Time out: il “decalogo” della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino

04 Settembre 2018

L'Autore formula una motivata critica del recente indirizzo della Cassazione, culminato nel c.d. “decalogo” (Cass. civ. n. 7513/2018) che, pur premettendo la natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, sostiene, in contrasto con le “sentenze di San Martino”, la separata valutazione e liquidazione del danno dinamico-relazionale e del danno da sofferenza interiore. Anche recenti arresti della Medicina legale affermano l'autonomia ontologica della sofferenza morale rispetto al danno alla salute, entrambi suscettibili di accertamento e valutazione medico legale.
Premessa

La Cassazione, negli ultimi tempi, con sempre più articolate argomentazioni, ha affermato principi di diritto che, formalmente e dichiaratamente, si pongono nel solco delle c.d. “sentenze di San Martino” (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 nn. 26972-26973-26974-26975), ma in realtà ne minano le fondamenta logiche e scientifiche.

In particolare, si procede alla disamina critica delle sentenze n. 901/2018 (Pres. e rel. G. Travaglino) e n. 7513/2018 (Pres. G.Travaglino e rel. M.Rossetti) della Corte di Cassazione, pubblicate rispettivamente il 17 gennaio e il 27 marzo del 2018 (da ultimo, analogo principio di diritto è stato affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 13770/2018, Pres. G.Travaglino e rel. A.Di Florio, pubblicata il 31 maggio 2018).

a) Sentenza Cass. civ., 17 gennaio 2018 n. 901

La sentenza n. 901/2018 della Corte di Cassazione ha ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno da mancato consenso informato al trattamento sanitario di laparotomia.

La Corte d'Appello di Roma (nel giudizio di rinvio dalla Cassazione):

  • aveva confermato la percentuale di danno biologico (pari all'8%) determinata in termini di riduzione della capacità gestazionale;
  • aveva applicato le tabelle milanesi e, riconoscendo la massima percentuale di personalizzazione, aveva liquidato all'attrice la somma complessiva di Euro 27.770,00;
  • aveva ritenuto che il danno morale fosse incluso e ricompreso nel calcolo tabellare, pervenendosi, altrimenti opinando, "ad un'indebita duplicazione del danno non patrimoniale, mentre trattasi di categoria unitaria" e che il danno da lesione del diritto al consenso informato dovesse essere liquidato, in via equitativa, nella misura di Euro 10.000,00.

La Cassazione si pronuncia sul ricorso proposto dai coniugi e cassa la sentenza impugnata perché (tra l'altro) aveva ritenuto, «del tutto erroneamente, che il danno morale è incluso nel calcolo tabellare, onde il suo riconoscimento avrebbe comportato duplicazione risarcitoria».

b) Sentenza Cass. civ., 27 marzo 2018 n. 7513 (c.d. “decalogo”)

La sentenza n. 7513/2018 della Corte di Cassazione ha ad oggetto il risarcimento del danno chiesto da una vittima che aveva subito un danno biologico accertato dal CTU nella misura del 38%.

Il Tribunale di Frosinone aveva applicato le tabelle milanesi, procedendo alla personalizzazione con incremento del valore standard nella percentuale del 25%, sul presupposto che la prova testimoniale aveva accertato che la vittima, in conseguenza dei postumi permanenti, aveva patito «un grave e permanente danno dinamico-relazionale consistito nella forzosa rinuncia ad attività precedentemente praticate, tra le quali il Tribunale indicò la cura dell'orto e del vigneto».

La Corte d'Appello di Roma aveva accolto il gravame proposto dalla compagnia assicuratrice, ritenendo, invece, che il Tribunale, aumentando del 25% la misura standard del risarcimento del danno biologico, avesse duplicato il risarcimento; conseguentemente la Corte d'Appello ridusse del 25% la liquidazione del risarcimento del danno biologico.

La Cassazione, muovendo dal presupposto che il CTU aveva accertato «un grave impedimento alle attività ludico-creative», qualificato dalla Corte d'Appello come "danno dinamico-relazionale", e che quest'ultima, tuttavia, non aveva operato l'incremento del risarcimento del danno da personalizzazione, rigetta il quinto motivo di ricorso proposto dalla vittima, poiché occorre «ritenere in facto, da un lato, che una certa conseguenza della menomazione sia comune a tutte le persone che quella menomazione patiscano, e, dall'altro, soggiungere in iure che quella menomazione non imponga di conseguenza alcuna personalizzazione del risarcimento. Lo stabilire, poi, se tutte le persone che abbiano una invalidità permanente del 38% riducano o non riducano la propria vita di relazione costituisce un tipico apprezzamento di merito».

Questioni condivise

Ritengo condivisibile la gran parte dei principi di diritto enunciati nelle due sentenze esaminate.

La nozione ed il contenuto del danno biologico

In primo luogo è opportuno premettere che la nozione di danno biologico è data dal Codice delle Assicurazioni negli artt. 138 e 139: «per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito».

La Cassazione nella sent. n. 7513/2018 acutamente evidenzia quanto segue:

la l. n. 57/2001, art. 5, comma 5 delegò il Governo ad emanare una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità, il quale vi provvide col D.M. 3 luglio 2003, tuttora vigente. In esso si sottolinea che la menomazione dell'integrità psico-fisica della persona «esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti personali dinamico-relazionali della vita del danneggiato»; nell'Allegato 1 del medesimo D.M. 3 luglio 2003 si aggiunge che «ove la menomazione incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali personali, lo specialista medico legale dovrà fornire motivate indicazioni aggiuntive che definiscano l'eventuale maggiore danno»; in definitiva, quindi, l'espressione "danno dinamico-relazionale" non è altro che una perifrasi del concetto di "danno biologico".

Da questa premessa la Cassazione (sempre in Cass. civ., n. 7513/2018) enuclea tre conseguenze:

  1. «la prima è che deve essere rettamente inteso il senso del discorrere di "danni dinamico-relazionali" (ovvero, con formula più arcaica ma più nobile, "danni alla vita di relazione"), in presenza d'una lesione della salute. La lesione della salute risarcibile in null'altro consiste, su quel medesimo piano, che nella compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane tutte, nessuna esclusa: dal fare, all'essere, all'apparire». Trova quindi piena giustificazione il punto 6) del “decalogo”: «in presenza d'un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)»;
  2. la seconda è che le conseguenze della menomazione possono essere necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità ovvero peculiari del caso concreto, qualora abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili: la liquidazione delle prime presuppone la mera dimostrazione dell'esistenza dell'invalidità mentre la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell'effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto. «In applicazione di tali principi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali”, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione»;
  3. «la terza conseguenza, di natura processuale, è che le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un "fatto costitutivo" della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall'attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l'allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Cass. civ., Sez. Un., sent. n. 26972 del 11 novembre 2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche».

