Fiammetta Lo Bianco
30 Agosto 2018

Il dispositivo della sentenza contiene la risposta giurisdizionale alle domande formulate dalle parti nel corso del giudizio e concretizza l'effettività e la portata precettiva della pronuncia giudiziale.
Inquadramento

Il dispositivo della sentenza contiene la risposta giurisdizionale alle domande formulate dalle parti nel corso del giudizio e concretizza l'effettività e la portata precettiva della pronuncia giudiziale.

É, infatti, con il dispositivo che il giudice pronuncia, sinteticamente, la regola che governerà, tra le parti in causa, il rapporto dedotto in giudizio ed esterna il comando di accertamento, di condanna o costitutivo, a seconda dell'oggetto del giudizio.

Anche se, come efficacemente sostenuto, nel dispositivo si concreta l'essenza volitiva della sentenza, tuttavia la portata precettiva del comando va ricercata nella lettura combinata del dispositivo in relazione alla motivazione attraverso l'interpretazione delle varie parti della sentenza le une per mezzo delle altre.

In evidenza

Nell'ordinario giudizio di cognizione, l'esatto contenuto della sentenza va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l'effettiva volontà del giudice. Ne consegue che va ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del "dictum" giudiziale. (Nella specie, la Suprema Corte, a fronte di un dispositivo che rigettava l'appello avverso la sentenza anziché dichiararlo inammissibile, ha ritenuto prevalente la motivazione la quale affermava chiaramente la carenza del requisito di specificità ex art. 342 c.p.c. nel gravame) (cfr. Cass. civ.,Sez. VI - I, ord., n. 24600/2017).

Contenuto minimo e vizi del dispositivo

Ai sensi dell'art. 132, n. 5, c.p.c., il dispositivo è elemento essenziale della sentenza.

In assenza di esplicita previsione codicistica dei contenuti minimi e della disciplina per il caso in cui il dispositivo sia assente, deve senz'altro ritenersi applicabile il regime sanzionatorio della nullità ex art. 161, comma 1, c.p.c. correlato con l'art. 156, comma 2, c.p.c., il quale, in deroga al principio di tassatività della nullità degli atti processuali per vizio di forma sancito al primo comma, prevede che la nullità può essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo.

E indubbiamente, il dispositivo, al pari della motivazione della sentenza, concorrendo a formare la forza imperativa della decisione, costituisce elemento imprescindibile e indefettibile della deliberazione del giudice.

La sua assenza non può perciò che condurre alla radicale inesistenza della stessa sentenza, la quale può essere fatta valere, oltre che con l'actio nullitatis, proponibile in ogni tempo, anche mediante gli ordinari mezzi di impugnazione (in questo senso, Cass. civ., sez. I, sent., n. 18948/2006).

Né, alla mancanza del dispositivo, può in qualche modo sopperirsi ricavando dalla motivazione ciò che sarebbe stato il suo contenuto ove espresso.

Il dispositivo, infatti, anche se può e deve essere interpretato alla luce delle ragioni in fatto e in diritto della decisione (id est motivazione), costituisce un elemento distinto dagli altri requisiti della sentenza stessa, di cui costituisce il dictum e racchiude l'ordine formale con cui viene data concreta attuazione al precetto normativo.

Specularmente, la presenza del solo dispositivo e l'assenza di motivazione, non è sufficiente a determinare l'esistenza giuridica della decisione.

In tema, la giurisprudenza ha affrontato la questione della ricostituzione della sentenza sottratta o smarrita mediante riproduzione del solo dispositivo, affermando che, poiché non è configurabile l'esistenza della sentenza in tutti i casi in cui la stessa difetti di quel minimo di elementi e presupposti indispensabili per produrre l'effetto di certezza giuridica (che è lo scopo del giudicato), è inesistente la decisione, che - nel verificare l'impossibilità di ricostituire la sentenza andata smarrita, secondo il procedimento previsto dall'art. 113 c.p.p., applicabile, in difetto di disposizioni specifiche, al rito civile - ne riproduca il contenuto facendo riferimento al solo dispositivo esistente in originale in mancanza delle altre parti (svolgimento del processo, esposizione dei fatti rilevanti di causa, motivazione), che costituiscono elementi necessari per l'esistenza dell'atto (così Cass. civ., sez. II, sent., n. 586/2005).

