Provvedimenti necessari per la cosa comuneFonte: Cod. Civ. Articolo 1105
06 Settembre 2018
Inquadramento
Il comma 1 dell'art. 1105 c.c. - inalterato anche a seguito della l. n. 220/2012, e dettato in materia di comunione, ma pacificamente ritenuto applicabile anche nel condominio per effetto del rinvio disposto dall'art. 1139 c.c. - prescrive che «tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere all'amministrazione della cosa comune», intendendo tale norma attribuire un potere di amministrare - poiché i partecipanti sono da considerare proprietari pro parte della cosa, nessuno può essere escluso dagli atti che riguardano la stessa - e non già un obbligo, nel senso che anche se il diritto è in comunione, esso non importa mai l'obbligo di esercitare le facoltà che lo compongono, rimanendo i titolari perfettamente liberi di farlo o meno. I commi 2 e 3 del disposto in oggetto si preoccupano di regolamentare le modalità di formazione delle determinazioni dei partecipanti alla comunione relativamente agli «atti di ordinaria amministrazione»; in particolare, si statuisce che le delibere della maggioranza dei predetti partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote - non tenendo conto, quindi, del numero dei partecipanti alla comunione, ma solo della misura del diritto di ciascuno - sono “obbligatorie” per la minoranza dissenziente, richiedendosi, per la validità di tali delibere, che tutti i partecipanti siano stati preventivamente “informati dell'oggetto” delle stesse (c.d. ordine del giorno). L'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. - che ci interessa più da vicino - prevede che «Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore». Dunque, per un verso, la cosa comune deve essere amministrata, e, per altro verso, ciascuno ha interesse, come membro della collettività, a che l'amministrazione si svolga, perciò la legge gli conferisce, a questo fine, il potere di provocare l'intervento del magistrato. Tale norma è stata considerata inderogabile - quale eccezione al principio della disponibilità delle norme che regolano la comunione ex art. 1100 c.c. - poiché essenziale per la gestione; pertanto, risulta corretto ritenere nulli e di nessun effetto i patti preventivi intervenuti tra tutti i partecipanti alla comunione, in base ai quali è escluso l'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria, poiché il ricorso al giudice contro le disfunzioni o le inerzie amministrative, in quanto mezzo di tutela della minoranza contro gli abusi della maggioranza e come mezzo di esecuzione specifica degli obblighi dell'assemblea, è irrinunciabile in via preventiva. La suddetta disciplina contempla, dunque, un mezzo integrativo a tutela dell'interesse comune, che potrebbe risultare pregiudicato dal disinteresse di alcuni partecipanti, in quanto si conferisce a ciascuno di essi il potere di sollecitare l'intervento dell'autorità giudiziaria «se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune», pur essendovene la necessità, oppure «non si forma una maggioranza» secondo la natura del provvedimento da adottare per assenteismo dei partecipanti, o per contrasti, o per l'astensione dei vari intervenuti, o perché vi sia un'uguaglianza tra voti favorevoli e contrari, oppure «se la deliberazione adottata non viene eseguita», per negligenza dell'amministratore o per ostruzionismo di qualche partecipante al condominio. Sussiste, pertanto, una situazione di incuria o di resistenza, sottolineando che, per vincere questa, non si può ricorrere alla forza, e contro quella non sempre il comunista può provvedere da solo, onde la necessità di far intervenire il giudice, salvo, in seguito, il ritorno alla normalità.