La nozione di sofferenza interiore

Per “danno non patrimoniale” (con la sola esclusione della sentenza Corte Cost. n. 88/1979), fino alle citate “sentenze di San Martino”, si è sempre inteso, quasi come sinonimo, il “danno morale soggettivo”, quale transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima: afflizioni morali e turbamenti dello stato d'animo del danneggiato.

Le Sezioni Unite del 2008, invece, hanno stigmatizzato che l'interpretazione dell'art. 2059 c.c. come contenitore del solo “danno morale soggettivo transeunte” deve essere definitivamente superata, perché senza fondamento normativo e perché «la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. (…) La formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento (…) Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale».

Credo si inseriscano in questo indirizzo Cass. civ., n. 7513/2018, secondo cui nella sofferenza interiore rientrano «ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione» e la sentenza n. 901/2018, secondo cui il giudice, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale deve tener conto anche «dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sè, la malinconia, la tristezza)».

La natura unitaria del danno non patrimoniale

Per la Cassazione,(Cass. civ., n. 901/2018), la natura cd. "unitaria" del danno non patrimoniale, «come espressamente predicata dalle sezioni unite di questa Corte con le sentenze del 2008, deve essere intesa, secondo il relativo insegnamento, come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica (Cass. ss.uu. 26972/2008). Natura unitaria sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, del rapporto parentale».

È opportuno qui richiamare i punti 1), 2), 3), 4) e 5) della sentenza “decalogo”:

«1) l'ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale;

2) il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomenologicamente) unitaria;

3) "categoria unitaria" del danno non patrimoniale vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223,1226,2056,2059 c.c.);

4) nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell'illecito; e dall'altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici»;

5) il giudice, «all'uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova», dovrà opportunamente accertare «come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio».

Nel punto 10 del “decalogo” si precisa che il danno non patrimoniale (anche nelle ipotesi diverse dal danno biologico) va sempre liquidato «tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso».

In armonia con queste statuizioni, nella sentenza Cass. civ., n. 901/2018 si afferma che il giudice «deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo “in pejus” con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale)». Infatti «esistenziale è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute (ma non solo), si colloca e si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto, come conseguenza della lesione medicalmente accertabile (Cass.civ.,Sez. Un. n. 6572/2006, sia pur con riferimento alla diversa tematica del mobbing, lo definirà come "pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno")».

Ritengo assolutamente condivisibili le statuizioni che precedono. Del resto, proprio dopo la citata sentenza della Cassazione (Cass. civ., Sez. Un., n. 6572/2006), che sembrava riconoscere in termini generali il danno esistenziale, già nella sentenza Trib. Milano, 4 marzo 2008 n. 2847 (pubblicata su "Danno e Responsabilità", n. 8-9/2008 ed in “Guida al diritto”, dossier n. 4/2008) sostenevo che, in definitiva, sempre (e solo) a due grandi voci si può ricondurre il danno non patrimoniale:

«Ma in tutti i casi in cui si applica l'art. 2059 c.c., alla luce anche della sentenza n. 6572/2006, qual è l'effettivo contenuto del danno non patrimoniale risarcibile?

Da un'attenta ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale, si evince che, in definitiva, tutti i pregiudizi riconducibili al genusdel danno non patrimoniale possono essere ricompresi in due sole species:

a) un patema d'animo cd. “danno morale soggettivo”, che attiene alla sfera interiore del soggetto;

b) un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che in tal senso può anche definirsi “esistenziale”, nella nozione accolta dalle Sezioni Unite».

In quella sentenza sostenevo che il genus rimanesse il danno non patrimoniale, e che il danno biologico fosse esattamente coincidente con il danno esistenziale di cui alla menzionata lett. b), con l'unica peculiarità di essere conseguente alla lesione del bene giuridico salute.

Pochi mesi dopo la Cassazione, nelle “sentenze di San Martino”, affermava che «il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno».

Nelle “sentenze di San Martino”, quindi, la natura unitaria del danno non patrimoniale comporta che tutti i pregiudizi non patrimoniali (biologico, da perdita parentale, esistenziale, sofferenza interiore) non danno luogo a diverse tipologie/categorie di danno, ma, quali “voci descrittive”, mirano solo a cogliere una più completa considerazione dell'insieme di cui fanno parte e devono essere quindi congiuntamente liquidati.

Nonostante un'apparente omogeneità di contenuti, nelle sentenze della Cassazione nn. 901/2018 e 7513/2018, il richiamo all'unitarietà del danno non patrimoniale mira invece ad enfatizzare la (corretta) duplice costante natura dei pregiudizi (danno relazionale-esistenziale e danno da sofferenza interiore-morale) conseguenti alla lesione di tutti i diritti-valori della persona tutelati dalla Carta costituzionale, pregiudizi soggetti alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.), quale premessa però per la non condivisibile liquidazione atomistica.

La natura onnicomprensiva del danno non patrimoniale

Nella sentenza n. 901/2018, la Cassazione chiarisce che, per natura onnicomprensiva del danno patrimoniale, deve intendersi che, «nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari».

Anche questa affermazione è condivisibile e appare in perfetta armonia con le statuizioni contenute nelle “sentenze di San Martino”, secondo cui «Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre». È tuttavia necessario che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza) e che il danno non sia futile (SPERA D., Risarcimento del danno non patrimoniale, in Ridare.it).

Questione controversa: separata liquidazione del danno da sofferenza interiore e del danno dinamico-relazionale nelle sentenze Cass. civ., n. 901/2018 e n. 7513/2018

Si afferma nella sentenza Cass. civ., n. 901/2018 che «Oggetto della valutazione di ogni giudice chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali è, nel prisma multiforme del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto; (…) restano così efficacemente scolpiti i due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore e/o la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili».

La Cassazioneravvisa la conferma di questa statuizione nella pronuncia della Corte cost. n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. ass., la quale afferma che «la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)». La Corte costituzionale sottolinea che «l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno - attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella - lascia comunque spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio risultante dall'applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato». Per la Cassazione (sempre nella sentenza n. 901/2018) «Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa di una pretesa "unitarietà onnicomprensiva" del danno biologico.Anche all'interno del sotto-sistema delle micro-permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche sovrapporsi alla fenomenologia del danno alla persona) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto». Inoltre, nelle lesioni di non lieve entità, ex art. 138 cod. ass., «l'equo apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato è funzione necessaria ed esclusiva della rilevante incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico relazionali personali. Il che conferma, seppur fosse ancora necessario, la legittimità dell'individuazione della doppia dimensione fenomenologica della sofferenza, quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece, evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento (…) senza che ciò costituisca alcuna "duplicazione risarcitoria”. In altri termini, se le tabelle del danno biologico offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto. Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore. Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro predicabile».

