Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti

Danilo Galletti
07 Settembre 2018

È mia intenzione tornare, con queste pagine, su di un tema che ho già trattato qualche anno fa. Allora avevo sottolineato come il dibattito dottrinale risultasse stranamente un po' avulso dalle questioni metodologiche relative alla liquidazione del danno in queste azioni.
Premessa

È mia intenzione tornare, con queste pagine, su di un tema che ho già trattato qualche anno fa (Brevi note sull'uso del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” nelle azioni di responsabilità, in Il caso, 2010). Allora avevo sottolineato come il dibattito dottrinale risultasse stranamente un po' avulso dalle questioni metodologiche relative alla liquidazione del danno in queste azioni.

Non si può dire che nel frattempo, a parte qualche segmento specifico, la letteratura sul tema sia dilagata, a differenza di quanto è avvenuto ad es. per altre questioni limitrofe (come quella degli obblighi di comportamento dei gestori della crisi).

Qualcosa è cambiato?

La dottrina in questo contesto sembra in effetti ancora impegnata a formulare varie considerazioni di matrice assiologica, piuttosto che addentrarsi nelle technicalities della liquidazione del danno risarcibile. Il che stride con la ben diversa considerazione che questi temi ricevono invece ad es. nel diritto civile, ove le dissertazioni, a prescindere dalla loro matrice dogmatica od empirica, abbondano di esempi e di riferimenti a fattispecie concrete ed anche “prosaiche” come il fermo auto, la riparazione antieconomica, la perdita di utilità legate al vivere quotidiano, la perdita di chances, etc.

In compenso, la giurisprudenza si è trovata negli stessi anni ad affrontare delicati problemi tecnici, sempre più specifici, proporzionati all'aumento della casistica che l'incedere della crisi ha determinato; problemi la cui soluzione non ha certo potuto cercare, purtroppo, nella letteratura scientifica.

Ne è scaturita una sorta di “dialogo fra sordi”, ove larghi ambienti della dottrina sembrano continuare addirittura a manifestare una decisa avversione alle metodiche “sintetiche” (potremmo forse dire, meglio, equitative) di liquidazione del danno, senza accorgersi che l'introduzione dei Tribunali delle Imprese ha condotto invece ad un utilizzo massiccio ed uniforme di quella tecnica, sempre più raffinata e corretta nelle proprie storture più evidenti, così da corrispondere, sia pure in modo imperfetto, ad un modello di liquidazione del danno moderno ed armonico con la struttura ed il contenuto degli oneri processuali incombenti realisticamente sulle parti.

Tuttavia si ha sempre l'impressione che qualsiasi novità nella materia debba essere interpretata come un segno della necessità di abbandonare “finalmente” quella metodica, senza peraltro comprendere con cosa la si dovrebbe sostituire.

È il caso della sentenza della Sezioni Unite n. 9100 del 2015 (in Giur. comm., 2015, II, 643 ss., ed a seguire il “seminario virtuale” con contributi di Bassi, Cabras, Cian, Fortunato, Jorio, Montalenti, Racugno e Sacchi. E v. più di recente anche il commento di M. Cossu, ivi, 529 ss.; F. Brizzi, I principi delle sezioni unite in tema di danno al patrimonio sociale al vaglio della giurisprudenza di merito: assenza di scritture contabili e concessione abusiva di credito, in Banca borsa, 2017, I, 67 ss. ), che si pronunziava su un caso specifico, estremamente peculiare dal punto di vista processuale (v. infra), e peraltro non afferente alla tecnica dei netti patrimoniali, ma subito (infondatamente) recepita come un “monito” alla prosecuzione dell'utilizzo di quelle tecniche.

Non è forse un caso che pochi mesi più tardi sempre la S.C. (sent. 2 ottobre 2015, n. 19733) abbia affermato in modo assai stringato, e con sorprendente naturalezza, tono che non poteva non sorprendere che, “in tema di responsabilità dell'amministratore di società di capitali, non può condividersi il criterio che determini il danno causato mediante il confronto fra la situazione patrimoniale della società all'inizio della gestione dell'amministratore e quella al momento della dichiarazione di fallimento, senza verificare se e per quali ragioni l'insolvenza sarebbe conseguenza delle condotte gestionali del predetto né se e per quali ragioni l'accertamento del nesso di causalità materiale tra tali condotte ed il danno allegato sarebbe precluso dalla insufficienza delle scritture contabili e sociali”. Con il fondato sospetto che si sia fatta così applicazione ad una fattispecie “normale”, cui il Giudice a quo aveva ritenuto congrua la metodica dei netti patrimoniali di periodo, del principio affermato dalle Sezioni Unite, che invece attiene esclusivamente al criterio del deficit fallimentare.

Può darsi che la motivazione della sentenza impugnata fosse carente sotto il profilo dell'accesso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. (ciò che presuppone, lo si ricorda, che la liquidazione in termini di prova “diretta” del danno sia eccessivamente gravosa per il danneggiato, il quale peraltro abbia messo a disposizione del Giudice ogni elemento ragionevolmente utile al fine di ridurre il suo margine di discrezionalità nella liquidazione, che non può divenire operazione meramente arbitraria; nella sostanza, nella normalità dei casi la curatela fallimentare si trova in questa condizione, ed anche a prescindere dalla possibilità di ricostruire più o meno attendibilmente i fatti di gestione tramite la contabilità sociale, perché il compimento di centinaia, se non migliaia, di operazioni di gestione nel periodo post scioglimento, operazioni tutte legate le une alle altre, alla luce del concetto di azienda come “sistema”, rende impossibile, e metodologicamente anche scorretto, pretendere di ricollegare a ciascuna di esse singolarmente effetti positivi o negativi; v. anche infra). ); può darsi anche che la S.C. sia stata tratta in inganno dal fatto che il patrimonio netto, nel momento di partenza, quello in cui era stato accertato l'insorgere dell'obbligo degli amministratori di dare discontinuità alla propria azione (ossia esemplificando in t1), era praticamente pari a zero, sicché diventava quasi naturale identificare il danno nel patrimonio netto “finale” sbilanciato, quello dato dalla tanto vituperata differenza fra attivo e passivo fallimentare.

Certo è che la sentenza è suonata come un segno di non condivisione da parte della S.C. anche del criterio dei netti patrimoniali, e così è stata recepita.

Non però dai Tribunali delle Imprese, i quali, consci di come non esista alcuna alternativa logica e ragionevole per liquidare diversamente il danno nel 90% dei procedimenti civili in questione, hanno continuato ad orientare la loro attività come nel passato, assegnando quesiti ai c.t.u. “nel solco” della tecnica ormai consolidata.

Soprattutto il Tribunale delle Imprese di Milano, che non è certo noto per il “lassismo” nella valutazione di queste azioni, ed è anzi forse il più rigoroso fra i Tribunali delle Imprese d'Italia (v. per la consolidation di tale prassi Trib. Milano, 7 ottobre 2014, quasi un “prontuario operativo” per l'esercizio di queste azioni; e v. anche la sentenza del 23 settembre 2015 dello stesso Tribunale, successiva alla pronunzia delle Sezioni Unite e quindi consapevole della stessa; tutte in www.giurisprudenzadelleimprese.it; cfr. ancora Trib. Milano, 5 maggio 2017, 14 luglio 2017, e 28 novembre 2017, e Trib. Torino, 19 aprile 2017, ivi. Sull'utilizzo del criterio della “perdita incrementale” cfr. anche, dopo la pronunzia delle Sezioni Unite, Trib. Palermo, 6 ottobre 2015, in Il Societario; sui netti patrimoniali v. anche Trib. Bologna, 22 ottobre 2015, Fall. CTO; Trib. Roma, 22 settembre 2015, Fall. Imco, e Trib. Catania, 30 marzo 2017, in Giurisprudenza delle imprese. L'elenco potrebbe proseguire).

Ed infine, con motivazione assai “determinata”, la S.C. è ritornata sul punto, affermando che “per liquidare il danno derivante da una gestione della società condotta in spregio dell'obbligo di cui all'art. 2449 cod. civ. (vecchio testo), ovvero dell'attuale 2486 cod. civ., il giudice può ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all'incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali(così espressamente Cass., 20 aprile 2017, n. 9983)

In realtà, verrebbe da dire, per chi non vede queste fattispecie con le lenti dell'entomologo, “la guerra è finita da un pezzo”, almeno sulla legittimità (e necessità) in astratto del ricorso ai criteri “sintetici” (siano quelli dei “netti patrimoniali” oppure della “perdita incrementale netta”: v. infra).

Piuttosto la guerra si è spostata su altri fronti: tutti di natura tecnica, e relativi a specifici profili applicativi e critici di tali metodologie.

