La nuova vitalità della disciplina del licenziamento per inidoneità alla mansione, fra diritto interno e diritto dell'Unione
28 Agosto 2018
La questione
Il tema del licenziamento per inidoneità alla mansione risulta essere oggetto di un'importante evoluzione giurisprudenziale e legislativa, meritevole di attenzione anche se sino ad ora di scarsa applicazione pratica.
Come è noto tale atto di recesso è determinato dall'impossibilità per il lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa per infermità permanente; così si pensi ad un lavoratore, addetto all'imballaggio di prodotti finiti, che preleva e solleva manualmente da solo pezzi inscatolati del peso di svariati chilogrammi e poi li appoggia su un bancale e li confeziona; ebbene se costui dopo anni di sollevamenti riporti una patologia tale da rendere impossibile lo svolgimento della propria mansione, ad esempio una lombalgia cronica, potrà essere destinatario del menzionato provvedimento espulsivo.
In queste ipotesi, fino ad un recente passato si riteneva che a fronte di tale impossibilità di prosecuzione della mansione ed a fronte dell'assolvimento da parte del datore di lavoro del c.d. onere di ripescaggio, ossia l'aver dimostrato che nel complesso aziendale non vi era la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori compatibili in posti vacanti, non potesse essere in alcun modo sindacata la legittimità del provvedimento espulsivo. Si tratta di un punto di approdo raggiunto a seguito della ormai risalente sentenza Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, la quale affermava come: "In caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3, l. n. 604 del 1966 e art. 1463 e 1464, c.c.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103, c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore". Del resto il legislatore nazionale all'art. 4 comma 4, l. 12 marzo 1999, n. 68, e agli artt. 41 e 42, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 aveva sancito il principio secondo il quale l'infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento (dei lavoratori) nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Inoltre, anche con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, c.d. Jobs Act, il legislatore, nell'ottica di una assimilazione del menzionato licenziamento a quello nullo per motivi discriminatori, ne ha di fatto equiparato le sanzioni previste per il datore di lavoro.
La normativa e la giurisprudenza sovranazionale
Il paradigma della insindacabilità delle scelte di organizzazione aziendale ai fini della valutazione di legittimità del menzionato licenziamento è destinato, tuttavia, ad essere ripensato alla luce della normativa sovranazionale intervenuta nel progresso del tempo. In altri termini, più incisivamente, il precetto normativo europeo ha imposto al datore di lavoro di apportare le modifiche organizzative necessarie per il reinserimento lavorativo del disabile, nell'ottica del superamento del dogma dell'intangibilità dell'assetto organizzativo dell'impresa, alla luce del "contemperamento" dell'art. 41, comma 1, Cost. con i valori della "sicurezza, libertà e dignità umana" (ex art. 41, comma 2, Cost.). Infatti, l'art. 13 Trattato UE vieta la discriminazione, oltre che per sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, età, tendenze sessuali anche per handicap; l'art. 21, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (Carta di Nizza) vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza […] gli handicap; l'art. 5, direttiva quadro 2000/78/CE sulla lotta alle discriminazioni per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, recepita in Italia con il d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216 (art. 3 comma 3-bis) prevede l'adozione di “soluzioni ragionevoli” per consentire ai disabili di svolgere un lavoro, salvo comporti un onere finanziario sproporzionato per il datore di lavoro. Infine, l'art. 5 par. 3 e l'art. 1 comma 2, Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla l. 3 marzo 2009 n. 18, obbliga gli Stati Parti a prendere tutti i provvedimenti appropriati per assicurare che siano forniti “accomodamenti ragionevoli” a garantire la tutela dei diritti dei disabili che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo; con la specificazione che disabile è chi ha minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine.
Se nonché, da tale imponente corpo legislativo sovranazionale si apprende che nell'ottica di garantire pari condizioni e quindi non discriminare il lavoratore disabile corre l'obbligo per il datore di lavoro di introdurre, “soluzioni ragionevoli” per consentire ai disabili di svolgere un lavoro, che non siano economicamente insostenibili. Da qui sono sorte alcune questioni ermeneutiche problematiche.