Sin qui si è affrontato il caso della assenza totale del dispositivo, da cui discende la nullità radicale e insanabile della sentenza; mentre più complessa è la questione circa i contenuti minimi del dispositivo e i suoi eventuali vizi, involgendo, inevitabilmente, il rapporto tra dispositivo e motivazione.

Sicuramente il dispositivo deve essere completo e determinato.

Il requisito della completezza si ricava dal dovere decisorio del giudice – a sua volta delimitato dal principio della domanda (art. 99 c.p.c.) – il quale deve pronunciarsi su tutta la domanda e non al di fuori di essa (art. 112 c.p.c.), pena, nel primo caso, il vizio di omissione di pronuncia e, nel secondo caso, il vizio di ultrapetizione o di extrapetizione.

In sostanza, in ossequio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il dispositivo deve dare espresso e preciso riscontro alle domande proposte dalle parti, come precisate all'udienza di precisazione delle conclusioni.

Come è evidente, è stretta la connessione tra la questione esaminata e la tematica dell'individuazione della domanda: essa costituisce l'oggetto del giudizio e vincola il giudice nel contenuto della pronuncia, con riferimento unicamente ai fatti costitutivi (della domanda) indicati e allegati dall'attore (o dal convenuto che abbia spiegato domanda riconvenzionale). Rimane, invece, nella disponibilità del giudice la scelta delle norme di diritto da applicare e il potere di mutare la qualificazione giuridica della domanda (art. 113 c.p.c.), che, in ogni caso, deve trovare riproduzione anche nel dispositivo (oltre che nella motivazione).

La mancata statuizione su una domanda spiegata dalle parti, ancorché esaminata in parte motiva, condurrà al vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. (in questo senso, Cass. civ., sez. III, sent., n. 9263/2017), denunciabile con gli ordinari mezzi di impugnazione.

Allo stesso modo, ove il dispositivo contenga una pronuncia su una domanda non formulata, la sentenza sarà viziata per ultrapetizione e il rimedio esperibile è l'ordinario mezzo di impugnazione.

Il requisito della determinatezza, da intendersi anche in termini di determinabilità, consente di conferire concreta effettività alla decisione.

Solo un dispositivo determinato o determinabile è eseguibile, ovvero suscettibile di essere posto in esecuzione.

Ed è proprio con riferimento alla determinabilità del contenuto minimo del dispositivo che trova e ha trovato ampia disamina giurisprudenziale e dottrinaria la tematica dell'integrazione del dispositivo con i contenuti della motivazione.

Sul punto, può affermarsi che il dispositivo sia integrabile con la motivazione purché le due parti della sentenza non siano in insanabile contrasto tra loro.

Ed infatti, il principio secondo il quale la portata precettiva di una sentenza va individuata con riferimento non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione, trova applicazione tutte le volte che il giudice abbia pronunciato una sentenza di merito (di accertamento o di condanna) il cui dispositivo, in conseguenza della indeterminatezza o incompletezza del suo contenuto precettivo, si presti ad una integrazione, dando la prevalenza alla situazione contenuta in una delle indicate parti del provvedimento da interpretare come unica statuizione.

In sostanza, in caso di dispositivo indeterminato, la prima verifica da compiere è se lo stesso sia integrabile con i contenuti della motivazione.

Solo se tale integrazione non sia praticabile (ad esempio perché sussiste contrasto insanabile ovvero anche la motivazione risulti carente) il vizio del dispositivo – indeterminatezza – si convertirà in vizio di omessa pronuncia.

É chiaro infatti che un comando indeterminato non assolve alla propria funzione e non è idoneo allo scopo (soddisfacimento della pretesa dedotta in lite a mezzo esecuzione coattiva; risoluzione della lite con pronuncia della regula iuris di governo del rapporto idonea al passaggio in giudicato).

Di qui la sanzione della nullità ex artt. 161 e 156, comma 2, c.p.c..