Su tali fronti oggi pare impegnata come unico esercito “ufficiale” la giurisprudenza, laddove gli attaccanti sono una schiera ben nutrita, ma non sempre agevolmente riconoscibile, perché non sempre indossano uniformi visibili; quello che sembra difettare è invece l'esercito “regolare” dei difensori: e sarebbe come se in una guerra civile l'unico esercito a rappresentare l'esigenza di equità e di giustizia fosse costituito dalle truppe dell'ONU; il che fa pensare più ad una guerra civile che ad un conflitto classico …

Forse sarebbe invece opportuno che la dottrina esercitasse anche in questo contesto in modo sistematico la sua funzione critica.

Altrimenti, non ci si può sorprendere di come le soluzioni sinora adombrate sembrino spesso assai distoniche rispetto ai principi espressi, in fattispecie che possono apparire distanti, ma che in realtà non lo sono dal punto di vista logico, dalla giurisprudenza e dalla dottrina civilistiche in sede applicativa degli artt. 1223 ss., ed anche 2056 ss.

Certo, in quel contesto scientifico attenzione primaria viene rivolta ai valori della persona, che hanno una pregnanza costituzionale apparentemente più solida.

Ma in realtà non è accettabile che la tecnica delle presunzioni ad es. venga applicata in situazione connotate senz'altro da una minore complessità, e da minori asimmetrie informative, rispetto a quelle che invece ci riguardano.

E soprattutto non è nemmeno detto che l'indebolimento del potenziale “repressivo” delle procedure concorsuali (il trattamento giuridico dell'insolvenza costituisce infatti anche un'essenziale occasione per l'ordinamento al fine di sottoporre a verifica la correttezza dei comportamenti gestionali assunti dall'imprenditore durante l'esercizio precedente dell'impresa: in tal senso R. Goode, Principles of corporate insolvency law, London, 2011, 36 ss., il quale ricorda anche l'utilità di proteggere l'investimento azionario, soprattutto inconsapevole, per non indebolire l'efficienza del relativo mercato; conf. V. Finch, Corporate insolvency law., Cambridge, 2002, 22 s. E' anche in tal modo infatti che l'ordinamento riequilibra l'incentivo all'overinvestment costituito dalla responsabilità limitata, anche in prossimità della crisi) che potrebbe scaturire dal consolidamento di prassi processuali che comportano di fatto la sterilizzazione della maggioranza delle pretese “compensative”, non abbia delle ricadute dirette, e rilevanti, anche nel settore del danno alla persona.

Talvolta l'ipostatizzazione del concetto di “massa” creditoria può far perdere di vista che i creditori non sono delle mere astrazioni: essi coincidono in gran parte direttamente con persone, le quali dalla perdita delle occasioni di rimborso dei propri crediti, non sempre “volontariamente” elargiti alle imprese insolventi (si pensi al danno da prodotto), conseguono rilevanti pregiudizi; ed anche quando le “vittime” delle condotte di mala gestio compiute da amministratori e sindaci sono persone giuridiche, banche e società di capitali, forse si dimentica quali ricadute sistemiche comporta, sempre per le persone, l'impossibilità definitiva di recuperare tali perdite, che consegue (anche) al tentativo di anestetizzare le azioni di responsabilità: si pensi solo ai recenti esempi di “risoluzione” di crisi bancarie, alle conseguenze sul piano dei creditori delle banche, colpite da crisi irreversibili, che ciò ha comportato e comporterà ancora in futuro.

Così, il profluvio di categorie di danni alla persona sganciati da una precisa matrice economico-scambista, assecondato da una giurisprudenza sempre più creativa e convinta, è in realtà strumentale a compensare le vittime degli illeciti per la perdita della capacità di soddisfare (onerosamente) certi interessi lesi, ricostruendo la loro capacità di spesa in modo da dirottare le loro scelte economiche su altri interessi ed altri beni, anche creati appositamente, in modo artificiale, da un mercato sempre più prodigo di offerta di beni e servizi, e sempre più avaro di domanda supportata da capacità economiche adeguate. Con il risultato (positivo) di una decisa internalizzazione dei costi sociali legati agli eventi pregiudizievoli, in capo ai responsabili degli stessi; ed una altrettanto massiccia esternalizzazione in ultima analisi a vantaggio del sistema delle imprese; non senza corrispondenza con un ideale di efficienza (se si vuole, ispirato al modello Kaldor-hicksiano) che vede le vittime trattate in modo non peggiorativo rispetto a prima di aver subito il pregiudizio, i danneggianti oggetto di “pressione”, così da responsabilizzarli e prevenire l'insorgere di ulteriori danni, e parallelamente una minimizzazione dei costi sociali collegati.

Non si comprende proprio allora perché la casalinga che venga investita da un'auto all'uscita dal supermarket possa e debba beneficiare di criteri di valutazione del nesso causale e liquidativi del danno semplificati, imperniati sull'operare di presunzioni, di assunzioni tacite, e di tecniche processuali di inversione dell'onus probandi, la cui “rozzezza” non appare certo inferiore a quella attribuita ai criteri “sintetici” di cui stiamo discorrendo, laddove invece le centinaia, forse migliaia, di casalinghe la cui sfera giuridica viene lesa dal crac di una grande società di capitali, non dovrebbero meritare le medesime “attenzioni”. In entrambi i casi del resto le risorse ottenute a titolo di risarcimento potrebbero essere reimpiegate nel mercato, alimentando nuovi processi economici.

E nemmeno si comprende perché ad es. in un campo, anch'esso pur economico e di carattere imprenditoriale, quale quello della attività medica, caratterizzato da asimmetrie informative che non sembrano davvero superiori a quelle che caratterizzano il nostro settore, possano e debbano dominare pure criteri di accertamento della responsabilità e del danno semplificati, e pur favorevoli alle vittime.

Forse il presupposto tacito, o “serpeggiante”, di tali orientamenti, sempre avallati in chiave “garantista” da qualche autorevole esponente della dottrina, è che in un periodo di crisi intensa e perdurante, come il nostro, addossare i costi prodotti dalle insolvenze ai titolari degli organi sociali, e quindi in ultima analisi in gran parte sulle compagnie di assicurazione, potrebbe svolgere un ruolo di overdeterrence, ostacolando l'adozione di qualsiasi comportamento rischioso, anche in modo fisiologico, e disincentivando altresì l'assunzione del rischio anche da parte degli assicuratori.

Ma l'ingenuità di tali “riflessioni” non è agevolmente mascherabile, quando solo si pensi che in chiave di overdeterrence semmai sono valutabili i sistemi di responsabilità civile basati su criteri di imputazione “obiettivi” (v. art. 2050 c.c.), non quelli ancorati a criteri soggettivi (come per gli artt. 2392 ss. c.c.), e non è detto che un'attività intensamente rischiosa, soprattutto quando essa espone la collettività a rischi dimensionalmente enormi, anche se statisticamente contenuti (ciò che corrisponde ad es. ad uno dei canoni operativi ancora dell'art. 2050), ed anche se detta attività è ritenuta socialmente “necessaria”, non debba essere sottoposta ad un criterio di responsabilità rigoroso, stringente (e ciò anche per contenere i rischi di azzardo morale che tali attività inevitabilmente comportano) (cfr. in argomento i molteplici lavori Uncitral su “Insolvency Law. Directors' responsabilities and liabilities in insolvency and pre- insolvency cases”, ed il volume curato da LSE “Study on directors' duties and liability”, London, aprile 2013, agevolmente reperibili sul world wide web. ).

E neppure è detto che tali costi non siano comunque assicurabili, e che la matematica attuariale non sia in grado di attribuire un valore positivo anche all'assunzione di tali rischi.

In ultima analisi, poi, quando si opera con l'allocazione dei rischi, soprattutto di dimensioni enormi e “sistemici”, come accade per i costi delle insolvenze, è molto pericoloso svolgere operazioni riallocative in carenza di una valutazione sistematica di tutte le conseguenze e delle esternalità prodotte. Meglio quindi basarsi su principi e tecniche operative consolidati.