In primo luogo ci si è interrogati in merito all'ampiezza della nozione di “lavoratore disabile”. A tale quesito si è risposto dovendosi senza dubbio ricomprendere coloro che hanno un handicap certificato dalla normativa interna in materia di accesso all'occupazione (come ad esempio quanto previsto dalla l. 12 marzo 1999 n. 68), nonché chi sia portatore di una patologia congenita.
Inoltre, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea (Corte giust. UE 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark per conto di Ring e Skoube Werge, par. da 28 a 32 e 37 e 38) ha esteso il concetto di handicap fino a includere infermità fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali derivanti da fattori sopravvenuti, quali malattia o incidente, infortunio sul lavoro o malattia professionale, purché siano esse durature. A tal riguardo, pur non esistendo in seno al diritto dell'Unione una normativa che contempli ed espliciti la nozione di handicap, la Corte di giustizia è giunta ad un'interpretazione estensiva della disciplina europea, fondandola sulla nozione di handicap rinvenuta nell'art. 5, par. 3 e nell'art. 1, comma 2, Convenzione ONU del 2006 approvata dall'Unione medesima e quindi vincolante per le sue istituzioni e, di conseguenza, prevalente sugli atti dell'Unione stessa.
Del resto già in precedenza sul concetto di patologie durature si era soffermata la sentenza della Corte giust. UE, grande sezione, 11 luglio 2006, causa C-13/05, Sonia Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA., ricomprendendo nella nozione di disabilità anche le menomazioni non irreversibili, purché “di lunga durata” (par. 45): ciò che rileva, infatti, non è il carattere irreversibile o meno della patologia, ma prioritariamente l'aspetto sociale e relazionale delle “minorazioni fisiche, mentali o psichiche”, che devono essere tali da ostacolare “la partecipazione della persona considerata alla vita professionale” (par 43).
Infine, nella successiva sentenza 18 dicembre 2014, causa C-354/13, Fago g Arbejde (FOA) c. Kommunernes Landsforening (KL), la Corte di giustizia ha precisato che la patologia del lavoratore deve essere anche “grave”, oltre che “duratura” e quindi di ostacolo alla sua vita professionale (si trattava di un lavoratore che soffriva di una grave forma di obesità).
In conclusione dalla menzionata evoluzione giurisprudenziale si evince che rientra nella nozione di “lavoratore disabile” anche chi abbia una inabilità permanente, sopravvenuta e non certificata dalla normativa interna, come nell'esempio citato inizialmente chi abbia riportato una lombalgia cronica a seguito della ripetuta movimentazione manuale dei carichi effettuata nel corso dell'attività lavorativa, purché sia grave ed idonea ad ostacolare concretamente la vita professionale del lavoratore.
Analogamente problematico risultava delineare la nozione di “soluzioni-accomodamenti ragionevoli”, che il datore di lavoro ha l'obbligo di considerare prima di procedere all'estrema ratio dell'espulsione del lavoratore disabile. Ebbene, la Corte di Lussemburgo (Corte giust. UE 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, cit.) ha avallato una lettura estensiva e rigorosa dell'obbligo per il datore di lavoro di adottare le cosiddette soluzioni ragionevoli, estendendola a quegli accomodamenti che, senza comportare a suo carico un onere finanziario sproporzionato, sono necessari per consentire ai disabili di superare il loro specifico impedimento, e quindi di accedere ad un lavoro o di conservarlo, e che comprendono non solo interventi di carattere tecnico-materiale, come il riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, ma anche interventi di carattere organizzativo, come la redistribuzione delle mansioni, la riduzione o rimodulazione dell'orario di lavoro, o il cambiamento dei turni. La legislazione e la giurisprudenza interna
Il legislatore interno ha dato attuazione alla direttiva quadro 2000/78/CE con il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (art. 3), tuttavia, tale attuazione si è rivelata imperfetta, posto che non era stato fatto espresso riferimento all'obbligo di adattamento ragionevole delle posizioni lavorative, tanto che a seguito di procedura di infrazione la Corte giust. UE, Quarta Sezione, 4 luglio 2013, ha condannato la Repubblica Italiana, “non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l'art. 5, direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”. Inoltre al par. 65 ha censurato la l. n. 68 del 1999 che: “per quanto riguarda la l. n. 68 del 1999, essa ha lo scopo esclusivo di favorire l'accesso all'impiego di taluni disabili e non è volta a disciplinare quanto richiesto dall'art. 5, direttiva 2000/78”, in buona sostanza chiedendo di parificare la nozione di disabilità prevista dalla l. n. 68 del 1999 all'ambito di applicazione europeo.