In evidenza

La sentenza di condanna, che non contenga la determinazione della somma dovuta, costituisce titolo esecutivo a condizione che dal complesso di informazioni rinvenibili nel dispositivo e nella motivazione, anche mediante l'integrazione con elementi certi perché acquisiti agli atti o riguardanti dati ufficiali, possa procedersi alla quantificazione con un'operazione meramente matematica (Cass. civ., sez. L, sent., n. 9245/2009).

Tale orientamento, benché espresso in materia lavoristica, potrebbe essere applicato anche nelle altre materie e consente una eterointegrazione del dispositivo, non solo con la motivazione del provvedimento ma anche attraverso il richiamo a documenti noti alle parti o prodotti in giudizio.

Contrasto tra motivazione e dispositivo

Il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza, poiché non consente di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione, non può essere eliminato con il rimedio della correzione degli errori materiali, determinando, invece, la nullità della pronuncia ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c..

Nel rito ordinario, il contrasto tra dispositivo e motivazione va risolto, ove sanabile, attraverso l'interpretazione sistematica delle varie parti della sentenza.

Nel rito lavoro, invece, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria acquisisce rilevanza autonoma, poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale, che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, e non è suscettibile di interpretazione a mezzo della motivazione stessa, sicché le proposizioni in essa contenute e contrastanti con il dispositivo devono considerarsi non apposte e non sono idonee a passare in giudicato o ad arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile.

Tale prevalenza del dispositivo sulla motivazione, però, è circoscritta alle sole ipotesi in cui vi è contrasto tra le due parti della pronuncia; mentre, ove l'incompatibilità manchi, la portata precettiva della pronuncia va individuata, alla stregua di quanto avviene nel giudizio ordinario di cognizione, integrando il dispositivo con la motivazione.

In definitiva, il contrasto tra motivazione e dispositivo può risolversi a favore della statuizione contenuta nel dispositivo nell'ambito dei riti ove il dispositivo, per le caratteristiche di pubblicità che gli sono naturali (lettura in udienza/possibilità di immediata esecuzione in forma autonoma rispetto alla sentenza completa di motivazione) assume una forza precettiva maggiore rispetto alla motivazione.

Negli altri casi, il contrasto deve essere interpretato dal Giudice e, se non dà luogo a situazione di insanabile contrasto, il titolo va interpretato in relazione al significato complessivo della decisione.

Sulla scorta delle considerazioni svolte, può affermarsi, a proposito dello sforzo interpretativo richiesto ai fini della integrazione del dispositivo, che quanto più si estendono i parametri per ritenere integrabile aliunde il dispositivo ovvero superabile il contrasto tra questo e la motivazione, tanto più si limita il ricorso al mezzo di impugnazione, e ciò in ossequio al principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost..

É, dunque, nella prospettiva del principio costituzionale citato che va inquadrato l'orientamento, anche da ultimo ribadito, secondo il quale sussiste contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, solo quando il provvedimento risulti inidoneo a consentire l'individuazione del concreto comando giudiziale e, conseguentemente, del diritto o bene riconosciuto (così Cass. civ., sez. VI, ord., n. 6014/2017).