Basti pensare a certe ingenue spinte del mondo bancario verso la disattivazione del sistema revocatorio (che certo svolgeva prima una potente funzione riallocativa di tali costi), senza indicare la sua sostituzione con alcunché, e soprattutto senza una riflessione complessiva e di sistema, se non intermediata da analisi ispirate da una schietta matrice lobbistica, che hanno provocato sì una massiccia disintermediazione del ceto bancario, cui poteva seguire una potente riallocazione in capo agli intermediari assicurativi, e che invece ha prodotto solo una decisa diminuzione dei tassi di recupero dei crediti in sofferenza, amplificandone le perdite, e rendendo necessarie da un lato nuove soluzioni tecniche, adottate dalle disciplina di vigilanza prudenziale, rispetto al trattamento dei non performing loans (“NPL”)( v. così le “Linee guida per le banche sui crediti deteriorati (NPL)”, del marzo 2017, e lo “Addendum alle linee guida” dell'ottobre 2017, pubblicati dalla BCE, nel quadro di un rinnovato sistema di “gestione” dei clienti non “performanti”, che può cambiare e cambierà molto in ordine alla stessa governance, ed alla rilevanza degli stakeholders delle procedure concorsuali, soprattutto ristrutturative, favorendo una massiccia “disintermediazione” del sistema bancario), e dall'altra nuove soluzioni politiche, non agevolmente armonizzabili col sistema del diritto concorsuale (si pensi alla soluzione creata ad hoc alla metà del 2017 per le due “banche venete”), persino alle crisi bancarie, con costi anche sociali elevatissimi; laddove anche i soggetti sui quali si sarebbero dovuti scaricare quei costi (ossia i titolari di organi sociali e le compagnie assicuratrici) hanno sviluppato medio tempore forme efficaci di “resilienza” al virus, sbilanciando così il sistema.

Dai netti patrimoniali alla perdita incrementale netta: gli oneri incombenti sulle parti

La già citata pronunzia n. 9100 del 2015 delle Sezioni Unite, anche per l'elevato sforzo motivazionale, ha senza dubbio rappresentato un arresto fondamentale, idoneo ad irradiare le sue rationes decidendi anche al di fuori della specifica fattispecie concreta indagata.

Talune affermazioni contenute nella motivazione appaiono cristalline, e difficilmente reversibili; alcune presentano decisi spunti di novità, rispetto allo stato un po' monocorde del dibattito giurisprudenziale, e dunque vanno giustamente enfatizzate.

Trovo tuttavia che sia altrettanto indispensabile evidenziare come il grand arret n. 9100 riguardi un caso molto particolare, caratterizzato da evidenti peculiarità non facilmente replicabili, e che la tendenza dei giorni successivi, diffusa soprattutto fra gli operatori, ad interpretarne la ratio decidendi come se i principi in essa formulati fossero naturalmente estensibili anche a fattispecie assai diverse da quella esaminata, debba essere oggetto di attente valutazioni critiche.

Se infatti la sentenza n. 1521 del 2013 delle stesse Sezioni Unite, sul tema della “fattibilità”, si prestava a molteplici letture anche contraddittorie, potenzialmente ricavabili dal magma polimorfo del suo tessuto motivazionale, testo legislativo, anzi esoterico, più che giurisprudenziale; invece la pronunzia n. 9100 si segnala per la linearità dei passaggi motivazionali, che appaiono tutti assai calibrati e ponderati, e dunque poco inclini a legittimare indebite “estensioni” della ratio decidendi oltre il tracciato segnato dall'estensore.

Le novità meritevoli di riflessione attengono a mio avviso soprattutto a due profili: la prima si compendia nell'affermazione, assai risoluta, e difficilmente confutabile, per cui ad ogni condotta illecita corrispondono potenzialmente danni differenti, caratterizzati da processi eziologici specifici, e da valutare alla luce di criteri liquidativi altrettanto potenzialmente specifici.

Non può essere negato del resto che l'incentrarsi della prassi giudiziaria degli anni ‘70 e '80 sul criterio del c.d. deficit fallimentare (ossia della differenza fra l'attivo liquidato ed il passivo accertato in sede fallimentare), fosse scarsamente idoneo a dare conto della varietà dei comportamenti illeciti che caratterizzano la fase antecedente l'ingresso in procedura, la c.d. twilight zone, così da recidere ogni possibile legame razionale fra condotta, nesso di causalità e danno.

Al contrario il comportamento specifico deve essere messo in correlazione con la sfera delle conseguenze “statisticamente prevedibili” che possono conseguirne, e solo con queste: la condotta distrattiva o dissipativa cagiona tipicamente la diminuzione del patrimonio sociale, in misura proporzionale ai valori dell'attivo sottratti o dispersi; al limite la stessa condotta, se particolarmente connotata dal punto di vista qualitativo e quantitativo, può anche porsi alla base della causazione dell'insolvenza, là dove inneschi un processo deteriorativo che conduca, per effetto della prosecuzione dannosa dell'attività e della ulteriore distruzione di ricchezza, al dissesto, ma allora la condotta di cui si discute non costituisce più una mera sottrazione di attivo, bensì una fattispecie complessa che priva l'impresa delle sue stesse caratteristiche di efficienza e di economicità, e dunque sotto tale punto di vista va osservata, alla luce di massime di esperienza diverse, e di procedimenti causali differenti.

D'altro canto non è affatto inconsueto che ad una medesima condotta possano ricollegarsi danni-evento differenti, oppure che dallo stesso danno-evento scaturiscano danni-conseguenze molteplici (la distinzione fra danno-evento e danno-conseguenze è ancora abbastanza accreditata nella giurisprudenza, anche se viene talvolta sottoposta a revisione critica dalla dottrina).

E nessuna sottrazione o mancata tenuta di scritture contabili può di per sé provocare un danno patrimoniale, se non al limite la spesa per la curatela fallimentare di ricostruire altrimenti la situazione, anche facendo ricorso a servizi di operatori specializzati (società di revisione, esperti, etc.).

Affermazione quest'ultima nient'affatto nuova, se si pensa che la giurisprudenza penale afferma da decenni che il falso in bilancio di per sé non cagiona danno: il falso semmai può occultare un danno già cagionato, od ancora in fieri.

Ma anche in tale ultima evenienza la condotta ascrivibile agli organi sociali muta dal punto di vista qualitativo: non li si rimprovera più tanto per non aver tenuto le scritture, o per averle tenute in modo inattendibile, bensì per aver occultato una distrazione, oppure per aver così celato la stessa situazione effettiva della società, impedendo od ostacolando le azioni reattive di tutti coloro che siano facoltizzati a rilevare tempestivamente le anomalie e ad attivarsi, per dovere (controllori, revisori, autorità di vigilanza), o per diritto (creditori).

E dunque il danno non scaturisce qui dall'alterazione o dalla patologia nella tenuta delle scritture: esso promana invece dalla prosecuzione indisturbata dell'attività, nonostante lo sfacelo economico e finanziario che una corretta rilevazione dei fatti di gestione consentirebbe già di percepire ed anche di impedire.

L'altra novità rilevante a mio giudizio è costituita dall'enfasi posta sul momento dell'allegazione nel processo delle condotte reprensibili degli organi sociali, prima ancora che su quello della prova degli elementi dell'illecito.

Anche qui la scelta non è casuale, ma è piuttosto conseguenza del recepimento dell'orientamento giurisprudenziale, oramai consolidato, sull'inadempimento contrattuale: spetta al creditore allegare in giudizio il comportamento inadempiente del debitore, tanto quando sia dedotta un'obbligazione di risultato, quanto di mezzi (distinzione, anche questa, che non incontra più un gran favore, anche in giurisprudenza; d'altro canto la equivocità di tali concetti, e la finalizzazione comunque ad un risultato pur del comportamento dell'obbligato ad una prestazione “di mezzi”, che è tenuto ad erogare uno sforzo idoneo a conseguire tale risultato, è più che evidente); spetta al debitore provare che tale inadempimento non gli è imputabile.

Principio quest'ultimo già recepito dalla stessa S.C. a proposito della responsabilità degli organi sociali, tanto per le fattispecie precedenti la riforma del 2003-2004, quanto per quelle successive.

L'allegazione, come è noto, innerva il thema decidendum della causa, attiene ai fatti costitutivi del diritto fatto valere: solo ciò che è allegato può essere oggetto di richieste di prova; e solo ciò che è allegato in modo sufficientemente specifico può dirsi appartenere al processo, anche perché diversamente la controparte non potrebbe assumere posizione a ragion veduta, innescando se del caso il procedimento della “non contestazione” (art. 115 c.p.c.).

Nella fattispecie oggetto del ricorso deciso dalle Sezioni Unite, parrebbe, la procedura fallimentare attrice si era limitata a dedurre la mancata tenuta delle scritture contabili, e a fondare su tale allegazione la richiesta di commisurare il danno alla differenza fra attivo e passivo.

Mancava dunque un'allegazione di un comportamento anche astrattamente idoneo a cagionare un danno (cfr. in tema Trib. Milano, 24 aprile 2017, in Giurisprudenza delle imprese), sufficiente a legittimare un'indagine istruttoria.