Il legislatore italiano è dovuto così intervenire nel 2013 (art. 9, d.l 28 giugno 2013, n. 99, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 99), introducendo nel corpo del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, un comma 3-bis all'art. 3, prevedendo che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della l. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”, in tal modo sanando la disarmonia con il diritto europeo.
Di tale evoluzione legislativa e giurisprudenziale sovranazionale ha mostrato interesse anche la giurisprudenza interna, per ora di merito.
In particolare un'ordinanza del giudice del lavoro del Tribunale Pisa, 16 aprile 2015, verificata la condizione di disabilità della lavoratrice e la possibilità per il datore di lavoro di superare senza oneri eccessivi la sua limitazione fisica attraverso una redistribuzione di compiti tra l'interessata e alcuni colleghi, ha censurato l'inadempimento dell'obbligo di provvedere agli accomodamenti ragionevoli stabilito dall'art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003 e ha giudicato discriminatorio il licenziamento collegato alla disabilità, condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 18, commi 1 e 2, st. lav., oltre che al risarcimento del danno non patrimoniale per la discriminazione subita. Nella specie si trattava della mancata riorganizzazione e redistribuzione dei compiti tra lavoratori addetti al magazzino.
Come si già stato rilevato, la tutela apprestata a favore delle persone disabili dal d.lgs. n. 216 del 2003 finisce così per infrangere in questo specifico ambito il dogma (rafforzato invece sotto diversi profili dalle recenti riforme) dell'intangibilità e insindacabilità delle scelte organizzative e gestionali del datore di lavoro, mettendo in discussione la consolidata giurisprudenza nazionale in tema di licenziamenti per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore.
Analogamente, un'ordinanza del giudice del lavoro del Tribunale di Ivrea del 24 febbraio 2016, ha sanzionato con il cd. regime di tutela reale attenuata (ai sensi dell'art. 18, commi 4 e 7, st. lav.) il licenziamento di una lavoratrice la cui sopravvenuta inidoneità avrebbe potuto essere risolta con una modifica, a costi contenuti, della sua postazione lavorativa. La pronuncia piemontese evidenzia, in sintonia col precedente pisano, l'incisivo condizionamento che l'obbligo delle soluzioni ragionevoli per i disabili è destinato a spiegare sul potere di recesso del datore di lavoro, ponendo a suo carico l'onere di dimostrare di non aver potuto rimediare alla situazione di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa neppure attraverso modifiche, a costo ridotto, della sua organizzazione aziendale. Nella specie si trattava di un'azienda metalmeccanica, che non aveva inteso adattare tecnologicamente la postazione lavorativa di un lavoratore affetto da menomazione alla colonna vertebrale, né adibirlo a mansioni compatibili con il suo stato di salute in posti vacanti presenti in azienda.