Con evidenza ancora maggiore nei punti 8 e 9 del “decalogo” si stigmatizza:

8) «in presenza d'un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)»;

9) «ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l'esistenza d'uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (come è confermato, oggi, dal testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., così come modificati della L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, nella parte in cui, sotto l'unitaria definizione di "danno non patrimoniale", distinguono il danno dinamico relazionale causato dalle lesioni da quello "morale")».

Emerge quindi con chiarezza che questi principi di diritto si pongono in netto contrasto con le “sentenze di San Martino, in cui si afferma la necessità di distinguerel'ipotesi in cui la sofferenza soggettiva sia in sé considerata da quella in cui la sofferenza si presenti come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale: «ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato. Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione. Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo). Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora».

Le ragioni della liquidazione unitaria del danno da sofferenza interiore e del danno dinamico-relazionale

Le motivazioni esposte nelle sentenze della Cassazione (Cass. civ. n. 901/2018 e Cass. civ., n. 7513/2018) non appaiono convincenti, anche alla luce delle inaccettabili ricadute che possono riverberare in relazione a ciascun parametro di liquidazione del danno da lesione del bene salute.

Le Tabelle milanesi Edizioni 2009-2018 del danno non patrimoniale da lesione del bene salute

L'Osservatorio di Milano, nel solco delle “Sezioni Unite di San Martino”, prese atto che quando c'è lesione biologica i pregiudizi conseguenti alla menomazione psicofisica – «il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare» e quello ravvisato nella pena e nel dolore conseguenti e cioè «nella sofferenza morale determinata dal non poter fare» - sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la sofferenza morale «componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale». I giudici devono, quindi, con congrua motivazione, “procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico”, valutando congiuntamente i pregiudizi anatomo-funzionali e le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso (v. amplius, D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, 2018).

Sulla base di questi presupposti, risultò subito evidente che non fosse più possibile continuare ad applicare la precedente Tabella milanese di liquidazione del danno non patrimoniale, atteso che la medesima prevedeva la separata liquidazione del danno morale/sofferenza interiore, nella misura da un quarto alla metà dell'importo liquidato per il danno biologico.

L'Osservatorio milanese ritenne quindi la necessità di adeguare la Tabella milanese ai dicta delle Sezioni Unite.

Nei “Criteri orientativi” delle tabelle Edizione 2009 si proponeva, quindi, per il risarcimento del danno biologico permanente (ma analogo criterio valeva anche per quello temporaneo), la «liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di:

  • c.d. danno biologico “standard”,
  • c.d. personalizzazione - per particolari condizioni soggettive - del danno biologico,
  • c.d. danno morale.

Per individuare i valori monetari di tale liquidazione congiunta, si è poi fatto riferimento all'andamento dei precedenti degli Uffici giudiziari di Milano, e si è quindi pensato:

  • a una tabella di valori monetari “medi”, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini "standardizzabili" in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva);
  • a una percentuale di aumento di tali valori “medi” da utilizzarsi -onde consentire un'adeguata "personalizzazione" complessiva della liquidazione- laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato, in particolare:
    • sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali (ad es. lavoratore soggetto a maggior sforzo fisico senza conseguenze patrimoniali; lesione al "dito del pianista dilettante"),
    • sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es. dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto lesivo),

ferma restando, ovviamente, la possibilità che il giudice moduli la liquidazione oltre i valori minimi e massimi, in relazione a fattispecie del tutto eccezionali rispetto alla casistica comune degli illeciti» (D.SPERA, Tabelle del Tribunale di Milano, in Ridare.it).

Perché si potesse conservare la “tracciabilità storica” di questa innovazione, l'Osservatorio ha affiancato alla colonna del “Punto biologico 2008” (quello riconducibile al solo danno biologico standard depurato dal danno morale, risalente all'anno 1996 e con i successivi adeguamenti ISTAT), una seconda colonna avente ad oggetto il “Punto danno non patrimoniale al 2008”, curva risarcitoria standard ricostruita con la congiunta liquidazione del danno biologico e di quello da sofferenza interiore (ex morale).

Per la costruzione di questa seconda colonna, sulla base dei precedenti giurisprudenziali che liquidavano in via presuntiva il danno morale in misura progressiva rispetto alle percentuali di invalidità, il punto biologico base della tabella Edizione 2008 è stato aumentato nella misura del 25% per le micropermanenti; l'aumento percentuale è stato via via incrementato dal 26% al 50% in relazione alle invalidità corrispondenti da 10 a 34 punti percentuali; questo incremento rimane poi costante sino al 100% di invalidità. L'aumento personalizzato (indicato nell'ultima colonna della tabella) prevede, correlativamente, percentuali fino al 50% per tutte le micropermanenti e poi dal 49% sino al 25%, in relazione alle invalidità corrispondenti da 10 a 34 punti percentuali, rimanendo costante in tale misura fino al 100% (v. D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, 2018).

Ebbene, allorché le recenti sentenze della Cassazione affermano che danno anatomo-funzionale, da sofferenza soggettiva interiore (ex morale) e danno esistenziale/dinamico relazionale sono danni “ontologicamente diversi”, bisognerebbe limitarsi ad evidenziarne la corretta diversa essenza strutturale.

Ritengo, infatti, che la liquidazione congiunta di tutti tali pregiudizi non comporti necessariamente la negazione della loro distinta entità ed ontologica autonomia.

Al contrario, già avvertivano le “sentenze gemelle” (Cass. civ., n. 8827/2003 e Cass. civ., n. 8828/2003) che, nella valutazione dei pregiudizi non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente protetti, segnatamente in relazione al danno morale, sussistono «innegabili difficoltà nella distinzione di pregiudizi che, pur ontologicamente diversi tra loro, concernono ambiti che tendono talora a sovrapporsi». Infatti «la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi). (…) E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona».

Anche le “sentenze di San Martino”, lungi dall'escludere la liquidazione dell'una o dell'altra voce di danno, sollecitano il giudice a «procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza».

Inoltre, la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 15350/2015 ha ribadito la necessità della unitaria liquidazione del danno non patrimoniale per i pregiudizi di tipo relazionale e di sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale.

In definitiva, nessuno ha mai sostenuto che la sofferenza interiore costituisca il medesimo pregiudizio denominato anatomo-funzionale (danno biologico) o dinamico relazionale (danno esistenziale), ma, con rigore scientifico ed argomentazione più moderna ed intelligente (forse unica nell'intero panorama europeo), le Sezioni Unite hanno voluto sostenere che la liquidazione del danno-conseguenza deve avere necessariamente riguardo al danno non patrimoniale complessivamente subito dalla vittima, non per ridurre il risarcimento, ma per evitarne una sorta di vivisezione: la “voce” danno da pregiudizio anatomo-funzionale va valutata congiuntamente (e non separatamente) alle altre voci di pregiudizi dinamico relazionali e da sofferenza interiore.