La fattispecie si segnala dunque come caso-limite, difficilmente “esportabile”; ed anche la particolarità della vicenda rende poco plausibile che le Sezioni Unite abbiano inteso lanciare chissà quale “monito” a curatele fallimentari e Tribunali delle Imprese, delegittimando i criteri metodologici che oggi sono più diffusi, al fine di liquidare il danno che scaturisce dalla condotta prefallimentare più frequente: la continuazione dell'attività caratteristica pur in condizioni di già avvenuta perdita di continuità aziendale , di conclamata insolvenza, di perdita integrale del capitale sociale (la continuità aziendale costituisce un concetto proteiforme, scarsamente tratteggiato dalle norme: la letteratura è quasi integralmente di natura tecnica: cfr. l'ISA n. 570, relativo alla revisione aziendale, debitore in gran parte dello IAS emanato in tema di going concern; v. anche il Documento Banca d'Italia/Consob/Isvap n. 2 del 6 febbraio 2009, e più di recente il documento del 15 ottobre 2015 della Fondazione Nazionale dei Commercialisti; il Quaderno n. 47 e n. 71 della SAF Milano. Stimolante è la prospettiva per cui l'accertamento della perdita della continuità aziendale provocherebbe di per sé lo scioglimento della società, e/o comunque il sorgere del dovere di comportarsi in modo “conservativo” ai sensi dell'art. 2486 c.c.: cfr. in giurisprudenza Trib. Milano, 19 aprile e 6 luglio 2016).

Non potrebbe del resto essere razionalmente contestato l'utilizzo del criterio dei “netti patrimoniali di periodo” (oppure di quello, in realtà assai prossimo, della c.d. “perdita incrementale”) quando vi sia stata una condotta di “indirizzo” strategico dei soggetti economici di riferimento a determinare la prosecuzione dell'attività sociale, orientata a fini extraeconomici, e nonostante la clamorosa perdita di ogni prospettiva di continuità aziendale; tale prosecuzione infatti avrebbe provocato, per effetto dell'andamento negativo della gestione operativa, un deterioramento patrimoniale che non potrebbe essere altrimenti dimostrato.

Semmai la sentenza n. 9100 si segnala per un certo malcelato ottimismo nella capacità delle curatele fallimentari di ricostruire la situazione della società fallita aliunde rispetto all'esame delle scritture contabili; e per una certa insofferenza per il canone probatorio della “contiguità alla prova”, del quale viene interrogato a livello ipotetico il significato, se adeguato alla situazione della parte che ha posto in essere il fatto indagato nel processo, o piuttosto che dispone degli elementi di prova necessaria a dimostrarne l'esistenza (ma mi pare in una visione che privilegia decisamente la seconda delle opzioni), per poi sconfessare l'utilità stessa dell'interrogativo, alla luce delle (innegabili) carenze allegatorie nel giudizio a quo.

Il che suona anche assai strano, atteso che in contesti molto simili, connotati da un'analoga asimmetria informativa fra attore in giudizio ed autore dell'illecito, ad es. quello della ricostruzione dell'attività del medico tramite il diario clinico dallo stesso redatto, la giurisprudenza ha invece sapientemente saputo trarre adeguati elementi indiziari, quando non addirittura opportuni ribaltamenti dell'onere probatorio, dalla condotta del sanitario che non tenga adeguatamente la suddetta documentazione, oppure la alteri o la occulti successivamente, in modo da ostacolare la ricostruzione del fatto imputabile (cfr. soltanto di recente Cass., 31 marzo 2016, n. 6209: “in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”).

Nel settore delle azioni di responsabilità esperite da procedure concorsuali, poi, l'interesse specifico alla regolare tenuta della documentazione amministrativa e contabile, finalizzato alla agevole ricostruzione delle condotte di gestione, è sanzionato addirittura da specifici precetti penalistici (quelli sulla bancarotta c.d. documentale), e non già dal mero reato di falso in atto pubblico.

Ma di certo non mi pare consentito, né opportuno, cercare di far dire alle Sezioni Unite quello che certamente non hanno voluto affermare.

In effetti diversi operatori, probabilmente i più abituati a difendere membri di organi sociali nelle azioni di responsabilità, già nei giorni successivi alla divulgazione della pronunzia, hanno a più riprese affermato con studiata convinzione che la stessa delegittimerebbe definitivamente la metodica dei c.d. netti patrimoniali, e renderebbe obbligatoria la allegazione in giudizio di specifici atti di gestione, la cui specifica dannosità andrebbe provata in modo puntuale ed analitico.

L'unico passo della motivazione in cui si accenna a tale (distinto) problema è però quello in cui si dice che se i comportamenti gestionali incriminati “avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni”; il che vuol dire che, se il dissesto è già in atto, chi ne aggravi le dimensioni non può essere chiamato a rispondere delle conseguenze lesive del dissesto in sé (ossia del deficit fallimentare), bensì solo dell'aggravamento; ma nulla si dice poi nello specifico su come misurare le dimensioni e le conseguenze risarcitorie di tale aggravamento.

Così come da nessuna parte della motivazione si rinviene l'affermazione per cui l'allegazione dovrebbe riguardare specifici atti di gestione: si parla semmai di “qualificati inadempimenti”, di “violazioni di doveri di diligenza”, generici o specifici.

Dunque le letture restrittive in questione sembrano frutto più che altro, nella più benevola delle ipotesi, di un “abbaglio”.

Certo occorrerà che la prospettazione in giudizio, in tali ipotesi, sia conforme allo schema descritto dalla sentenza n. 9100: dunque si dovrà allegare in modo chiaro la violazione dei doveri legali che si ascrive alla responsabilità degli organi sociali; e si dovrà dimostrare che la ricostruzione del danno proposta è conforme alla sfera delle conseguenze eziologicamente probabili (rectius “regolari”) di quella condotta (v. infra).

Già in altra sede, d'altro canto, si è cercato di dimostrare che l'incentrarsi dell'art. 2486 c.c., rispetto al vecchio testo dell'art. 2449 c.c., sulla visione “dinamica” della gestione “conservativa”, avente ad oggetto non solo la “integrità”, ma anche (e diremmo soprattutto) il “valore” del patrimonio sociale, dovrebbe suggerire l'adozione di una chiave di lettura per cui l'illecito è costituito dalla stessa prosecuzione indebita dell'attività caratteristica.

La gestione infatti non è più vista dal Legislatore da tempo come una mera serie di atti: essa è un'attività dinamica, che non si risolve nella sommatoria dei suoi prodotti negoziali; è inoltre un'attività che si muove entro una cornice funzionale che nelle fasi di vita “ordinaria” della società è determinata con la massima libertà dagli amministratori, attraverso il processo di pianificazione strategica, senza il quale l'organizzazione non può essere considerata “adeguata” (arg. ex art. 2381 c.c.).

Quando tuttavia la prospettiva di continuità gestionale (going concern) svanisce, a causa della perdita del capitale sociale e/o dell'insorgere dell'insolvenza, quella cornice funzionale muta necessariamente: gli amministratori non sono più liberi di determinare liberamente gli obiettivi da conseguire, nell'ottica del perseguimento del profitto; essi debbono gestire l'immediato in modo da conservare le virtualità del patrimonio aziendale nell'ottica della futura ristrutturazione o liquidazione (cioè preservando la praticabilità di ogni opzione “ragionevole”)( cfr. adesso l'enfasi sulla esposizione delle modalità con le quali si stima di poter pervenire alla ristrutturazione nel documento Confindustria- ONDCEC del giugno 2018 sulla Relazione sulla gestione allegata al bilancio di esercizio ), al contempo compiendo i passi necessari al fine di cessare l'attività e porre la società in stato di liquidazione, se non risulta ipotizzabile il risanamento in regime di continuità diretta, oppure, se la situazione è talmente grave da rendere impossibile una liquidazione “controllata” degli assets, instare direttamente per il fallimento (la letteratura sui doveri incombenti sugli organi sociali in caso di crisi è ormai copiosa: cfr. per tutti N. Baccetti, La gestione della società di capitali in crisi tra perdita della continuità aziendale ed eccessivo indebitamento, in Riv. soc., 2016, 568 ss.).

D'altro canto l'ordinamento giuridico presenta indizi evidenti della ricezione di tale osservazione empirica: l'art. 186-bis l.fall., infatti, condiziona la praticabilità di un concordato “con continuità aziendale”, ossia con prosecuzione dell'attività imprenditoriale da parte del debitore anche soltanto in crisi, non soltanto alla presenza di un piano di ristrutturazione “fattibile”, ma altresì alla prova positiva della corrispondenza della protrazione dell'impresa al “miglior interesse” dei creditori: non basta cioè che continuare l'impresa sia neutro per l'interesse dei creditori, ma occorre che sia fornita la prova addirittura di un vantaggio positivo per costoro.

Il Legislatore infatti aveva ben presente come la situazione implicata dall'art. 186-bis comporti un pericolo di aggravamento del pregiudizio per i creditori, insito nella prosecuzione dell'attività, sicché ha ritenuto di condizionarne la legittimità alla necessaria dimostrazione della compatibilità di tale linea di azione con la tutela di tale interesse. E la funzionalizzazione dell'agire sociale all'interesse creditorio, dopo la constatata insufficienza del patrimonio sociale, corrisponde del resto ad una direttiva basilare anche del diritto societario (arg. ex art. 2394 c.c.).