In evidenza

Nel caso di pronuncia contestuale della motivazione e del dispositivo nel rito ordinario, la situazione per cui la sentenza manifesti chiaramente o addirittura espressamente nella motivazione l'intenzione del giudice di accogliere la domanda di condanna, e nel dispositivo si limiti invece ad una statuizione meramente dichiarativa, non determina nemmeno astrattamente alcun problema di nullità della sentenza nella sua complessiva efficacia decisoria alla stregua del n. 4 dell'art. 360 c.p.c., in quanto non si concreta in un contrasto insanabile fra le due parti della sentenza, la motivazione ed il dispositivo, tale da indurre l'impossibilità di ricostruire in alcun modo il "dictum" della decisione stessa, bensì soltanto una potenziale incertezza , inducendo l'interprete a domandarsi se la sentenza nel suo complesso, cioè come combinazione della motivazione e del dispositivo, possa essere considerata, oltre che come statuizione di accertamento (presente sia nella motivazione sia nel dispositivo), anche come statuizione di condanna. Tale possibile incertezza può peraltro essere superata in due modi, uno solo dei quali può determinare l'approdo all'individuazione di un vizio di nullità parziale della sentenza. Il primo modo tiene conto della diversa funzione delle parti della sentenza costituite dal dispositivo e dalla motivazione ed in particolare del fatto che quest'ultima, poiché contiene «l'esposizione dei motivi in fatto ed in diritto della decisione» (art. 132, n. 4, c.p.c.; secondo l'art. 118 delle disp. att. «delle ragioni giuridiche della decisione»), costituisce la parte della sentenza che, dovendo rivelare le ragioni giuridiche della decisione, non può che rivelare anche il "dictum" formalmente espresso dal dispositivo, atteso che è impossibile che si possano esporre le ragioni di una decisione senza indicare appunto la decisione, cioè il loro punto di arrivo e le relative conseguenze. Ne discende che, in quanto il dispositivo ha la funzione di esprimere in forma riassuntiva la decisione, l'incertezza interpretativa emergente per la mancata riproduzione nel dispositivo di una parte della decisione non può che essere sciolta nel senso della prevalenza della motivazione. Il secondo modo di soluzione comporterebbe il riconoscere una prevalenza del dispositivo, nel senso che il contenuto della decisione dovrebbe essere soltanto quello in esso trasfuso, con la conseguenza che la sentenza sarebbe affetta da un'omissione di pronuncia, (art. 112 c.p.c.) e sotto tale profilo sarebbe nulla in "parte qua" e la relativa nullità sarebbe deducibile ai sensi del n. 4 dell'art. 360 cod. proc. civ. esclusivamente dalla parte che aveva domandato la decisione oggetto dell'omessa pronuncia (Cass. civ., sez. III, sent., n. 4741/2005).

La correzione dell'errore materiale

L'incompletezza del dispositivo e il contrasto con la motivazione possono, a determinate condizioni, essere emendate con il procedimento di correzione di errore materiale di cui agli artt. 287 e ss. c.p.c..

La praticabilità della procedura per la correzione dell'errore materiale evita alla parte che vi abbia interesse l'onere di ricorrere al mezzo di impugnazione per ottenere l'integrazione del provvedimento con la pronuncia (omessa) sulla domanda proposta ovvero per sanare il contrasto con la motivazione ed avvalersi perciò di un titolo completo e determinato, quindi idoneo al passaggio in giudicato e ad essere posto in esecuzione.

Il procedimento di correzione di errore materiale si ritiene ammissibile ove il contrasto derivi da errori, omissioni materiali e/o di calcolo che non comportino valutazioni ma solo “materiale adeguamento” e, più in generale, quando il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e della motivazione non incida sull'idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione.

Efficace appare la definizione di errore materiale fornita dalla Suprema Corte ove ha affermato che deve qualificarsi come errore materiale suscettibile di correzione, quello che non riguarda la sostanza del giudizio, ma la manifestazione del pensiero all'atto della formazione del provvedimento e si risolve in una fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza e come tale percepibile e rilevabile "ictu oculi"(Cass. civ., sez. I, sent., n. 19601/2011).

In applicazione di tale principio, la Cassazione ha ritenuto suscettibile di correzione il dispositivo di una sentenza, emessa quando il figlio era ormai maggiorenne, come accertato dal giudice del merito in motivazione, che conteneva l'imposizione di un assegno per il suo mantenimento «fino al raggiungimento della maggiore età».

Ancora, è suscettibile di essere corretto con il procedimento di cui all'art. 287 e ss. c.p.c. anche l'errore materiale di calcolo risultante dal confronto tra motivazione e dispositivo (si pensi al caso in cui in motivazione il Giudice indichi, ad esempio, quale parametro per la liquidazione del danno biologico le tabelle milanesi con indicazione di età del danneggiato e parametro applicato e in dispositivo erri nell'effettuare i conteggi); il dispositivo di conferma della sentenza di primo grado ove nell'esposizione delle motivazioni si evincono le ragioni dell'accoglimento delle critiche esposte dell'appellante; la condanna alle spese legali della parte non soccombente mediante inversione del nome del soccombente con quello del vincitore, ove in parte motiva si sia fatto espresso riferimento al principio di cui all'art. 91 c.p.c.; l'errata o inesatta indicazione delle parti nell'epigrafe o nel dispositivo della sentenza, qualora dalla stessa sentenza e dagli atti sia individuabile inequivocamente la parte pretermessa o inesattamente indicata.