Non credo proprio che questa raffinata architettura del danno non patrimoniale possa essere inficiata da due provvedimenti normativi settoriali, il d.P.R. n. 37/2009 (poi abrogato e che disciplinava la liquidazione del danno biologico e del danno morale per le vittime in missioni militari all'estero) ed il d.P.R. n. 181/2009 (che disciplina il danno biologico e morale subito dalle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice), emessi probabilmente senza neppure la consapevolezza del contrasto con i nuovi (all'epoca recentissimi) arresti della giurisprudenza di “San Martino 2008”.

Nella tabella milanese dunque, in relazione ai valori monetari “medi”, il danno non patrimoniale da lesione del bene salute tiene già debitamente conto della sofferenza soggettiva (morale) media e del pregiudizio dinamico relazionale (esistenziale) medio che normalmente si accompagnano ad una determinata menomazione biologica (temporanea o permanente), pregiudizi che dunque possono essere ritenuti provati in via presuntiva.

Nella percentuale di personalizzazione di tali valori medi il giudice terrà invece conto delle peculiarità del caso concreto allegate e provate dal danneggiato, sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e dinamico relazionali sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva, qualora ritenuti di speciale intensità e quindi non del tutto considerati e ricompresi in quell'aumento dei valori effettuati nell'Edizione 2009 della Tabella milanese nel nuovo citato «punto danno non patrimoniale».

Temo invece che, procedendo con autonome liquidazioni, sia fortissimo il rischio di duplicare il risarcimento del medesimo pregiudizio, rischio che si scolpisce con maggiore evidenza nelle ipotesi di personalizzazioni: per le sentenze della Cassazione 2018, allorché vi sia la prova che la menomazione accertata abbia inciso in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, ad esempio quando risulti compromessa la pratica di un hobby amatoriale, si dovrebbe risarcire, oltre al danno biologico standard, l'ulteriore danno dinamico relazionale e, poi, separatamente, la maggiore sofferenza interiore che consegue alla mancata pratica del medesimo hobby.

Ma la tesi propugnata nelle sentenze Cass. civ. n. 901/2018 e Cass. civ. n. 7513/2018 mostra incongruenze anche per la liquidazione del danno “standard” conseguente alla lesione del bene salute, allorché non si applichino le tabelle normative.

La giurisprudenza e gli operatori dovrebbero riposizionare le lancette dell'orologio a dieci anni fa, anteSezioni Unite di San Martino”.

Il giudice dovrebbe in primo luogo liquidare il solo danno biologico, eventualmente avvalendosi della prima colonna della tabella milanese “Punto biologico 2008 riv. al 2018”; successivamentedovrebbeliquidare, a parte, «una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale (… ) rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)» (in questi termini il citato punto 8 del “decalogo”).

Ma quale sarebbe l'effetto pratico?

Non sarà sempre possibile provare in concreto nel giudizio civile il grado di sofferenza interiore subito, a meno che non si articoli una complessa e defaticante istruttoria.

In concreto, il giudice, in via presuntiva, dovrebbe ritenere provata una sofferenza media correlata al grado di invalidità; ma così facendo finirà con l'applicare anche la seconda colonna della tabella milanese “Punto danno non patrimoniale al 2018”.

In sede stragiudiziale, al fine di comporre bonariamente il conflitto, le parti avranno comunque bisogno di ancorare le rispettive proposte ad un criterio generalmente condiviso e dunque, ancora una volta, alle vigenti tabelle milanesi.

La soluzione proposta dalle sentenze qui criticate rischia di tradursi in un mero maquillage senza significativi effetti pratici, al contempo disattendendo il rigore logico delle esposte argomentazioni delle Sezioni Unite.

Ma gli effetti potrebbero essere ancora più devastanti.

Una parte della dottrina e della giurisprudenza potrebbe “cogliere l'occasione” del “decalogo” per superare le prescrizioni della sentenza c.d. “Amatucci” (Cass. civ., n. 12408/2011): in presenza di nuovi criteri di accertamento e liquidazione del danno biologico, la tabella milanese, in questa ipotetica nuova stagione, potrebbe non essere più quella maggiormente adottata dagli uffici giudiziari d'Italia. Si tornerebbe al caos (imperante agli inizi del secolo) della polverizzazione dei criteri di liquidazione per ogni ufficio giudiziario e franerebbe ogni argine all'orgoglio campanilistico delle singole realtà territoriali!

In questo scenario, difetterebbe quindi il presupposto principale per ravvisare un unico criterio paranormativo di liquidazione del danno non patrimoniale, con evidente rischio di liquidazioni giudiziali eccessivamente discrezionali e decisioni non sufficientemente prevedibili, in palese violazione del principio costituzionale di uguaglianza-ragionevolezza.

La Tabella normativa ex art. 139 cod. ass.

L'art. 139 cod. ass. (d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209) è stato sostituto dall'art. 1, comma 19, l. 4 agosto 2017, n. 124 (pubblicata in G.U. 14 agosto 2017, n. 189), c.d. “Legge Concorrenza”, vigente dal 29 agosto 2017.

L'art. 139 contiene la menzionata nozione, compiuta e condivisa, del danno biologico; indica speciali criteri di accertamento e di liquidazione del Danno non patrimoniale per lesioni di lieve entità e si applica esclusivamente a quelle lesioni del bene salute che siano state cagionate dagli incidenti disciplinati dal Titolo X del Codice delle Assicurazioni ovvero siano conseguenza dell'attività della struttura sanitaria e dell'esercente la professione sanitaria (nei termini ora regolati dalla “Legge Gelli-Bianco”, n. 24/2017); se il danno alla salute ha invece altra eziologia si deve fare applicazione della tabella milanese (Cass. civ., sent. n. 12408/2011). Particolare attenzione deve essere dedicata all'allegazione e alla prova dei presupposti che possano giustificare l'aumento del risarcimento del danno fino al 20% dell'importo base stabilito nella tabella normativa.

La Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 235/2014, avvertiva che le “sentenze di San Martino” hanno chiarito «come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato − «rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». La norma denunciata non è, quindi, chiusa, come paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3».

Dunque la costituzionalità della norma trova la sua premessa proprio nelle statuizioni contenute nelle “sentenze di San Martino”, che le due sentenze della Cassazione 2018 tentano di superare.

Inoltre l'aumento personalizzato per il danno da sofferenza (ex danno morale) entro la percentuale del 20% non può certamente escludere la personalizzazione del danno alla salute per altre ragioni dinamico relazionali e, dunque, la Corte costituzionale non esclude affatto possa procedersi alla congiunta personalizzazione per peculiari e diverse ragioni, ma comunque entro il limite massimo del 20% dell'importo base.

Comunque, per evitare altre possibili zone d'ombra e di dubbio, la novella della Legge concorrenza ha espressamente previsto (come per l'art. 138) che «Qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati ovvero causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità, l'ammontare del risarcimento del danno (…) può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 20 per cento».