Ciò si verifica proprio perché è notorio che proseguire la rotta senza mutamenti radicali, in tali circostanze, produce generalmente danni per coloro che oramai sono i soggetti principalmente interessati (e soprattutto tutelati dalla Legge) alla valorizzazione del patrimonio sociale, laddove il soggetto economico, e chi ne è esponenziale, è vittima dell'azzardo morale, ed avverte incentivi perversi per il proprio agire, che lo possono indurre a trasformare il rischio di impresa in “scommessa”.

Soltanto nel fallimento, ove lo spossessamento è integrale, ed il controllo pubblicistico massimo, è consentito proseguire l'attività anche nella neutralità dell'interesse dei creditori, e persino a tutela di interessi differenti da quelli di costoro (art. 104 l.fall.).

Tale direttiva funzionale, propria del concordato preventivo, ossia di una procedura concorsuale, caratterizzata comunque da un intenso controllo pubblico, non può essere ritenuta irrilevante anche al fine di valutare il comportamento del debitore che si trovi ancora in bonis: a maggior ragione anzi essa deve trovare applicazione anche all'agire degli amministratori dopo che essi abbiano potuto constatare la perdita dei requisiti minimi che condizionano la “normalità” della loro gestione.

Dunque deve ritenersi semmai che sussista un nesso eziologico fra la perdita del capitale e/o della continuità e la diminuzione del patrimonio sociale che ne è susseguita, quando si dimostri che l'attività sia proseguita anche dopo tale momento, senza radicali inversioni di rotta, ispirate alla logica regolatoria della crisi. Salva la prova dell'insorgere di processi causali, non imputabili alla condotta del convenuto, che abbiano autonomamente provocato quella diminuzione.

Tale nesso di causalità attiene al danno-evento. L'apprezzamento del danno-conseguenza invece potrà essere effettuato, qualora come normalmente accade l'attività di impresa sia proseguita attraverso una fitta trama di singoli atti, ciascuno indissolubile dagli altri, e non singolarmente percepibile per il suo maggiore o minore contributo al risultato dell'attività, così come l'economia aziendale insegna, con riferimento alla diminuzione del valore del patrimonio (al netto di ciò che sarebbe si sarebbe comunque deteriorato qualora fosse stata adottata la condotta regolativa corretta).

Fra le alternative “futuribili” disponibili si colloca anche la possibilità dell'espletamento di un accordo di ristrutturazione dei debiti, intermediato o meno dall'art. 182-bis l.fall., o di una proposta di concordato preventivo, espletamento che a date condizioni, quando esso si riveli chiaramente più favorevole alle ragioni dei creditori, potrebbe altresì ritenersi doveroso.

Si vede bene dunque come la gestione degli amministratori della società in condizioni di perdita del capitale debba caratterizzarsi per il suo carattere dinamico, ossia per la sua capacità di proiettarsi in uno scenario futuro anch'esso “pianificato”, e non per il compimento di singoli atti che possono o meno essere considerati “dannosi” o “vantaggiosi”.

E' proprio il “saldo” di quell'attività, espresso dalla sua capacità di conservare ex art. 2486 c.c. il “valore” dell'azienda, a determinarne allora il carattere giuridico o piuttosto antigiuridico. D'altro canto, proprio la elisione dai costi prodotti dei ricavi correlati, nonché degli apprezzamenti prodottisi dai deprezzamenti degli elementi del patrimonio, la cui sintesi è proprio rappresentata dalla focalizzazione del saldo del “patrimonio netto” finale, appare conforme anche al principio civilistico della compensatio lucri cum damno (per un riferimento alla compensatio nella nostra materia, anche se da un differente punto di vista, cfr. di recente G. Facci, La quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità, in Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, a cura di L. Balestra, Milano, 2016, 311 ss. Il tema è molto frequentato dalla letteratura extra- commercialistica: cfr. di recente Cons. Stato, Ad. Plen., 6 giugno 2017, n. 2719), appartenendo i due elementi alla stessa matrice eziologica, e concorrendo insieme a determinare il danno “reale” (v. in argomento M. Franzoni, Dei fatti illeciti, in Commentario c.c. a cura di Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1993, pp. 795 ss.).

E la prospettiva dei netti patrimoniali di periodo si rivela pertanto non già eterogenea, bensì armonica rispetto alla cornice funzionale ove gli amministratori sono chiamati a muoversi, dopo aver riscontrato che non vi sono perduranti prospettive di continuità aziendale.

Nessun atto di gestione, infatti, può ritenersi in sé e per sé “conservativo” oppure no, senza collocarlo all'interno del “progetto” che gli amministratori hanno predisposto, progetto ovviamente compatibile con le direttive funzionali imposte dall'art. 2486 c.c.

E dunque l'allegazione in giudizio della illegittima prosecuzione dell'attività caratteristica, in funzione di una pianificazione strategica oramai “abrogata” dal mutamento irreversibile dello scenario aziendale, soddisfa pienamente i canoni indicati dalle Sezioni Unite, e non li viola. Violativa semmai sarebbe la pretesa che quell'allegazione attenesse ad atti specifici di gestione, da valutare per la loro intrinseca dannosità o vantaggiosità, perché ciò costituirebbe un approccio asistematico, ascientifico, aprioristico, destinato a funzionare soltanto nelle situazioni più semplici ed anche forse meno gravi, in cui l'attività imprenditoriale risulti per avventura scomponibile in una mera sequenza di atti osservabili in modo atomistico.

Nello stesso modo, l'applicazione del criterio liquidativo prescelto, sia esso quello dei c.d. netti patrimoniali, oppure della c.d. perdita incrementale netta, in realtà assai vicini fra di loro , dovrà scontare gli effetti di tutte quelle conseguenze apparentemente pregiudizievoli che si sarebbero verificate anche ove gli amministratori avessero fatto tempestivamente “la cosa giusta” (soprattutto se la perdita viene sussunta come “di bilancio”, piuttosto che come risultato operativo, cui sommare gli oneri finanziari, al netto di ammortamenti e svalutazioni. La decurtazione dal risultato degli ammortamenti peraltro presuppone che l'importo degli stessi sia già stato addebitato al conto economico degli esercizi precedenti, in sede di rettifica degli stessi; altrimenti si addiverrebbe al risultato di “occultare” un costo economico comunque già sostenuto in termini monetari. Come è noto, la dottrina aziendalistica è assai divisa fra chi ricostruisce l'ammortamento come una tecnica di “valutazione” degli attivi, oppure come mero strumento per la suddivisione di un costo nel tempo; cfr per tutti M. Caratozzolo, Il bilancio di esercizio, Miano, 2012, 505 ss., 531 ss.; va anche detto che l'ammortamento, benché abbia natura “convenzionale”, può misurare presumibilmente la obsolescenza del bene strumentale, ossia può misurare su basi forse empiricamente e presuntivamente utilizzabili, la perdita di valore di un asset susseguita alla illecita prosecuzione dell'attività; un ragionamento in parte simile potrebbe forse essere fatto per le svalutazioni di assets che debbano passare per il conto economico, a condizione che esse non si limitino a rilevare tardivamente perdite di valore in realtà prodottesi in precedenza. Anche quanto agli oneri finanziari, il ragionamento potrebbe essere più complesso: se infatti il fallimento arresta normalmente l'incedere degli stessi - art. 55 l.fall. -, ciò avviene solo per quelli accessori a debiti chirografari, non privilegiati; dunque nella prassi giudiziaria spesso si distinguono le due poste, ricavando gli interessi che sarebbero decorsi comunque anche durante il fallimento - od il concordato: art. 169 l.fall. - dalle domande di ammissione allo stato passivo, che è sicuramente opportuno produrre in giudizio. Ma in realtà andrebbe anche sottolineato, a mio avviso, che l'anticipazione – doverosa - dell'apertura della procedura avrebbe provocato altresì una accelerazione di quei processi liquidativi all'esito dei quali tale produzione di interessi si sarebbe comunque arrestata - in forza della elaborazione di un riparto, per i crediti assistiti da privilegio generale, o della vendita del bene vincolato alla garanzia, per quelli speciali -. D'altro canto talvolta la condotta corretta viene considerata quella della messa in liquidazione volontaria, non il fallimento, ed in tale contesto il maturare degli interessi non viene arrestato; ciò non toglie però che ogni esercizio in più aumenti il peso degli stessi sul conto economico e sul patrimonio, dato che l'anticipazione della condotta corretta avrebbe presumibilmente consentito di pianificare una liquidazione più celere, e dunque meno “costosa”; quest'ultimo dato tuttavia non risulta agevolmente “misurabile”).