Tra le numerose pronunce in materia, particolare rilievo assume il contrasto, sorto in giurisprudenza, in ordine alle spese di lite.

Una prima questione, quella relativa alla omessa pronuncia della distrazione delle spese in favore del difensore che ne abbia fatto richiesta, è stata risolta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 16037/2010), secondo cui, in caso di omessa pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un'espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma. La procedura di correzione, oltre ad essere in linea con il disposto dell'art. 93, comma 2, c.p.c. - che ad essa si richiama per il caso in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorari e spese - consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, garantisce con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattario di ottenere un titolo esecutivo ed è un rimedio applicabile, ai sensi dell'art. 391-bisc.p.c., anche nei confronti delle pronunce della Corte di cassazione.

Nel solco di detta pronuncia, si pone poi il recentissimo intervento dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, in ordine alla praticabilità del procedimento ex artt. 287 e ss. c.p.c. in caso di omessa liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza.

Prima dell'intervento risolutore delle Sezioni Unite, secondo un primo orientamento, la procedura di correzione di errore materiale deve ritenersi esperibile per rimediare all'omessa liquidazione delle spese processuali nel dispositivo della sentenza, qualora l'omissione non evidenzi un contrasto tra motivazione e dispositivo, ma solo una dimenticanza dell'estensore (Cass. civ.,sez. VI, ord., n. 15650/2016); secondo altro orientamento, invece, la sentenza che, pur correttamente statuendo sulle spese in motivazione, ne ometta, poi, la loro totale o parziale liquidazione in dispositivo, non è emendabile con la procedura di correzione dell'errore materiale, attesa la necessità, ai fini della loro concreta determinazione e quantificazione, di una pronuncia del giudice (Cass. civ.,sez. I, sent., n. 21109/2014).

Con la recentissima pronuncia, le Sezioni Unite della Suprema Corte, richiamando la precedente pronuncia a Sezioni Unite del 2010, hanno, anzitutto, avallato l'interpretazione per la quale l'errore materiale consiste in qualsiasi errore anche non omissivo che derivi dalla necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, oppure una statuizione obbligatoria di carattere accessoria anche se a contenuto discrezionale, e hanno poi affermato che la liquidazione delle spese ha senza dubbio natura accessoria e obbligatoria nell'economia della decisione e non incide sul contenuto della decisione.

Poste tali premesse (natura accessoria e obbligatoria della pronuncia sulle spese e autonomia rispetto alla contenuto sostanziale della decisione), hanno precisato che, ove la motivazione della sentenza contenga la statuizione che pone le spese a carico del soccombente, la liquidazione delle spese in dispositivo richiede un'operazione tecnico-esecutiva da realizzare sui presupposti e parametri oggettivi fissati dalla legge, sicché la sua eventuale omissione è emendabile con il procedimento di cui all'art. 287 c.p.c., certamente funzionale, stante la celerità, alla realizzazione dei principi costituzionali della ragionevole durata del processo e del giusto processo.

Trova dunque conferma l'assunto secondo cui quanto più voglia darsi attuazione al principio di cui all'art. 111 Cost. tanto più l'interprete si troverà impegnato a fornire letture e proporre impostazioni che si pongano, tra gli altri, anche l'obiettivo di limitare il ricorso a rimedi giurisdizionali che necessitano di un importante dispendio di attività processuali non giustificate da altri principi di pari rango costituzionale, quali il principio del contraddittorio e il diritto di difesa.

Riferimenti
  • Mandrioli, Diritto processuale civile, XVIII edizione;
  • Commentario breve al codice di procedura civile, Ed. 2016, Padova.
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