Quindi, la citata sentenza della Corte costituzionale, prima, e il legislatore, dopo, sembrano auspicare proprio che l'eventuale personalizzazione si effettui mediante una maggiore liquidazione congiunta degli aspetti dinamico-relazionali (sfera esteriore) e di quelli sofferenziali (sfera interiore), nel limite massimo del 20%.

Non dovrebbe esserci molto spazio, invece, per l'applicazione autonoma dell'inciso relativo alla “sofferenza psico-fisica di particolare intensità” e cioè per la liquidazione della sofferenza intesa come pregiudizio non patrimoniale diverso dalla incidenza negativa «sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato», per l'ovvia ragione che la compromissione di queste ultime determina sicuramente sofferenza riconducibile alla “sofferenza del non poter più fare”, come si è detto (già) oggetto del risarcimento personalizzato (D.SPERA, Liquidazione danno non patrimoniale per lesioni micropermanenti, in Ridare.it).

L'inciso “sofferenza psico-fisica” non potrà trovare neppure applicazione nella sofferenza esclusivamente fisica (temporanea o permanente) conseguente alla menomazione, perché la stessa è già valutata dal medico legale ai fini della quantificazione del danno biologico standard (e comune a tutti) e non ai fini della personalizzazione giustificata dalle peculiarità della fattispecie concreta.

L'inciso potrebbe invece applicarsi nell'ipotesi di sofferenza psico-fisica di particolare intensità”, che, pur non degenerando in danno biologico-psichico - per l'accertamento del quale è necessario l'ausilio del CTU psichiatra forense (o psicologo giuridico, secondo una tesi ancora controversa tra i giudici di merito) - attenga esclusivamente alla sfera interiore: un disagio psicologico che non compromette il “funzionamento dell'Io” nelle sue funzioni di adattamento e di organizzazione e controllo e non si traduce, quindi, nella compromissione di attività quotidiane e di interazioni dinamico relazionali, ma comporta comunque intense reazioni emotive e comportamentali del soggetto, e rilevanti strategie di adattamento (ad esempio: una cicatrice che cagioni un danno estetico valutato dal CTU medico legale con i consueti barème, ma che determina particolare sofferenza della vittima, che, pur continuando a compiere le sue quotidiane attività come prima, viva con malinconia o tristezza ovvero modifichi sensibilmente il proprio stile di abbigliamento per nascondere la menomazione). Questo danno potrà essere di regola provato mediante CTU con un medico legale che sia coadiuvato da un esperto in psicologia giuridica o anche uno psichiatra forense; in taluni casi, peraltro, potrebbe anche non essere necessaria la consulenza tecnica d'ufficio, qualora la sofferenza interiore risulti dimostrata mediante prove orali e/o documentali che consentano di accertare le circostanze di fatto da cui poter desumere, in via presuntiva, la particolare intensità del dolore interiore della vittima, superiore a quella del danneggiato che abbia subito analoghe compromissioni biologiche (ad esempio: dai documenti risulti un repentino calo del rendimento scolastico dopo l'evento che ha cagionato la menomazione fisica).

La Tabella normativa ex art. 138 cod. ass.

Ho già contestato che la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 235/2014, con l'inciso «l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno - attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità», avrebbe determinato la conseguenza che, per le lesioni di non lieve entità, l'art. 138 cod. ass. avrebbe lasciato libero il giudice di quantificarela sofferenza interiore «nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento» (come invece ritenuto nelle sentenze Cass. civ., n. 901/2018 e Cass. civ., n. 11851/2015).

La tesi non è neppure confermata dal nuovo testo dell'art. 138 introdotto dall'art. 1, comma 17, l. 4 agosto 2017, n. 124 , a differenza di quanto invece stigmatizza il citato punto 9 della sentenza “decalogo”.

Ed ecco le ragioni del mio dissenso:

  • l'art. 138 cod. ass. (a differenza dell'art. 139), sia nel testo originario che in quello ex Legge Concorrenza, non è mai entrato in vigore nella perdurante mancanza del decreto del Presidente della Repubblica, che si sarebbe dovuto adottare nel termine (nuovamente scaduto) di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della “Legge Concorrenza”; in ogni caso la disciplina novellata «si applica ai sinistri e agli eventi verificatisi successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto del Presidente della Repubblica» (ai sensi dell'art. 1, comma 18, Legge Concorrenza;
  • il comma 2, lett. e) del novellato art. 138dispone che «al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all'integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico stabilita in applicazione dei criteri di cui alle lettere da a) a d) è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione». Trattasi in definitiva del medesimo descritto percorso che nell'anno 2009 è culminato nella elaborazione della nuova curva della tabella milanese, costruita sul “punto danno non patrimoniale 2008”;
  • è solo per mera sciatteria legislativa che nell'art. 138 si faccia menzione del “danno morale” e nel successivo art. 139 si menzioni, invece, la “sofferenza psico-fisica”: non v'è dubbio che si tratti del medesimo pregiudizio non patrimoniale ora definito “sofferenza soggettiva interiore”. Una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con la esposta positiva evoluzione della definizione e del contenuto del danno biologico e (più in generale) del danno non patrimoniale; minerebbe senza alcuna ragione giustificativa l'intima coerenza faticosamente raggiunta dell'intero sistema di liquidazione del danno ex art. 2059 c.c.;
  • ritenere che, nelle ipotesi disciplinate dall'art. 138, la personalizzazione del danno sia consentita nei limiti del 30% dell'importo base allorché la menomazione incida in maniera rilevante su “specifici aspetti dinamico-relazionali personali” (e cioè nella sfera esteriore) e sia, invece, illimitata per la sofferenza soggettiva (e cioè nella sfera interiore):
  1. renderebbe privo di senso l'incremento degli importi del danno biologico standard con la componente di danno morale e, quindi, la costruzione della curva di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del bene salute (ai sensi del comma 3);
  2. comporterebbe (nella maggioranza dei casi) un'evidente duplicazione del risarcimento del medesimo pregiudizio
  3. contrasterebbe con l'espressa previsione di “esaustività” del risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi del comma 4 dello stesso articolo;
  4. in considerazione, invece, della contiguità o, meglio ancora, commistione tra sofferenza soggettiva interiore e pregiudizio esteriore relazionale, la prova in concreto ottenuta con tutti i mezzi probatori (esclusa solamente quella presuntiva) di particolari sofferenze soggettive, che si riflettano in mutate condizioni di vita ovvero (eccezionalmente) rimangano allo stato di sofferenza interiore, potrà comportare l'aumento della liquidazione del risarcimento, ma pur sempre nel limite massimo del 30%. Anche questa conclusione è in armonia con gli altri descritti criteri di risarcimento del danno.