Poco cambia infatti se il danno viene calcolato mediante la differenza fra i due “saldi” di periodo del patrimonio netto, oppure attraverso l'apprezzamento del risultato economico prodottosi nello stesso periodo, che inevitabilmente va ad addebitare il patrimonio netto a fine esercizio. Talvolta anzi la valutazione in termini “economici” può essere più affidabile di quella patrimoniale (un problema con i metodi “patrimoniali” può nascere anche dalla eventuale natura “stagionale” dell'attività, che rende la differenza fra i patrimoni netti poco affidabile per i singoli responsabili, anche se assunta con la metodica del pro rata temporis; l'apprezzamento del danno in termini economici può superare tale difficoltà, a condizione però che si disponga di ottimi elementi informativi, così da poter redigere conti economici di periodo affidabili), in quanto nel patrimonio netto si riflettono anche componenti, positive (ad es. immissioni di equity: v. infra) e negative (ad es. svalutative), che non passano per il conto economico, e possono non essere imputabili ai responsabili.

Ciò che più importa, il patrimonio netto di partenza non può essere rilevato secondo criteri di valutazione eterogenei rispetto a quello di destinazione (un tempo si sarebbe detto “criteri di funzionamento a fronte di canoni liquidativi”; in realtà l'OIC n. 5 sui bilanci di liquidazione non è mai stato così drastico, nel prescrivere l'abbandono del canone di funzionamento a favore di quello liquidativo, a partire dalla perdita della continuità aziendale che normalmente si accompagna all'insolvenza e/o alla perdita del capitale sociale, e prima della formale messa in stato di liquidazione; in dottrina v. G. Verna, La determinazione del danno causato dagli amministratori che continuano l'impresa dopo la perdita del capitale, in Società, 2011, 37 ss.; più di recente dello stesso a. v. Misurazione del danno patito dai creditori per la continuazione dell'impresa in perdita ed applicazione di corretti principi contabili, in Dir. fall. 2016, I, 798 ss.; Id., Responsabilità degli amministratori: brevi note sul criterio del decremento dei netti patrimoniali, in Società, 2017, 939 ss.; adesso tuttavia l'OIC n. 11, di recente emanazione (marzo 2018), cristallizza una procedura contabile di segno indiscutibilmente diverso a quelle prassi, volta nelle stesse intenzioni dei redattori ad evitare che un eccesso di prudenza nell'estensore del bilancio conduca ad eccessive svalutazioni degli elementi dell'attivo, così ostacolando percorsi ristrutturativi e persino ricollocativi dei compendi aziendali: i principi di funzionamento vanno quindi mantenuti, “tenendo peraltro conto, nell'applicazione dei principi di volta in volta rilevanti, del limitato orizzonte temporale residuo” dell'attività; l'impressione che se ne ricava è che i bilanci non debbano cambiare tanto, rispetto alle prassi precedenti, e che la perdita della continuità aziendale debba comunque determinare intense svalutazioni contabili, soprattutto negli assets il cui valore è capitalizzato - il cui ammontare potrebbe non essere più, e normalmente non sarà più, integralmente “recuperabile” -, svalutazioni forse inferiori a quelle che si assumevano nel vigore delle vecchie prassi contabili, e non mi pare che sia affatto chiaro in che misura).Più in generale, il danno imputabile non può internalizzare anche tutti quei costi di una gestione liquidativa (penalità contrattuali per anticipata cessazione, compensi per liquidatori e professionisti, etc.) che si sarebbero prodotti comunque, anche se gli amministratori fossero stati i migliori del mondo (e v. le recenti pronunzie del Tribunale delle Imprese di Milano, già citate in precedenza).

Nel momento in cui si ascrive alla responsabilità degli organi della società di non aver adottato una condotta alternativa che si reputa “corretta” (appunto: “chiudere la baracca”, oppure ristrutturarla ragionevolmente), non si può infatti non depurare la diminuzione del patrimonio netto che si imputa loro da quegli addebiti che si sarebbero verificati proprio se fosse stato scelto il comportamento legittimo.

Anche questo peraltro era un risultato ermeneutico cui la giurisprudenza della S.C. (e di merito) era già pervenuta con convinzione, e proprio in subiecta materia.

In via di prima approssimazione, forse i c.d. costi da liquidazione, assai difficilmente stimabili in modo preciso, e comunque ancora più difficilmente imputabili ai singoli soggetti che abbiano rivestito le cariche sociali nei singoli periodi in considerazione, se non mediante procedimenti di attribuzione pro quota, ed in forza di criteri del tipo pro rata temporis, potrebbero essere stimati come pari ai costi sostenuti dalla liquidazione fallimentare, sostenuti dalla Massa, e documentati nell'ultimo rapporto semestrale ex art. 33 l.fall.

D'altro canto, se l'unica condotta esigibile da parte degli amministratori, ed idonea a limitare il danno, fosse proprio la richiesta del proprio fallimento, allora sarebbero proprio tali costi a dover essere detratti dal pregiudizio, percepito in termini di differenza patrimoniale, oppure di perdita incrementale.

La giurisprudenza di legittimità dedicata al tema affronta non di frequente ex professo il tema della ripartizione degli oneri probatori dal punto di vista della natura della responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale (cfr in argomento G. Dongiacomo, Insindacabilità delle scelte di gestione, adeguatezza degli assetti ed onere della prova, in Responsabilità degli amministratori di società e ruolo del Giudice, a cura di Amatucci, Milano, 2014, 29 ss.; cfr. anche I. Pagni, Onere di allegazione e onere della prova nelle azioni di responsabilità, in Riv. dir. comm., 2016, I, 599 ss., anche per valutazioni dissonanti rispetto a quanto qua sostenuto ).

E' comune l'osservazione per cui l'azione esercitata ex art. 146 l.fall. dal curatore del fallimento cumulerebbe i due rimedi ex artt. 2393- 2394 l.f., e sarebbe “inscindibile”, anche se il fallimento potrebbe scegliere se agire esercitando la sola azione sociale, oppure la sola azione dei creditori (cfr., soltanto di recente, Cass., 4 dicembre 2015, n. 24715). Il che può essere addirittura necessario quando l'una sia prescritta, mentre l'altra ancora no.

Ma in realtà, a prescindere dalle declamazioni di principio nelle massime, i profili e gli elementi costitutivi relativi alle due azioni non possono che rimanere distinti, ciascuno condizionando singolarmente l'accoglimento della domanda; è chiaro tuttavia che la maggiore ampiezza di una delle due azioni “assorbirà” naturalmente l'esame dell'altra; così, poiché l'apprezzamento del danno a proposito dell'azione “creditoria” è normalmente più favorevole alla curatela di quella sociale (v. infra), e sottoposta a termini di prescrizione pure molto più favorevoli, è ovvio che sia sull'azione dei creditori che si accentrano quasi tutte le attenzioni a livello applicativo.

Nel settore della responsabilità civile, come è noto, domina ormai l'impostazione per cui la responsabilità contrattuale presupporrebbe la mera prova del titolo contrattuale, unita all'allegazione dell'inadempimento, laddove il convenuto dovrebbe dimostrare di aver adempiuto, oppure quale specifica causa a lui “non imputabile” gliel'abbia impedito, secondo il paradigma dell'art. 1218 c.c.

Si suole dire altresì che l'attore dovrebbe provare il nesso di causalità fra condotta e danno (con riferimento espresso all'art. 2392, cfr. di recente Cass., 31 agosto 2016, n. 17441; cfr. però, per l'affermazione generale, nel diritto civile, per cui il nesso di causalità - soprattutto quando la responsabilità è omissiva - costituisce un “giudizio”, non un fatto, sicché esso va dimostrato sul piano logico, e non è oggetto di “prova”, Cass., 20 febbraio 2018, n. 4024; cfr. ancora Cass., 24 ottobre 2017, n. 25112, per la quale la causalità “omissiva” si basa sulla regola del “più probabile che non”, e trattandosi di un giudizio ontologicamente ipotetico, “non può richiedersi una prova rigorosa e certa”. Cfr. in tema R. Campione, L'accertamento del nesso eziologico nel contesto delle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2016, I, 97 ss.). Tuttavia l'asserto appare assai discutibile in un sistema normativo ove l'art. 1218 c.c. onera espressamente il danneggiante di dimostrare quale causa gli abbia impedito di adempiere (cfr. ad es. M. Bona, Il nesso di causa nella responsabilità contrattuale, in Il danno contrattuale, a cura di M. Costanza, Bologna, 2014, 29 s. In senso critico rispetto all'opinione dominante anche M. Costanza, La prova del danno, ivi, 488. In realtà, l'apparente antinomia fra la lettera della norma e l'applicazione giurisprudenziale sembra illustrabile nei seguenti termini: l'uso con successo della regola del “più probabile che non” non costituisce già una prova diretta dell'esistenza del nesso causale, ma costituisce materia per un'inferenza deduttiva, presuntiva, che onera il convenuto di dimostrare l'insussistenza di quel nesso; ancora una volta, una tipica inversione dell'onere probatorio basata su di una massima di esperienza consolidata, e sulla considerazione della normale migliore facilità di accesso alle informazioni rilevanti).