Ed infine, si registra l'ordinanza del Tribunale Bologna, sez. lav., 18 giugno 2013, che ha accolto il ricorso anti-discriminazione presentato da un infermiere professionale che, dopo aver vinto un bando di concorso pubblico presso un'Azienda ospedaliera di Bologna, per la copertura di un posto a tempo determinato di durata semestrale, non si è visto concludere il contratto a seguito delle prove mediche di idoneità, che avevano accertato la necessità di evitare il lavoro notturno in ragione di una patologia di “epilessia notturna”. Posto che tra i requisiti previsti dal bando vi era “l'incondizionata idoneità fisica specifica alle mansioni del profilo”, l'Azienda ospedaliera ha ritenuto di non concludere il contratto di assunzione, non potendo il ricorrente svolgere i turni di lavoro notturno. Il giudice del lavoro di Bologna ha accolto il ricorso dell'infermiere professionale, ritenendo che la mancata assunzione dell'infermiere professionale in ragione soltanto della sua patologia, abbia sostanziato un comportamento discriminatorio fondato sulla “disabilità” vietato dalla direttiva europea n. 2000/78 e dalla legge di ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Di conseguenza, il giudice ha condannato l'Azienda Ospedaliera al risarcimento del danno patrimoniale commisurato alle retribuzioni perdute a seguito della mancata assunzione per il semestre, nonché al pagamento delle spese legali.
Tuttavia, anche un'isolata ed assai risalente pronuncia della Cassazione italiana ben prima che sopravvenisse la citata normativa Europea ed Internazionale, aveva enunciato i medesimi principi, così Cass., sez. lav., 22 luglio 1993, n. 8152 aveva asserito che: “L'ipotesi di sopravvenuta impossibilità totale o parziale della prestazione lavorativa, tale da giustificare il licenziamento del lavoratore ai sensi dell' art. 3, l. n. 604 del 1966, non è ravvisabile ove l'impedimento fisico del prestatore determini solo una mera difficoltà nello svolgimento delle mansioni precedentemente espletate, superabile mediante l'adozione di diverse modalità di esecuzione del lavoro, compatibili con l'organizzazione aziendale, cui il datore di lavoro è tenuto nell'ambito del suo dovere di cooperazione anche a norma dell'art. 2087 c.c. (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla suprema corte, aveva escluso la sussistenza del giustificato motivo di recesso in relazione ad una infermità sopravvenuta che consentiva al dipendente di svolgere i propri compiti solo in posizione seduta, con modalità di esecuzione del lavoro già precedentemente adottate per altri addetti nell'azienda)”. È certo però che la nozione europea di “accomodamento ragionevole” è più ampia del mero divieto interno di “mansioni incompatibili”, poiché impone l'adozione di tutte le “modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone von disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Come si è detto, nuova linfa alla tematica è stata immessa anche dal legislatore, che ha disciplinato le conseguenze sanzionatorie del licenziamento per inidoneità alla mansione illegittimo.
Tradizionalmente si asseriva che (Cass., sez. lav., 8 febbraio 1986, n. 820) la sopravvenuta incapacità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni cui era stato assegnato che renda impossibile la prosecuzione del rapporto, integra una causa oggettiva di licenziamento ai sensi dell'art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604, ancorché si tratti di lavoratore invalido civile assunto a termini della l. n. 482 del 1968, atteso che la tutela accordata della legge a tale categoria di lavoratori è diretta a garantire le modalità di assunzione e di avviamento al lavoro ma non sottrae tale rapporto alla disciplina comune.
Si riteneva poi che in base all'art. 18, st. lav., la conseguenza sanzionatoria fosse quella della reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento danni, tali garanzie valevano, peraltro, per i soli lavoratori assunti presso datori di lavoro che superavano le soglie dimensionali previste dall'art. 18, st. lav., unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale. Al di sotto di tali soglie, trovava invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall'art. 8, l. n. 604 del 1966, così come sostituito dall'art. 2, l. n. 108 del 1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico.
Tale sistema sanzionatorio è stato avallato anche dal Giudice delle leggi (Corte cost., 23 dicembre 1998, n. 420), rispondendo a chi aveva dubitato che l'avvenuto espletamento della procedura di controllo di cui al menzionato art. 5, st. lav. (visita da parte della commissione Medica), portando ad una pronuncia di carattere tecnico che il datore di lavoro non può contestare ed alla quale, anzi, ha il dovere di attenersi, dovrebbe implicare che nessuna responsabilità possa essere posta a suo carico in caso di successiva verifica dell'erroneità dell'accertamento medico in precedenza compiuto, ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c. La consulta giunge ad avallare la sanzione risarcitoria in quanto il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l'immediato licenziamento del dipendente agisce a suo rischio, secondo una scelta del legislatore chiaramente rivolta a tutela del soggetto più debole.