L'accertamento medico legale e i nuovi arresti della Dottrina

Nell'accertamento del grado di invalidità e nella esatta consequenziale determinazione del danno biologico, il giudice affiderà l'espletamento della consulenza tecnica “a un medico specializzato in medicina legale e (ove ritenuto necessario) a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza”di quanto oggetto dell'indagine peritale (arg. ex art. 15 Legge Gelli-Bianco).

La sofferenza fisica è certamente oggetto dell'indagine peritale, perché nella valutazione percentuale del danno biologico (permanente e temporaneo), il consulente tecnico non trascura il dolore fisico, ovvero la componente sensoriale algica, e quantifica il danno biologico base anche in ragione dell'entità delle disfunzioni condizionate dal dolore (come, ad esempio nell'ipotesi della zoppia “di fuga”, perché la compromissione deambulatoria è determinata da dolore al carico) (v. RONCHI-MASTROROBERTO-GENOVESE, Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente, Giuffrè, 2015).

Ritengo, invece, che la sofferenza soggettiva interiore, non avendo base organica, non può essere oggetto di accertamento da parte del medico legale, come peraltro esposto anche nel citato punto 8) del “decalogo”.

È di contrario avviso una parte della dottrina medico legale, la quale, dopo aver stigmatizzato «l'autonomia ontologica del danno morale rispetto al danno alla salute per diversità del bene protetto», il primo attinente alla sfera della dignità morale, tutelato dall'art. 2 Cost. e dall'art. 1 della Carta di Nizza (“La dignità umana è inviolabile”), propone «cinque parametri di misurazione per la sofferenza morale nel periodo di inabilità temporanea e cinque per il periodo di invalidità permanente. Ad essi è possibile assegnare un punteggio progressivo, in funzione della crescente intensità di valore: ma nulla vieta che ci si limiti a descrizioni e correlate aggettivazioni per dar conto della intensità del pregiudizio stesso:

- per la sofferenza morale nel periodo di inabilità temporanea: durata dell'iter clinico; tipologia di terapia medica prescritta (in particolare analgesica e/o poli-farmacologica); tipologia di presidi utilizzati; tipologia di interventi chirurgici sostenuti; rinunce nella quotidianità;

- per la sofferenza morale nella vita con invalidità permanente: necessità di supporto di terzi nello svolgimento delle attività quotidiane; necessità di terapia medica (in particolare analgesica e/o polifarmacologica) e/o necessità di attività sanitarie e/o diagnostiche; necessità di presidi sanitari; evidenza della menomazione permanente; rinunce nella quotidianità (…) I parametri proposti sembrano dunque rivelarsi utili per individuare le due principali componenti della sofferenza morale: il degrado della persona e la sofferenza sostenuta dal dolore somatico, quale percezione neuro-sensoriale (…) Il ricorso a presidi protesici genera senso di degrado nella persona che si amplifica in momenti particolari della vita (uso di pace-maker, protesi di testicolo, protesi d'occhio, uso di bastone di appoggio, obbligo alla carrozzina, ecc.). (…) Per converso, “nei veri, completi stati vegetativi persistenti, in esiti a danno irreversibile cerebrale, non vi [è] sofferenza morale: infatti, allo stato attuale delle conoscenze, la persona che versa in tale tragica condizione non ha percezione di dolore né avverte il suo totale, assoluto degrado» (v. RONCHI-MASTROROBERTO-GENOVESE, Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente,Giuffrè, 2015).

Il 6-7 aprile 2018 un gruppo di esperti specialisti in Medina legale, identificati dalla Società Italiana di Medicina Legale (SIMLA), si è riunito a Padova al fine di confrontarsi circa gli ambiti di competenza medico legale nell'accertamento e nella valutazione del “Danno non patrimoniale” alla persona.

Nel documento di sintesi, gli estensori affermano che: «Nella categoria del “Danno non patrimoniale” sono ricomprese anche le offese a diritti inviolabili dell'individuo costituzionalmente garantiti, quali la dignità della persona e la salute (rispettivamente art. 2 e art. 32 della Costituzione), beni distinti, autonomi, indipendenti e, ove connessi a condizione di lesione-menomazione, suscettibili di accertamento e valutazione medico legali e come tali soggetti a contraddittorio tecnico. L'autonomia ontologica della sofferenza morale rispetto al danno alla salute e la correlata distinzione in termini di risarcimento confermano che non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi attinenti alla sfera morale, componenti entrambe suscettibili di accertamento e valutazione medico legali». Propongono di definire «la sofferenza morale quale stato emotivo della persona, temporaneo e/o permanente, produttivo di percezione di disagio/degrado/dolore, rispetto alla condizione anteriore». Nel documento si assumono le seguenti conclusioni:

  • «la sofferenza morale da lesione/menomazione dell'integrità psicofisica è una componente del danno non patrimoniale alla persona, autonoma rispetto al danno biologico;
  • la sofferenza morale non può essere misurata con un automatismo matematico legato alla durata del danno biologico temporaneo ed alla percentuale di danno biologico permanente;
  • lo specialista in Medicina Legale possiede gli strumenti idonei per dare un contributo tecnico motivato all'accertamento e valutazione della sofferenza morale legata a lesioni/menomazioni psico-fisiche».

A mio giudizio il contributo del medico legale dovrebbe essere espresso solo in forma descrittiva, per coadiuvare il giudice (o le parti in sede stragiudiziale) nell'esatta quantificazione del danno non patrimoniale complessivamente subito dalla vittima. L'indicazione da parte del medico legale di un'ulteriore valutazione espressa in una scala di valori (da 1 a 5) si presta invece al rischio di duplicazione di risarcimento del medesimo pregiudizio: comporta un aumento percentuale dei valori standard previsti per il danno non patrimoniale, senza tener debitamente conto del danno sofferenziale medio, già inserito nella costruzione della curva Tabella milanese (dall'Edizione 2009 ad oggi) e da inserire nella futura Tabella ex art. 138 citato. Aumentare ulteriormente la liquidazione per, ad esempio, “uso di bastone di appoggio, obbligo alla carrozzina”, significa dimenticare che (per la generalità di simili casi) questa voce di sofferenza è stata già valutata nell'aumento fino a circa il 50% dei valori-base previsti per il danno biologico (v. D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, 2018). Ancora una volta, per evitare questo rischio, si dovrebbe tornare al valore-punto del danno biologico, in vigore prima delle “sentenze di San Martino”.

Inoltre la tesi qui criticata si presta ad una valutazione discrezionale (se non meramente soggettiva), fondata su opinioni giuridiche della dottrina medico legale.

In primo luogo muove dal presupposto che il fatto illecito determini contemporaneamente la lesione di due valori costituzionali: il bene salute (ex art. 32 Cost.) e la lesione dell'integrità morale (ex art. 2 Cost. ed art. 1 Carta di Nizza).

