilevanza del pagamento dei premi di polizza da parte del danneggiato il contrasto fra i due blocchi, che compongono il quartetto di sentenze, è pure evidente: le Sezioni Unite, sempre nella “parte generale”, hanno affermato che «nel caso di assicurazione sulla vita, l'indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante»; inoltre, nella sentenza n. 12564 le stesse hanno giustamente affermato la regola del cumulo con riferimento alla pensione di reversibilità, giacché per l'appunto frutto del lavoro e dei contributi della persona deceduta.
In breve, anche per l'assicurazione contro i danni (soprattutto polizze infortuni/malattie) doveva valere quanto rilevato dalle Sezioni Unite nella “parte generale” in merito alla rilevanza del contributo economico del danneggiato alla base del “beneficio collaterale” ed all'assenza dell'obiettivo della “posta positiva” di beneficiare il danneggiante. Per quali recondite ragioni, infatti, il danneggiante dovrebbe godere gratuitamente del risultato dei premi versati dal danneggiato, frutto di sacrifici suoi o della sua famiglia o della sua impresa, peraltro senza neppure che il danneggiante debba restituire in concreto alcunché all'assicuratore del soggetto leso?
Qui è manifesto come il responsabile civile si avvantaggi dei sacrifici altrui, ovvero incorra in un arricchimento senza causa (altro che “ingiusta locupletazione” del danneggiato!): la “giustizia del beneficio” finisce in cantina.
Peraltro, appare del tutto discutibile l'affermazione, operata dalle Sezioni Unite, per cui nell'assicurazione contro i danni la prestazione dell'indennità non sarebbe in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la corresponsione dei premi da parte dell'assicurato, dato che l'obbligo fondamentale dell'assicuratore consisterebbe unicamente in quello dell'assunzione e della sopportazione del rischio a fronte dell'incertezza circa il verificarsi del sinistro e la solvibilità del terzo responsabile (in realtà figura del tutto eventuale!). Al contrario, infatti, l'assicurato paga soldi veri e sonanti, fonte di suoi risparmi e sacrifici, per ricevere un indennizzo nel caso di avveramento del rischio; inoltre, come ben noto anche ai non addetti ai lavori, il premio è calibrato pure in relazione ai criteri relativi alla quantificazione e delimitazione degli indennizzi stessi, oltre che in considerazione della rinuncia o meno all'azione di surrogazione.
Aggiungasi come non sia affatto vero che, come azzardato dalle Sezioni Unite citando un solo precedente francese, «anche l'indagine comparatistica conferma la preferibilità della soluzione interpretativa nel senso del non-cumulo» tra risarcimento e indennità da polizza contro i danni. La ricerca comparatistica, anche quella più recente (cfr., per es., C. van Dam, European Tort Law, cit., 374), smentisce le Sezioni Unite, rilevando – con riferimento innanzitutto a Germania, Inghilterra e (!) Francia – l'esclusione della compensatio in relazione alle indennità da polizze private. Senz'altro, per quanto concerne le polizze infortuni/malattie, prevale nettamente in Europa (e non solo ivi) la regola del cumulo (sul punto cfr., altresì, quanto già documentato in M. Bona & P. Mead (eds), Personal Injury Compensation in Europe, Deventer, 2003), regola, per inciso, singolarmente non rinvenibilefra i Principles of European Tort Law (ad ulteriore dimostrazione della loro scarsa affidabilità).
Tutto ciò, induce a ritenere - in linea con alcuni fra i primi commentatori (cfr. F. Martini, Necessaria l'identità tra indennizzo e danni risarcibili, in Guida al Diritto, 9 giugno 2018, n. 25, 64-65; M. Rodolfi, Applicabilità e limiti del principio della c.d. compensatio lucri cum damno, in www.ridare.it, 29 Maggio 2018) - come perlomeno le Sezioni Unite avrebbero dovuto espressamente confermare la cumulabilità tra risarcimento per danni alla persona ed indennità da polizza infortuni/malattie.