La legittimazione attiva
Nell'ipotesi di cui all'ultimo capoverso dell'art. 1105 c.c., la legittimazione a proporre il relativo ricorso è in effetti riconosciuta espressamente dalla predetta norma solo a “ciascun partecipante”, tuttavia, si potrebbe riconoscere la legittimazione anche all'amministratore di condominio La prassi ha registrato soprattutto due ipotesi. La prima riguarda l'approvazione del preventivo e dello stato di riparto propedeutico alla riscossione dei contributi condominiali ex art. 63, comma 1, disp. att. c.c. mediante il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo nonostante opposizione: si tenga presente, infatti, che all'amministratore compete l'attribuzione di “riscuotere i contributi” (art. 1130, n. 3, c.c.), in ordine alla quale lo stesso non ha bisogno di una specifica autorizzazione per procedere nei confronti dei condomini morosi, come peraltro ribadito dalla l. n. 220/2012 (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2000, n. 29); in tale contesto, agirà in rappresentanza e nell'interesse di tutti i condomini, ad esempio, al fine di recuperare le somme necessarie per il pagamento dei servizi condominiali che, in difetto, potrebbero essere sospesi (si pensi alle spese indilazionabili concernenti le utenze elettriche, l'acqua, il riscaldamento, ecc.). È vero che la mancata approvazione dello stato di riparto non impedisce all'amministratore medesimo di agire nei confronti dei condomini per la riscossione delle quote condominiali, in via ordinaria o con decreto ingiuntivo non immediatamente esecutivo, tuttavia, in tal modo resta preclusa la possibilità di avvalersi di quello strumento processuale più rapido ed incisivo - qual è il decreto ingiuntivo contemplato dall'art. 63 citato - che rappresenta una risposta razionale rispetto alle peculiari esigenze della gestione condominiale, senza contare la possibilità di iscrivere l'ipoteca sull'appartamento, che sovente rappresenta l'unica garanzia a favore del condominio creditore (Corte Cost. 19 gennaio 1988, n. 40, che ha escluso il contrasto di tale disposizione con l'art. 24 Cost.). Il differimento della realizzazione del credito potrebbe implicare la sospensione dei predetti servizi e, comunque, pregiudicare la gestione delle cose comuni, sicché appare corretto ritenere che l'amministratore possa ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento sostitutivo della volontà assembleare, diretto ad evitare una paralisi del condominio derivante dall'insufficienza dei fondi messi in concreto a disposizione dell'amministratore medesimo (App. Roma 15 novembre 1984). In tale ipotesi, le eventualità potranno essere due. Qualora l'assemblea si sia pronunciata in senso negativo circa l'approvazione del detto bilancio, non potrà essere presentato il ricorso ex art. 1105, comma 4, c.c., ma semmai la delibera dovrà essere impugnata, in sede contenziosa secondo le regole ordinarie, dagli eventuali condomini dissenzienti i quali ritengano la stessa contraria alla legge o al regolamento di condominio, mentre, dal canto suo, l'amministratore, in ossequio alla volontà espressa dalla maggioranza, dovrà procedere alla presentazione di un diverso preventivo o di un diverso stato di ripartizione che rifletta le obiezioni che hanno indotto l'assemblea alla pronuncia di mancata approvazione, sino a quando la stessa assemblea non giunga alla formazione di una volontà deliberativa positiva di approvazione. Se, invece, l'assemblea, a causa del (ripetuto) mancato raggiungimento del numero legale - ad esempio, per la costante assenza dei condomini, o in ragione della particolare composizione del condominio, dove uno dei condomini sia titolare di un numero di millesimi tali da condizionare da solo il funzionamento dell'assemblea - non si trova nelle condizioni di prendere i provvedimenti necessari ai fini di una corretta amministrazione, non si vede quale altro rimedio l'amministratore possa invocare di fronte ad una situazione completamente bloccata e senza via di uscita se non quello del ricorso ex art. 1105 citato, considerando che non è esperibile alcuna iniziativa giudiziaria nei confronti dei condomini assenti in quanto anche il non partecipare alle riunioni condominiali è una legittima manifestazione dell'autonomia privata. La seconda ipotesi concerne il caso di inerzia dell'assemblea rispetto alla necessità di eseguire opere di manutenzione dell'edificio: si consideri che l'amministratore ha la specifica attribuzione di «compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio» (art. 1130, n. 4, c.c.), incombenza generalmente intesa anche nel senso di un obbligo alla conservazione