Il nuovo testo dell'art. 18, comma 7, st. lav., introdotto dalla l. n. 92 del 2012, ha assimilato nella sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro il licenziamento intimato in violazione del superamento del periodo di comporto dall'art. 2110 c.c. come quello sprovvisto del motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi dell'art. 4, comma 4, e 10, comma 3, l. n. 68 del 1999; ed inoltre ha previsto la procedura conciliativa di cui all'art. 7, l. n. 604 del 1966 per la speciale fattispecie di giustificato motivo oggettivo di recesso datoriale consistente nella sopravvenuta inidoneità fisica o psichica allo svolgimento della mansione.
Un problema interpretativo, poi superato dalla Suprema Corte, atteneva al coordinamento fra l'art. 18 comma 7, st. lav., contenente la previsione del licenziamento per inidoneità alla mansione e il comma 4 dell'art. 18, st. lav., al quale rinviava, che prevedeva la reintegrazione alle sole ipotesi di licenziamento per motivi disciplinari nei casi in cui il Giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato, mentre nelle altre ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 18, st. lav., era prevista solo un'indennità risarcitoria (12-24 mensilità). Ebbene, si era posta la questione se il rinvio operato dal comma 7 al comma 4 avesse determinato la possibilità per il Giudice di optare per un risarcimento meramente economico (12-24 mensilità) anche per il licenziamento del disabile.
Se nonché Cass., sez. lav., 21 luglio 2017, n. 18020, ha sciolto il dubbio interpretativo, affermando che il rinvio operato dal comma 7 al comma 4 dell'art. 18, st. lav., attiene solo alla tutela reale ivi prevista, senza poter applicare le differenze fra licenziamento per insussistenza del fatto ed altre ipotesi previste solo per il licenziamento disciplinare.
Infine, nel segno di un ampliamento delle tutele rispetto alle ipotesi di licenziamento per inidoneità alla mansione si è posto il già citato “Job Act”. Tale normativa, all'art. 2 comma 4, d.lgs. n. 23 del 2015, ha esteso al licenziamento per inidoneità alla mansione alla tutela massima prevista per il licenziamento discriminatorio (tutela reale piena), in tal modo obliterando la tesi secondo la quale il licenziamento collegato alla disabilità del dipendente, può rientrare nell'alveo della tutela antidiscriminatoria. Del resto, già all'interno della precedente disciplina era prevista una forma di raccordo con il licenziamento discriminatorio, avendo affermato il legislatore all'art. 18 comma 7 ultima parte, st. lav., che: “qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”, con ciò tenendo conto dal punto di vista sanzionatorio delle "ricadute" del diritto europeo nel diritto interno - ed, in particolare, di cui all'art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003, sugli "accomodamenti ragionevoli".
L'ulteriore novità di rilievo, introdotta dal “Jobs Act” è la previsione della menzionata tutela reintegratoria senza alcun tipo di differenziazione fra dipendenti di aziende che superano i requisiti dimensionali (15 dipendenti), come invece era previsto dall'art. 18, st. lav. Con la conseguenza che all'esito di tale intervento si può affermare che nelle ipotesi di licenziamento per inidoneità fisico - psichica alla mansione è prevista una tutela reintegratoria anche rispetto ai lavoratori occupati in aziende con un numero di occupati pari od inferiori alle 15 unità. Osservazioni
Orbene, all'esito del presente studio è possibile osservare la progressiva estensione dell'ambito di tutela del lavoratore disabile per effetto del diritto europeo e dell'impatto dello stesso nell'ordinamento interno; su questo tema il tradizionale principio dell'insindacabilità delle scelte organizzative imprenditoriali ha lasciato il posto alla possibilità di vagliare l'avvenuto adempimento del datore di lavoro all'obbligo di procedere a quegli accomodamenti ragionevoli del lavoratore disabile. Sempre in forza delle norme sovranazionali si è proceduto alla sostanziale assimilazione del licenziamento per inidoneità fisico-psichica al licenziamento per motivi discriminatori, anche con riferimento alla tutela reintegratoria applicabile ed a prescindere dai requisiti dimensionali dell'impresa datrice.