Peraltro, a favore di questa soluzione si aggiunge il fatto che con polizze di questo tipo l'assicurato persegue l'obiettivo di garantire a se stesso, oppure ai suoi famigliari od altri beneficiari, una protezione distinta ed ulteriore rispetto a quella che eventualmente possa un giorno pervenire da un risarcimento. Del resto, la scelta del soggetto, il quale, essendo in tutta evidenza previdente, scientemente si assicura contro infortuni e/o malattie, non dovrebbe andare a vantaggio del danneggiante esattamente come, nella prospettiva del diritto dell'Unione, lo stesso sacrificio economico non alleggerisce il peso del welfare pubblico, punto quest'ultimo sancito, sul versante del coordinamento tra sistemi europei di sicurezza sociale, dall'art. 53 («Clausole anticumulo»), para. 3, lett. (c), del Regolamento (CE) n. 883/2004 del 29 aprile 2004, ove per l'appunto si rinviene affermato il principio per cui l'istituzione di uno Stato membro competente a versare ad un soggetto prestazioni d'invalidità, di vecchiaia o di supporto per i superstiti «non prende in considerazione l'importo delle prestazioni acquisite in virtù della legislazione di un altro Stato membro in base ad una assicurazione volontaria o facoltativa continuata».
Conclusioni
Il “modello riformatore” non ha prevalso nel quartetto di sentenze rese dalle Sezioni Unite. Affermare, secondo il gergo calcistico, una vittoria “tre ad uno” a favore del “modello riformatore” implicherebbe un grave fraintendimento di tali pronunce.
Semmai si può rilevare come le Sezioni Unite, in seno alle “parti speciali” recate dalle pronunce nn. 12565, 12566 e 12567, abbiano purtroppo “infettato” il modello tradizionale con alcune logiche del modello opposto, le quale potrebbero condurre a risultati altamente ingiusti, ciò innanzitutto sul versante delle polizze infortuni/malattie le cui interazioni con il sistema risarcitorio rimangono, comunque, lungi dall'essere state chiarite dalle decisioni in commento.
Peraltro, le quattro pronunce delle Sezioni Unite lasciano aperte sul tavolo diverse altre questioni fra le quali spicca il problema dell'incidenza di un'eventuale colpa concorrente del danneggiato sulle azioni di recupero (effettive e non).
In effetti questo profilo non è stato toccato dalle sentenze in disamina. Di contro, però, si potrebbe osservare come in realtà il “principio di responsabilità” evocato dalle stesse qualche indicazione utile la fornisca: infatti, tale principio dovrebbe comportare che il danneggiante tanto non possa trovarsi esposto a pagare di più di quanto gli imponga l'obbligazione risarcitoria (giustappunto ridimensionata dall'eventuale concorso di colpa del danneggiato), quanto neppure possa pretendere di scalare dal credito risarcitorio somme non dovute, in ragion del fattore concorsuale, all'ente che ha corrisposto il vantaggio alla persona lesa.
Ciò posto, non si dubita che il dibattito sulla compensatio lucri cum damno avrà ancora a proseguire nel segno degli attacchi al modello tradizionale.
Le Sezioni Unite offrono alcuni validi argini a tali assalti, ma al contempo anch'esse recano, pur marginalizzati, i segni di una prospettiva politica del diritto che solleva serie perplessità dal momento che, soprattutto per i casi di macrolesioni e di uccisioni, la preoccupazione dell'interprete non dovrebbe certo essere quella di “ingiuste locupletazioni” da parte dei danneggiati: infatti, qualsiasi sia il risarcimento, questi non ci guadagnano mai (cfr., ex plurimis, già tempo addietro U. Procaccia, Denying Subrogation in Personal Injury Claims: A Needed Change of Direction, 15 Wm. & Mary L. Rev. 93 (1973)116: «whatever the compensation, the value of life and a healthy body is much greater, and no double recovery would possibly befall the victim if he should be permitted to collect from both the third party and the collateral source»); rimarcare una tale preoccupazione quale problema centrale del sistema risarcitorio rende palese un'adesione - più o meno consapevole, più o meno estesa - ad una “policy of law” ideologicamente avversa alle progressioni, pur tortuose, della tutela rimediale dal diritto naturale in avanti; ciò continua a risultare allarmante.
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Sommario
Le quattro sentenze delle SS.UU.: i due “blocchi” contrapposti
La conformità del modello tradizionale all'impostazione del diritto positivo ed alla volontà del legislatore
Il “modello riformatore”
La “parte generale” delle SS.UU.: il modello della “giustizia del beneficio”
Il modello della “giustizia del beneficio” è normativamente fondato?
Le ragioni del giudizio negativo: dove cascano le SS.UU. del 2018?