Dunque l'attore, in sede di esercizio dell'azione sociale, dovrà dimostrare per quanto tempo i destinatari dell'azione siano stati titolari degli organi sociali, con quali funzioni specifiche, qualora cioè vi siano incarichi “particolari” (arg. ex art. 2381 c.c.), e poi allegare i tratti morfogenetici delle condotte agli stessi ascritti, violative degli obblighi generici o specifici sugli stessi incombenti (l'onere di puntuale allegazione, tuttavia, riguarda a mio avviso i fatti primari, ossia costitutivi del diritto fatto valere, non quelli secondari e/o accessori, che possono essere assunti dal Giudice ai fini della decisione anche ex officio, se presenti nel materiale probatorio prodotto. L'allegazione allora sarà sufficiente ove l'attore abbia asserito circa la avvenuta perdita del capitale sociale e/o della continuità aziendale ad un determinato momento, e la continuazione dell'attività caratteristica dopo tale evento, ossia se esso abbia dedotto i fatti costitutivi dell'art. 2486 c.c.; i singoli elementi dai quali si può ricavare quella perdita possono poi essere allegati tempestivamente nelle memorie ex art. 183 c.p.c., sicuramente nella prima, ove oggi addirittura l'attore è facoltizzato dal diritto vivente ad introdurre nuove domande, purché “connesse” con quelle che già appartengono al giudizio, od addirittura rilevati officiosamente dal Giudice - e/o dal c.t.u. - nel materiale probatorio offerto. E questo perché non si può trasformare un canone professionale e deontologico “ottimo”, tipico del difensore che esplica la sua funzione al meglio, illuminando diligentemente ogni anfratto del thema decidendum e probandum, in presupposto di ammissibilità delle domande ed eccezioni; d'altro canto, ciò avviene quotidianamente nel settore della responsabilità medica, e nessuno - o quasi - si è mai sognato di asserire che ogni elemento di fatto anche accessorio della condotta del sanitario dissonante dai canoni delle leges artis debba essere puntualmente allegato dall'attore, non potendo così essere “percepito” dal Giudice tramite l'apporto del c.t.u., in funzione appunto “percipiente”. V. ad es. in argomento Cass., 20 gennaio 2015, n. 826, ove l'onere di allegazione degli “elementi in fatto comprovanti l'inesatto adempimento”, ossia dei fatti secondari che qualificavano l'inadempimento, viene addossato in termini negativi al convenuto. Così ad es., se la condotta ascritta all'amministratore consista nell'aver finanziato una parte correlata in difetto di adeguata istruttoria sulla sua capacità di rimborso, l'allegazione sarà così completa e definitiva, ed il Giudice ben potrà assumere officiosamente a fondamento della domanda il bilancio prodotto della società finanziata dal quale si deduca la sua impotenza patrimoniale. E così a maggior ragione anche per i criteri di liquidazione del danno, i quali debbono sì essere proposti dall'attore in ossequio al canone della correttezza processuale e del dovere di collaborazione col Giudice e con la controparte, ma non possono precludere l'applicazione da parte del Tribunale di differenti metodologie, qualora quelle proposte dalla parte non siano ritenute adeguate; la liquidazione del danno, infatti, tantopiù quando essa promana dall'esercizio del potere equitativo di cui all'art. 1226 c.c., è del tutto officiosa, così come officiosa è la decisione di disporre una idonea c.t.u., che può essere “sollecitata” dalla parte, ma non rientra nel fuoco dei suoi oneri allegatori; v. per tutti sul punto M. Franzoni, op. cit., 1993, 869).

Qualora tali condotte siano astrattamente idonee a causare un pregiudizio, in termini di danno-evento (nel contesto, interpretabile qui in via di prima approssimazione come diminuzione patrimoniale: su ciò v. però anche infra), e secondo criteri di “regolarità causale”, per cui sia individuabile una massima di esperienza alla luce della quale è “più probabile” che dalla condotta sia seguita una diminuzione patrimoniale (secondo la logica moderna del “più probabile che non”, e comunque alla luce di una valutazione complessiva della situazione e del materiale probatorio, con adeguata analisi anche delle c.d. alternative controfattuali, ossia degli elementi che potrebbero aver prodotto autonomamente il danno. Non occorre peraltro che la probabilità raggiunta sia superiore al 50%, bastando che l'incidenza eziologica della condotta denunziata sia superiore rispetto a quella degli altri fattori causali ipotetici considerati. Cfr. in giurisprudenza, ex multis, quasi sempre con riferimento a casi di responsabilità “medica”, Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581; Id., 22 dicembre 2015, n. 25767; Cass., 9 giugno 2016, n. 11789; Id., 21 luglio 2011, n. 15991 ), ed il convenuto non offra la prova del fatto interruttivo della propria responsabilità, allora il Giudice dovrà porsi il problema dell'accertamento dell'entità del danno-conseguenza, oggetto di una distinta inferenza causale.

In relazione alle condotte più “belluine”, di natura distrattiva, l'inferenza fra condotta e danno sarà agevole: addirittura in questi casi è difficile separare anche logicamente la condotta materiale (la distrazione) dal danno-evento e poi dal danno-conseguenza.

Ma non mi sembra occorrano particolari citazioni anche per rilevare come normalmente, e dunque in termini di “regolarità causale”, dalla prosecuzione dell'attività nonostante la avvenuta perdita del capitale sociale e/o della continuità aziendale, consegua un deterioramento patrimoniale; ossia, è più probabile che ciò accada piuttosto che non.

Se infatti l'azienda distrugge valore, perché opera in condizioni di squilibrio patrimoniale ed economico (oltre che finanziario), essa brucerà anche quasi certamente cassa, provocando una diminuzione del livello del patrimonio che è conseguenza diretta della prosecuzione dell'attività.

Non è detto naturalmente che non vi siano fattori controfattuali che possano entrare parimenti in considerazione: ad es. se l'impresa opera in un settore in crisi, caratterizzato da diminuzioni nei volumi di ricavi, allora il convenuto potrà dimostrare che il deterioramento patrimoniale è in realtà allineato dimensionalmente con tali dinamiche di mercato. Ma se il deterioramento patrimoniale nel periodo di osservazione è molto consistente, e superiore in termini irragionevoli rispetto al trend degli esercizi a ridosso di quello “illuminato”, sarà difficile che egli possa aver fornito la prova liberatoria: sarà infatti “più probabile” che sia stata la prosecuzione antidoverosa dell'attività (dimostrabile peraltro dalla curatela in ogni modo, non solo tramite la produzione dei contratti stipulati dagli amministratori: basterà ad es. l'esame della natura dei costi e dei ricavi esposti nel conto economico, se riconducibili alla gestione caratteristica, oppure la lettura diretta del libro giornale se prodotto; quando non anche l'esame delle domande di ammissione allo stato passivo, soprattutto se già organizzate e schematizzate in modo da far percepire la stratificazione del passivo nel tempo) a cagionare la maggior parte del danno, piuttosto che fattori esogeni (la giurisprudenza civile sembra assai poco propensa all'adozione di correttivi “equitativi” proporzionali in sede di liquidazione del danno, nei casi in cui la prova del nesso causale evidenzi risultati statisticamente non troppo “solidi”: v. l'apertura ad es. di Cass., 16 gennaio 2009, n. 975, però superata subito da Cass., n. 15991/2011, cit., anche per ragioni di coerenza sistematica con la differente fattispecie della lesione di chance. In realtà, tuttavia, a me pare che la logica “binaria” meglio si attagli al giudizio sulla sussistenza del nesso fra condotta e danno-evento, laddove quanto al danno-conseguenza non vedo perché l'applicazione dell'art. 1226 c.c. non possa condurre il Giudice ad individuare il risarcimento attraverso l'applicazione di un “demoltiplicatore equitativo” della diminuzione patrimoniale rilevata: ad es. cosa ci sarebbe di incoerente nel giudicare che solo il 50% della diminuzione sia imputabile alla condotta illecita dell'amministratore che abbia proseguito l'attività secondo i canoni pregressi, quando la crisi del mercato avrebbe probabilmente ed autonomamente comunque determinato l'altra parte della perdita ? Cfr. in tal senso a es. Trib. Bologna, 30 marzo 2004, Fall. Cartiere Zaniboni, in www.giuremilia.it).