dell'integrità dei beni attraverso opere di manutenzione e di riparazione (ad esempio, il tetto crolla ed occorre ripararlo). Quindi, qualora l'amministratore reputi la necessità di lavori di riparazione o di manutenzione straordinaria - non urgenti, perché altrimenti potrebbe disporre direttamente, salvo riferire alla prima assemblea utile, ai sensi dell'art. 1135, comma 2, c.c. - deve sempre previamente sottoporre la questione all'assemblea, chiedendo l'approvazione di una delibera, non potendo by-passare l'organo gestorio (Trib. Lecce 25 febbraio 2005, il quale ritiene, invece, che ricorra il difetto di legittimazione attiva dell'amministratore, che non sia anche comproprietario, rispetto alla richiesta ai sensi dell'art. 1105 c.c. per l'adozione da parte del tribunale dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune). In tale ipotesi - come la precedente - le eventualità potranno essere due. Nel caso in cui l'assemblea respinga tale richiesta, il provvedimento potrà essere impugnato in sede contenziosa dai condomini dissenzienti, senza che l'amministratore possa prendere alcuna iniziativa in contrasto con la volontà della maggioranza dei partecipanti; in particolare, l'eventuale contenuto negativo della delibera assembleare potrà legittimare l'impugnazione sotto il profilo dell'eccesso di potere, per il grave pregiudizio derivante alle cose comuni. Qualora, invece, l'assemblea, regolarmente convocata, non si raduni, o non prenda alcun provvedimento oppure quando non si formi una maggioranza (positiva o negativa che sia), lo stesso amministratore potrà rivolgersi al giudice in sede camerale, attivando il procedimento diretto ad un provvedimento sostitutivo. In conformità alle regole generali previste dagli artt. 737 ss. c.p.c., l'atto introduttivo del procedimento deve rivestire la forma del “ricorso”, rivolto al giudice del luogo ove si trova l'edificio condominiale - specie alla luce della modifica, ad opera della l. n. 220/2012, del foro di cui all'art. 23 c.p.c. - indicando l'ufficio giudiziario, il nome delle parti, l'oggetto dell'istanza e le ragioni della stessa, secondo i canoni classici di cui all'art. 125 c.p.c., che disciplina gli elementi tipici di un complesso di atti tra i quali anche il ricorso, subordinando l'eventuale deroga ad un'espressa previsione normativa, e ciò per consentire al giudice l'esame della competenza, della stessa ammissibilità del ricorso nonché della legittimazione del ricorrente (da ricordare che, secondo le norme che regolano in generale il procedimento di volontaria giurisdizione, non esiste l'istituto della costituzione formale delle parti, né, dunque, quello della contumacia). Per quanto concerne, in particolare, il nome delle parti, nelle ipotesi contemplate dall'artt. 1105, comma 4, c.c., è sufficiente indicare il ricorrente ed il condominio al quale l'istanza (di provvedimenti necessari alla cosa comune) inerisce, essendo superflua l'elencazione di tutti i singoli condomini e l'indicazione dell'eventuale amministratore (in carica o in regime di prorogatio), stante la non necessità della notificazione nei loro confronti. Nulla vieta, ovviamente, che, nei primi casi sopra esposti, nel ricorso stesso siano indicati nominativamente tutti o alcuni dei condomini interessati o anche l'amministratore in carica o uscente, ma ciò non ai fini dell'estensione anche a tali soggetti di un contraddittorioche non è necessario, bensì ai fini di un'eventuale audizione di carattere meramente istruttorio per l'accertamento della sussistenza dei presupposti che giustificano l'adozione del provvedimento. L'art. 738 c.p.c. non prescrive l'audizione delle parti, anche se, di solito, in calce al ricorso, il giudice relatore fissa un'udienza per la comparizione delle stesse, restando, però, nell'àmbito del suo potere discrezionale valutare l'opportunità di disporre tale incombente. Riguardo ai soggetti diversi dal ricorrente - quelli nei confronti dei quali, di regola, il provvedimento invocato è destinato ad avere efficacia - la notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza (a cura dell'istante, nel termine perentorio fissato dal giudice relatore) ai c.d. controinteressati impone un doveroso distinguo. Nello specifico, qualora il ricorso sia proposto da un singolo condomino, può escludersi la necessità della notificazione a tutti i condomini, sembrando sufficiente la notifica al solo amministratore in rappresentanza del condominio; ciò per la considerazione che quest'ultimo per legge è legittimato passivamente «per qualunque azione» concernente le parti comuni dell'edificio (art. 1131, comma 2, c.c.), potendosi dare alla