Ritengo in proposito che la Carta di Nizza, nell'affermare nell'art. 1 il solenne principio che «La dignità umana è inviolabile», non individua affatto un danno-conseguenza senza la previa lesione del diritto inviolabile della dignità della persona (diritto peraltro già riconosciuto nell'art. 2 Cost.). È necessario, infatti, che si dia la prova che il fatto illecito abbia direttamente leso il bene giuridico protetto (la dignità della vittima), ex art. 2043 c.c., cui consegue la risarcibilità ex artt. 2059 c.c. e 2 Cost. (nella lettura costituzionalmente orientata delle “sentenze gemelle” del 2003). Non credo, invece, sia possibile accertare la lesione del diritto alla dignità umana come ulteriore derivazione causale e, cioè, come mera conseguenza fattuale derivante dai pregiudizi conseguenti della lesione del bene salute (v. Trib. Milano, sent. n. 2327/2014).

Inoltre la dottrina medico legale qui criticata presuppone: nozione e contenuto della sofferenza soggettiva, del danno morale, del danno relazionale e di quello esistenziale, i criteri per procedere alla personalizzazione, la soggettiva percezione (del CTU) dello stato di degrado e della lesione della dignità della persona quali elementi di fatto ulteriori e diversi idonei a giustificare l'aumento del risarcimento del danno non patrimoniale “standard” (costruito invece nelle Tabelle milanesi, dal 2009 fino ad oggi, sulle solide fondamenta delle “sentenze di San Martino”).

È opportuno stigmatizzare che trattasi di valutazioni giuridiche, territorio ed oggetto di analisi da parte del giurista e non del medico legale!

Al contrario, il medico legale potrà/dovrà dare un indefettibile ausilio al giudice nella descrizione circostanziata del periodo di malattia (ad es.: somministrazione ed effetti dei farmaci, ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici) e delle modifiche intervenute nella vita quotidiana per effetto della invalidità permanente (ad es.: stato vegetativo o lucida coscienza, attività quotidiane in tutto o in parte compromesse, necessità di terapie continuative, ausilio di terzi, la necessità di presidi protesici, ecc.).

Il CTU dovrà invece valutare l'incidenza in maniera rilevante della malattia e della menomazione permanente su «specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati»(ex artt. 138 e 139 citati ed anche allorché trovi applicazione la tabella milanese).

Infatti, il CTU non dovrà mai supplire agli oneri di allegazione e prova gravanti sulle parti e, solo previa specifica integrazione del quesito medico legale da parte del giudice, potrà prendere posizione e chiarire comprovati peculiari aspetti dinamico-relazionali personali che il difensore della vittima assume essere stati pregiudicati, in tutto o in parte, dalla menomazione psico-fisica e che siano stati già comprovati nel giudizio.

Alla luce di quanto esposto si prospetta una revisione del quesito medico legale approvato dall'Osservatorio di Milano nell'aprile 2013, atteso che, in quel documento, si richiedeva al CTU (tra l'altro) di determinare, oltre al danno biologico permanente e temporaneo, «il consequenziale grado di sofferenza psicofisica, in una scala da 1 a 5». Peraltro quel quesito medico legale dovrà essere comunque rivisto per la ragione che era ancorato (soprattutto) al dettato normativo dell'art. 32, comma 3-quater d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27, comma che è stato espressamente abrogato dall'art. 1, comma 30, lett. b) Legge Concorrenza n. 124/2017.

Bisogna infine prestare attenzione al punto 7) del “decalogo”: «in presenza d'un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento».

Giova rilevare che, nel giudizio di merito, il CTU dovrà accertare se la (già) comprovata attività dinamico relazionale personale sia stata in tutto o in parte pregiudicata in maniera rilevante dalla menomazione psico-fisica e, successivamente, il giudice dovrà liquidare alla vittima il conseguente maggior danno tenendo congiuntamente conto sia dell'aspetto dinamico-relazionale sia della conseguente maggiore sofferenza soggettiva interiore. Sarebbe invece errato (come al contrario parrebbe avvenuto nella fattispecie esaminata dalla sentenza “decalogo”) negare la personalizzazione del danno sulla base della mera considerazione per cui l'invalidità accertata pregiudichi necessariamente quella specifica attività relazionale-esistenziale, che sia stata in concreto esercitata dalla vittima. Del resto, se così fosse, un'invalidità del 100% non potrebbe dar luogo a nessun tipo di personalizzazione! E dunque, nella fattispecie esaminata dalla sentenza “decalogo”, una volta accertato (dal CTU) il danno biologico nella misura del 38% e (mediante prova testimoniale) che la vittima fosse stata dedita “alla cura dell'orto e del vigneto”, e che detta attività fosse poi preclusa dall'accertata menomazione, a mio giudizio dovrebbe spettare il maggior danno personalizzato anche nell'ipotesi in cui il CTU avesse affermato che quello specifico pregiudizio dinamico-relazionale fosse (in astratto) comune a tutte le persone che quella menomazione patiscano. È di tutta evidenza, infatti, che il peculiare maggior pregiudizio non patrimoniale in esame viene in effetti subito non da tutte le vittime che abbiano patito quella menomazione psico-fisica accertata dal CTU nella misura del 38%, ma solo da quelle pochissime persone che si dedicavano, in concreto, “alla cura dell'orto e del vigneto” e che, dopo l'incidente, non potranno farlo più.

Il danno non patrimoniale, conseguente alla lesione di tutti i diritti inviolabili della persona, è solo sofferenza?

Non bisogna dunque ritagliare e sminuzzare i singoli pregiudizi, ma ricomporre ad unità il danno non patrimoniale e liquidare unitariamente le voci della sofferenza soggettiva (interiore) e quella del danno dinamico relazionale (esteriore).

Del resto la matrice comune di tutte le voci di danno è la sofferenza. Addirittura potrebbe sostenersi che il danno non patrimoniale conseguente a tutte le lesioni di diritti inviolabili della persona è solo sofferenza, come (un po' provocatoriamente) ho affermato nel febbraio 2016.

Vi sono numerose fattispecie di fatti illeciti commessi da terzi in cui alla lesione dell'interesse costituzionalmente protetto non consegue un danno risarcibile per la vittima (primaria o secondaria):

  • la rottura di un dente destinato ad essere di lì a poco estirpato dal dentista;
  • la perdita di un figlio per un genitore che quel figlio aveva da tempo emotivamente cancellato e che vive come una liberazione la sua scomparsa (v. Cass. civ., sent. n. 11851/2015);
  • la rottura del femore di vittima già paraplegica (a parte un modesto danno biologico temporaneo);
  • il distacco della retina per un non vedente;
  • morte del coniuge, ma il marito, subito dopo il decesso della moglie, ha trascorso una lunga e piacevole vacanza alle Maldive con l'amante;
  • lesione del diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, per un intervento con esito fausto e senza specifiche allegazioni di altri pregiudizi sofferenziali (Trib.Milano, sent. n. 3520/2005).