Ancora, è possibile che il convenuto alleghi (e dimostri) che la prosecuzione dell'attività è stata necessaria anche al fine di mantenere il valore di taluni investimenti in assets, soprattutto immateriali, che è stato poi possibile realizzare (oppure astrattamente, ma il problema è assai complesso, che la curatela non ha saputo realizzare adeguatamente: v. infra), e che in caso di interruzione immediata dell'attività sarebbero “evaporati”. Il problema si confonde però con quello della illiceità (in termini di “irrazionalità”) della condotta, come spesso capita quando quest'ultima è intrisa in massima parte di elementi di tipo giuridico e non materiale.

Quanto detto si attaglia con certezza alle azioni “sociali”, il cui titolo “contrattuale” è indiscusso. In relazione invece alle azioni esperite in sostituzione dei creditori ai sensi dell'art. 2394 c.c. che, è appena il caso di ricordarlo, costituiscono la stragrande maggioranza delle azioni concretamente accolte, con contestuale assorbimento dell'azione sociale contestualmente “cumulata” nel giudizio, la giurisprudenza è ormai schierata decisamente a favore della natura extracontrattuale, pur sottraendosi per lo più ai vari argomenti, spesso anche di natura abbastanza anfibologica, che la dottrina ha offerto sul punto.

Così, essa pare non dubitare che “fra le due azioni sussistono notevoli divergenze non solo per quanto riguarda la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche in relazione al diverso atteggiarsi dell'onere della prova e ad all'ammontare dei danni risarcibili (nell'azione sociale i convenuti sono infatti gravati dell'onere di provare l'inimputabilità a sè del fatto dannoso e possono essere chiamati a rispondere non solo del danno emergente, ovvero delle perdite, ma anche di quello da lucro cessante)” (Cass., 20 settembre 2012, n. 15955; in termini non dissimili v. peraltro anche Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488. Un accenno alla natura extracontrattuale si rinviene anche nella motivazione di Cass., Sez. Un., n. 9100/2015, ma esso appare per la verità del tutto estraneo alla ratio decidendi; più decisamente orientata Cass., Sez. Un., n. 1641/2017, sulla quale ci si soffermerà in modo specifico infra).

Ma in realtà, a parte le indubbie e rilevanti discontinuità nel dies a quo per i termini prescrizionali (decorrenti rispettivamente dalla cessazione dalla carica e dalla oggettiva percepibilità dell'insufficienza patrimoniale), non sembra che nelle fattispecie concrete sia distinguibile una reale differenza quanto ai presupposti applicativi.

Con riferimento in particolare ai sindaci, costituisce ad es. principio ormai consolidato in giurisprudenza quello per cui “ai fini della configurabilità della violazione del dovere di vigilanza imposto ai sindaci, non è necessaria l'individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, essendo invece sufficiente che i componenti dell'organo di controllo non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, e non abbiano quindi posto in essere quanto necessario per assolvere l'incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all'assemblea le irregolarità riscontrate, ovvero denunziando i fatti al P.M., per consentire l'adozione delle iniziative previste dall'art. 2409 c.c.” (Cass., 27 aprile 2017, n. 16314; Id., 13 giugno 2014, n. 13517; Id., 29 ottobre 2013, n. 24362; Id., 11 novembre 2010, n. 22911 ).

Quanto poi all'indagine sul nesso di causalità, va detto che la S.C. ha pure stabilmente affermato negli ultimi anni che deve presumersi che la tempestiva adozione degli strumenti di reazione messi a disposizione dei sindaci dall'ordinamento giuridico, od anche la sola minaccia di adottarli, sia idonea ad evitare o ad attenuare il danno (cfr. le ultime tre sentenze della S.C. citate supra).

Tali principi sembrano conformi, nella sostanza, con quanto sviluppato sopra, nella misura in cui essi creano un'adeguata sistemazione degli oneri allegatori e probatori in capo al fallimento, conforme all'id quorum plerumque accidit.

Ma importa anche osservare come tutto ciò sia affermato senza nessuna distinzione a seconda della natura sociale o creditoria dell'azione spiegata.

Questo forse può trovare spiegazione anche, come si è già detto, nel fatto che l'azione dei creditori ha uno spettro applicativo ed un'efficacia molto più ampi, sicché normalmente è tale diritto che viene accertato per primo, restando l'altro “assorbito”.

Ma forse il diritto vivente è giunto anche a percepire come di fatto il modo di valutare gli elementi costitutivi, nelle due azioni, non possa essere concepito in modo diverso.

La determinazione a ricostruire l'azione dei creditori in termini di responsabilità extracontrattuale sembra in effetti discendere più che altro dalla consapevolezza che tale assunto consente di predicare con tranquillità anche la autonomia dell'azione creditoria da quella sociale, così evitando le disarmonie che discenderebbero dall'accoglimento della tesi per cui la prima avrebbe invece natura surrogatoria.

Ma in realtà appare difficile sfuggire alla sensazione che la spinta moderna verso l'utilizzo della tecnica della responsabilità contrattuale, nella intermediazione dei conflitti che vedono il danneggiato ed il danneggiante avvinti da un vincolo precedente all'insorgere del danno, debba influenzare anche la soluzione a questo problema.

Vi può essere infatti responsabilità contrattuale infatti anche quando danneggiato e danneggiante non siano parti di un contratto, ma esista fra gli stessi un rapporto qualificato che li differenzia reciprocamente dalla semplice percezione del quivis de populo: contatto sociale, status qualificati, qualsiasi fatto assunto dalla legge come fonte di obblighi o di diritti (art. 1173 c.c.)(v. di recente, a proposito di omesso lancio di OPA obbligatoria, Cass., 13 ottobre 2015, n. 33774; più di recente Cass., 25 luglio 2018, n. 19741).

E di certo l'operato degli amministratori, nella gestione del patrimonio sociale, non può agevolmente essere considerato estraneo al rapporto (questo sì contrattuale) fra la società ed il creditore (in questo senso M. Fabiani, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi di impresa, in fallimenti e società, 2015); anche a prescindere dall'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo del creditore all'integrità del patrimonio sociale, azionabile direttamente nei confronti dell'amministratore, la legge senz'altro ne funzionalizza (in termini di limite “esterno”, oppure di vincolo “interno” non importa qua) la gestione anche al soddisfacimento di tali interessi, ossia alla non compromissione degli stessi, soprattutto quando l'impresa conosce la fase di declino e di crisi.

Dunque in realtà anche la responsabilità di cui all'art. 2394 c.c. ha natura contrattuale, a prescindere dal titolo dal quale essa nasce, e dunque sono sempre le regole di cui agli artt. 1223 ss. c.c. a doversi applicare, a prescindere dal fatto che si valuti l'azione di responsabilità sociale o piuttosto dei creditori.

Ciò determinerebbe l'applicabilità anche di norme che nel contesto della responsabilità civile non sono avvertite come di estremo favore per il danneggiato: ad es. dell'art. 1225 c.c., che limita il risarcimento alle conseguenze “prevedibili” al momento dell'insorgere del rapporto (con l'unica eccezione del contegno doloso).

Va anche detto però che la disposizione (che risponde alla funzione di indurre: da un lato il potenziale danneggiante ad adottare tutte le precauzioni ragionevoli per evitare l'insorgere di danni, senza coinvolgere rischi imprevedibili, che potrebbero ostacolare l'assunzione dell'obbligo - ma va anche detto che la norma è derogabile, sicché le parti potrebbero pattuire specificamente anche in merito ad eventuali rischi “imprevedibili” -; e dall'altro il potenziale danneggiato ad adottare pure misure precauzionali aggiuntive, in armonia con il principio di autoresponsabilità, senza confidare nel solo operato della sua controparte contrattuale. Sull'art. 1225 c.c. v. per tutti C.M. Bianca, Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Comm. c.c. Scialoja e Branca, Bologna- Roma, 1979, 371 ss.; F. Rossi, Prevedibilità del danno, in Il danno contrattuale, cit., 63 ss.), a prescindere da ogni perplessità sulla sua applicabilità in astratto a situazioni non caratterizzate dalla preesistenza di un contratto fra danneggiante e danneggiato (c'est à dire, forse l'art. 1225 c.c. è norma specifica di una relazione che nasce in forza della stipula di un contratto, siccome rivolta ad influenzare il comportamento originario di due paciscenti, e risulta pertanto oggettivamente inapplicabile alle fattispecie da “contatto sociale”, ove il momento genetico si presenta in modo differenziato ), è oggetto di interpretazioni fortemente “riduzionistiche”, che ne valorizzano da un lato la superfluità in relazione al canone della “regolarità causale” di cui all'art. 1223 c.c. (forse anche con una certa confusione fa danno-evento e danno-conseguenza), e dall'altro ancorano il momento rilevante ai fini della prevedibilità in quello in cui il danneggiante deve effettuare la scelta se adempiere o meno, accontentandosi peraltro anche di livelli previsionali connotati da mera “possibilità”.

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