disposizione un'ampia interpretazione comprensiva, oltre che delle controversie contenziose, anche delle questioni trattate in sede di volontaria giurisdizione (sarà, poi, compito dell'amministratore quello di informare, nei rapporti interni, l'assemblea dei condomini, per avere istruzioni sulla condotta processuale da assumere). Allorché, invece, l'istanza sia avanzata dall'amministratore - si pensi alla necessità di eseguire opere di manutenzione dell'edificio condominiale oppure all'esigenza di approvare il preventivo e lo stato di riparto per poter riscuotere i contributi condominiali - appare opportuno che il ricorso sia portato a conoscenza di tutti i condomini, in quanto non sembra che l'amministratore possa, da solo, rappresentare al tempo stesso l'interesse generale del condominio e quello dei singoli condomini, i quali, pertanto, devono essere posti nelle condizioni di interloquire. Al riguardo, è intervenuta una pronuncia della Consulta, la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1105, comma 4, c.c., e 737 c.p.c., nella parte in cui dette disposizioni non prevedevano che il condomino ricorrente dovesse notificare il ricorso agli altri condomini o che questi dovessero essere obbligatoriamente sentiti nell'àmbito del procedimento, ha affermato che i provvedimenti del giudice in esso previsti non erano diretti a difendere interessi di singoli in contrasto con altri, ma avevano per oggetto la tutela di un interesse comune a tutti i condomini (Corte Cost. 27 novembre 1974, n. 267). Il provvedimento conclusivo e i possibili rimedi
Riguardo alla forma del provvedimento conclusivo, l'art. 737 c.p.c. prevede che il Tribunale, sentito il giudice relatore, decide sul ricorso ex art. 1105 c.c. con “decreto motivato”, nel quale deve, quindi, figurare l'indicazione dei componenti dell'organo giudicante, la motivazione, il dispositivo, la data e la sottoscrizione del presidente del collegio ex art. 135, ultimo capoverso, c.p.c., anche nel caso in cui si dichiari l'incompetenza per l'adozione del richiesto provvedimento. Tale decreto è, poi, comunicato, a cura della cancelleria, alle parti e all'eventuale amministratore giudiziario nominato, ma nulla impedisce che il ricorrente provveda alla notificazione del provvedimento stesso. Circa i possibili esiti del procedimento di volontaria giurisdizione in materia condominiale, il contenuto del medesimo provvedimento conclusivo può essere di rigetto dell'istanza se difetti la legittimazione del ricorrente, allorché il procedimento sia stato promosso al di fuori dei casi consentiti, o quando siano risultati carenti i presupposti che giustificano la pretesa fatta valere in sede di volontaria giurisdizione, ecc., mentre sarà di segno positivo, qualora siano soddisfatte, in termini di prova, offerta dalle parti o acquisita d'ufficio, le condizioni che giustifichino l'accoglimento della predetta istanza. Per quanto concerne il contenuto, in generale, può osservarsi che il giudice non sembra tenuto, nella propria statuizione finale, all'osservanza del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c., restando libero di valutare quali siano gli strumenti più idonei, in concreto, alla realizzazione dell'interesse dedotto dal ricorrente - si pensi all'adozione dei «provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune» di cui all'art. 1105, comma 4, c.c. - e ciò in forza del rilievo per cui, nei procedimenti di volontaria giurisdizione, sussiste anche l'esigenza di tutelare interessi di carattere pubblico, sicché il magistrato non può ritenersi vincolato alle richieste formulate dal ricorrente o alle ragioni prospettate da quest'ultimo a fondamento dell'istanza. Tenendo sempre presente che l'intervento del giudice è diretto a supplire ad una carenza dei meccanismi tipici del condominio, il provvedimento conclusivo dei procedimenti di volontaria giurisdizione in subiecta materia si atteggerà in vario modo secondo le varie fattispecie. Nelle ipotesi contemplate dall'art. 1105, comma 4, c.c., trattandosi di una sostituzione del provvedimento giudiziale alla volontà assembleare, sussiste una gamma variegata di contenuti a seconda delle esigenze sottese alla singola istanza, specie quando l'autorità giudiziaria “provvede” direttamente, e non si limita a nominare un amministratore per le necessità del caso; si pensi al caso in cui occorre un provvedimento sostitutivo di una delibera assembleare non adottata o, per l'esecuzione di una statuizione già presa, sia necessario porre in essere complesse attività di ordine giuridico o materiale, come ad esempio qualora sia necessario procedere in via contenziosa ordinaria per il