Ed allora, riportando i riferiti principi sul terreno della pratica, nell'esempio menzionato nella parte iniziale dello studio riguardante il lavoratore addetto all'imballaggio di prodotti finiti che preleva e solleva manualmente da solo pezzi inscatolati di svariati chili di peso e poi li poggia su un bancale e li assembla, che riporta una lombalgia cronica; ebbene in tale ipotesi potrebbe essere un accomodamento ragionevole la limitazione delle mansioni del prestatore alla sola confezione dei materiali, attribuendo ad esempio le mansioni di movimentazione manuale dei carichi ad altro lavoratore (intervento sull'organizzazione del lavoro) oppure si potrebbe incidere attraverso l'acquisto di strumenti meccanici idonei ad evitare la movimentazione manuale dei carichi da parte del lavoratore, ove non eccessivamente onerosa per la datrice di lavoro.
Sul tema dell'onerosità dell'accomodamento ragionevole, a parere di chi scrive, per valutare se tale onere sia sproporzionato o eccessivo non si potrà non considerare le possibilità di contributi a fondo perduto previste dalla legge per supplire alle carenze nell'organizzazione datoriale. Così, il disposto dell‘art. 11 comma 5, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 prevede che L'INAIL finanzia con risorse proprie, anche nell'ambito della bilateralità e di protocolli con le parti sociali e le associazioni nazionali di tutela degli invalidi del lavoro, finanzia progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro rivolti in particolare alle piccole, medie e micro imprese e progetti volti a sperimentare soluzioni innovative e strumenti di natura organizzativa e gestionale ispirati ai principi di responsabilità sociale delle imprese. In attuazione di tale normativa annualmente Inail pubblica un bando destinato alle imprese, predisponendo finanziamenti a fondo perduto per il miglioramento documentato delle condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori. Così, sono previsti finanziamenti riguardanti progetti per l'acquisto di macchinari idonei ad eliminare o ridurre il rischio di movimentazione manuale di carichi, posto peraltro che l'art. 168, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 prevede l'obbligo del datore di lavoro di evitare o quantomeno ridurre i rischi connessi alla movimentazione manuale di carichi con misure organizzative o attrezzature meccaniche.
Allo stesso modo la l. 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1 comma 166, la determina del Presidente dell'Inail dell'11 luglio 2016 n. 258 e le successive circolari Inail n. 51 del 30 dicembre 2016 e n. 30 del 25 luglio 2017 e la delibera Inail Civ n. 2 del 22 febbraio 2017 hanno previsto interventi di finanziamento degli “accomodamenti ragionevoli” proposti dal datore di lavoro miranti alla conservazione del posto di lavoro del lavoratore che sia stato ritenuto permanentemente o temporaneamente inidoneo al lavoro, su istanza dello stesso lavoratore, con il consenso del datore di lavoro.
Ora, è evidente che ove il datore di lavoro possa incidere agevolmente sul riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, potendosi giovare dei finanziamenti Inail per eseguire quegli “accomodamenti ragionevoli” previsti dalla legge, ad esempio per acquistare un macchinario che sostituisca il lavoratore nella movimentazione manuale dei carichi, allora sarà difficile sostenere che tale adattamento imponga un onere economico sproporzionato per l'azienda. Ed allora è evidente che oggi più che mai questa nuova vitalità della disciplina del licenziamento per inidoneità alla mansione risulta foriera di nuove tutele per la parte debole, così come di nuove occasioni per le aziende che non intendano disperdere un prezioso bagaglio di professionalità acquisito nel tempo ad opera del prestatore di lavoro. |