E dunque, in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili della persona (ivi compreso il diritto alla salute) ed, ancora più in generale, in tutte le ipotesi di applicazione dell'art. 2059 c.c., devesi ribadire che il danno non è mai in re ipsa, riconducibile all'evento lesivo dell'interesse protetto, ma è danno conseguenza che deve essere in concreto accertato, sia pure (spesso) mediante presunzioni: «è sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» (così Corte Cost., sent. n. 372/1994).

Anche le “sentenze di San Martino” stigmatizzano che «Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. civ., n. 8828/2003 e Cass. civ., n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. (…). Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (d.lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. (…) Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice».

Anche nei Criteri orientativi delle Tabelle milanesi “Edizione 2018”, si ribadisce che il danno non patrimoniale da perdita/grave lesione del rapporto parentale non è in re ipsa e «non esiste un minimo garantito da liquidarsi in ogni caso: il giudice deve valutare caso per caso e la parte è comunque gravata dagli oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale subito».

Si potrebbe allora sostenere che il fatto ignoto da provare sia, per tutte le ipotesi di danno non patrimoniale, proprio la sofferenza interiore?

Tutte la allegazioni e prove richieste nel processo civile circa il danno alla salute, le alterazioni delle condizioni di vita della vittima primaria e di quelle secondarie, mirano in definitiva a provare, mediante il ragionamento presuntivo ex artt. 2727 e ss. c.c., il "fatto ignorato" della sofferenza.

Di regola, dalla menomazione psicofisica temporanea e permanente, scaturiscono pregiudizi anatomo-funzionali (stimati dal CTU), alterazioni delle abitudini di vita e degli aspetti dinamico relazionali della vittima (allegati e provati nel processo), da cui è agevole presumere una sofferenza soggettiva interiore che viene equitativamente liquidata dal giudice, con l'ausilio delle note tabelle giurisprudenziali o normative.

Al contrario, nelle ipotesi innanzi indicate, la lesione del bene salute o la perdita del rapporto parentale non determinano affatto una maggiore menomazione psicofisica o una particolare sofferenza interiore.

Infatti non vi sono elementi presuntivi idonei a comprovare che alla lesione del diritto inviolabile (fatto noto) consegua la prova (del fatto ignoto) della sofferenza interiore, anzi vi è la prova di fatti che ne escludono la sussistenza: la caduta accidentale del dente che evita una costosa e dolorosa terapia odontoiatrica; l'assoluta mancanza di frequentazione e/o di relazione affettiva con il prossimo congiunto deceduto; il gioioso viaggio alle Maldive con l'amante nell'immediatezza dei funerali della moglie; la felicità espressa al risveglio in sala operatoria, alla notizia che (oltre all'operazione già programmata) è stato anche correttamente asportato un pericoloso tumore maligno. Il giudice, in questi casi, con congrua motivazione, ridurrà o escluderà del tutto il risarcimento proprio in considerazione della modesta o addirittura assente sofferenza interiore della vittima.

La soluzione qui prospettata è dunque antitetica a quella sopra criticata e prospettata nelle sentenze Cass.civ., nn. 901/2018 e 7513/2018: dalle allegazioni e dalle prove delle singole "voci" di danno non patrimoniale e, in particolare, dai mutati aspetti dinamico relazionali il giudice trae elementi di convincimento per ritenere provata la sofferenza interiore e liquida (a maggior ragione) unitariamente e complessivamente il danno non patrimoniale subito dalla vittima del fatto illecito.

Come già accennato, anche nella motivazione della sentenza Cass. civ., n. 901/2018 si evidenzia che nel danno non patrimoniale bisogna scolpire «i due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana».

E tuttavia poi si conclude (inopinatamente) che trattasi di «danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili».

Anche nella sentenza Cass. civ., n. 7513/2018, al punto 10 del “decalogo” si afferma:

10) «Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell'uno come nell'altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria».

Conclusioni

Quanto fin qui esposto e le soluzioni prospettate spiegano perché il “Gruppo danno alla persona dell'Osservatorio di Milano”, nel procedere all'elaborazione di ulteriori tabelle e/o criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, abbia tenuto conto congiuntamente dei pregiudizi relazionali e di sofferenza interiore della vittima (v. amplius, D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, 2018).

Come si potrebbe (ad esempio) discernere altrimenti il quantum da liquidare per il danno dinamico relazionale ed il quantum da liquidare per la sofferenza interiore nell'ipotesi in cui la vittima primaria, ad esempio, rimanga per dieci giorni in lucida agonia in attesa della propria fine?

Nella stessa direzione si sta muovendo l'Osservatorio (Gruppo 7) nello studio per una tabella del danno non patrimoniale da mancato consenso al trattamento sanitario.

Non a caso, recentemente è stato istituito anche il nuovo Gruppo 9 (composto da numerosi giuristi, medici legali e psicologi), che ha come oggetto di studio la sofferenza interiore e ha quindi il compito di analizzare proprio le questioni fin qui esaminate; ma i lavori sono ancora in pieno svolgimento alla faticosa ricerca di soluzioni condivise.

Le riflessioni qui illustrate sono quindi personali e indubbiamente opinabili, ma auspico che possano suscitare uno stimolante dibattito che RIDARE.IT è ben lieto di ospitare: un confronto non all'interno di ciascuna categoria professionale (come spesso finora erroneamente è accaduto), ma dialettico tra i saperi diversi dei giuristi (avvocati e magistrati), medici legali, psichiatri, psicologi, professori universitari.

Nel frattempo, si dovrebbe chiamare un time out per chiarire i presupposti ed i contenuti delle novità che stanno emergendo nella giurisprudenza della Terza Sezione della Cassazione e nella Medicina legale, ma anche per preservare i condivisi principi direttivi nella liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del diritto fondamentale della salute ex art. 32 Cost.:

  • la ratio di evitare il ritorno al passato, caratterizzato dalla disomogeneità dei criteri di liquidazione per ogni ufficio giudiziario e dall'aberrante ricorso al c.d. “forum shopping”;
  • il principio di uguaglianza-ragionevolezza nella liquidazione del danno, che comporta la necessaria parità di trattamento in situazioni analoghe in ossequio al disposto dell'art. 3 Cost.;
  • il valore della prevedibilità delle decisioni giudiziarie, costantemente richiamato anche dalle Corti sovranazionali, e, correlativamente, l'importanza di favorire le centinaia di migliaia di transazioni stragiudiziali che si perfezionano ogni anno in questa materia.

La posta in gioco è dunque elevatissima: non si tratta di rincorrere un futile prestigio di campanile, ma di paventare il rischio che possa scardinarsi il sistema di liquidazione del danno, pilastro fondamentale della responsabilità civile. E se questo dovesse avvenire, cui prodest il terribile scenario che alligna all'orizzonte?

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