rilascio di bene, o quando l'esecuzione stessa comporti anticipazioni di somme o stipulazioni di contratti. Relativamente alla statuizione sulle spese, relativamente all'ipotesi di cui all'art. 1105, comma 4, c.c., trovando il relativo ricorso origine per lo più in una situazione di inerzia dell'assemblea e di difetto di qualsiasi determinazione, il concetto di soccombenza si presenta alquanto sfumato, non essendo agevole individuare posizioni divergenti sull'esigenza di determinati interventi; in tali ipotesi, è difficile individuare i connotati tipici di un processo contenzioso, con il conflitto in ordine all'accertamento di un diritto tra due o più parti, portatrici di interessi antitetici, giacché, di solito, le eventuali posizioni di contrasto ineriscono pur sempre alla diversa valutazione del medesimo interesse, inerente l'amministrazione e la conservazione della cosa comune; «nel procedimento di volontaria giurisdizione, il giudice non si asside come terzo tra le parti in conflitto per decidere sulla ragione o sul torto, ma adempie una funzione di tutela del pubblico interesse per la migliore attuazione dell'ordine giuridico» (così App. Milano 21 dicembre 1956). Infine, anche in materia condominiale, vige il principio secondo cui i condomini possono sempre ricorrere al giudice per chiedere l'emissione di un nuovo provvedimento difforme, come la modifica o la revoca, da quello precedentemente emesso, ai sensi dell'art. 742 c.p.c. La giurisprudenza ha dato una risposta affermativa, sul rilievo che i provvedimenti di cui sopra, in quanto emanati in sede di volontaria giurisdizione, non acquistano autorità di giudicato (ovvero effetti giuridici irrevocabili), sul piano sostanziale e processuale (con conseguente inoperatività del principio di assorbimento delle nullità ex art. 161, comma 1, c.p.c. e della preclusione del dedotto e del deducibile) propria dei giudizi contenziosi, anche se aventi contenuto decisorio e pur emessi dal giudice del reclamo (per quanto concerne i decreti relativi ai provvedimenti necessari all'amministrazione della cosa comune, Cass. civ., sez. II, 18 marzo 1997, n. 2399). Nel silenzio della legge sul punto, dovrebbe considerarsiinammissibile il reclamo avverso ai provvedimenti necessari per la cosa comune ex art. 1105, comma 4, c.c. (Cass. civ., sez. II, 18 marzo 1997, n. 2399). Ammettendo, invece, il reclamo avverso il provvedimento conclusivo del procedimento di cui all'art. 1105, comma 4, c.c., può ipotizzarsi un gravame in cui vengano dedotti vizi di legittimità del decreto per motivi di nullità inerenti alla formazione del provvedimento in sede camerale (competenza, legittimazione, ecc.), nonché motivi attinenti al merito del provvedimento reclamato (ove, ad esempio, il giudice abbia disposto un atto di innovazione della cosa comune o un altro atto di disposizione per cui è richiesto il consenso di tutti i partecipanti, o quando l'oggetto abbia assunto contenuti completamente esorbitanti da quelli dell'assemblea, oppure qualora si contestino più semplicemente le modalità di esecuzione delle opere di manutenzione autorizzate). Da ultimo, sempre sul presupposto che i decreti emessi dal giudice (anche eventualmente in sede di reclamo), in ordine alle istanze volte ad ottenere i provvedimenti necessari per la cosa comune a norma dell'art. 1105, comma 4, c.c., hanno natura di provvedimenti di volontaria giurisdizione, come tali suscettibili in ogni tempo di revoca o di modifica ai sensi dell'art. 742 c.p.c., privi del carattere della definitività e della decisorietà, non idonei ad incidere in via definitiva su posizioni di diritto soggettivo in conflitto e, quindi, a costituire giudicato, si è statuito che gli stessi non siano impugnabili con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (Cass. civ., sez. II, 29 dicembre 2004, n. 24140; Cass. civ., sez. II, 19 novembre 1993, n. 11431). Casistica
Pironti, Spunti riflessivi in tema di amministrazione giudiziaria ex art. 1105 c.c., in Giur. merito, 1999, 279; Nicoletti, Amministratore giudiziario e volontaria giurisdizione nel condominio, in Rass. loc. e cond., 1995, 177; Bucci, Della comunione e del condominio, Padova, 1992; De Tilla, Carenze di amministrazione della cosa comune e rimedi in volontaria giurisdizione, in Giur. merito, 1992,1133; Stella Richter, Procedimento in camera di consiglio e amministrazione della cosa comune, in Giur. it., 1962, I, 2, 663; Zaccagnini - Palatiello, L'amministratore giudiziario nella comunione e nel condominio di edifici, Napoli, 1983; Rogozinski, In tema di interpretazione dell'art. 1105 quarto comma codice civile, in Foro it., 1949, IV, 194. |