Anche le società pubbliche possono fallire: il caso del Casinò di Campione

10 Settembre 2018

Alle società c.d. legali o di diritto singolare, per quanto non previsto da specifiche disposizioni della legge istitutiva, si applica il diritto societario, compresa la disciplina sulle procedure concorsuali.
Massima

Alle società c.d. legali o di diritto singolare, per quanto non previsto da specifiche disposizioni della legge istitutiva, si applica il diritto societario, compresa la disciplina sulle procedure concorsuali. Non può, infatti ipotizzarsi un tipo sociale scardinato dalla disciplina del diritto comune per non creare un vero e proprio mostro giuridico completamente nelle mani della gestione politica e interamente irresponsabile nei confronti dei terzi, con evidente violazione dei principi di uguaglianza e di legittimo affidamento. (Nel caso di specie è stato dichiarato il fallimento della Casinò di Campione d'Italia s.p.a.)

Il caso

La sezione fallimentare del Tribunale di Como si è pronunciata sulla questione dell'assoggettabilità alle procedure concorsuali della società Casinò di Campione d'Italia s.p.a, che gestisce l'omonimo casinò. In particolare, il Tribunale di Como - decidendo sull'istanza di fallimento avanzata dalla Procura di Como ha statuito che, al fine di escluderne la fallibilità, la predetta società per azioni non può essere annoverata né come ente pubblico, né tra gli organismi di diritto pubblico ovvero tra le società in house. Infine, anche a voler annoverare la società Casino Campione nella categoria delle c.d. società legali o di diritto singolare, non vi sarebbero dubbi sull'applicabilità del diritto comune, che, nel caso de quo, apre la strada alla procedura di concordato preventivo.

Le questioni

La sentenza annotata focalizza l'attenzione sulla fallibilità delle società a partecipazione pubblica, questione, che, per lungo tempo, ha attirato l'attenzione della dottrina e della giurisprudenza e che, recentemente, ha trovato espressa positivizzazione nel D.Lgs. n. 175/2016 (T.U. in materia di società a partecipazione pubblica).

In particolare, il Tribunale si interroga sulla corretta qualificazione da attribuire alla società Campione s.p.a. In primo luogo, si esclude la natura di ente pubblico – invocata dal Casinò per evitare la fallibilità – facendo leva sul principio fondamentale espresso dall'art. 4 della L. n. 70/1975 (c.d. Legge sul parastato), il quale dispone che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. È, dunque, prevista una riserva di legge connessa al riconoscimento di detta qualità, che, se non espressamente attribuita per legge, “deve necessariamente potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco, che nella specie manca del tutto”.

Il Tribunale di Como, più nel dettaglio, ritiene che un regime speciale in deroga alle ordinarie norme del diritto concorsuale non può essere configurato sulla base del R.D.L. 201/1933, del D.M. 20.07.1933 ovvero del D.L. 174/2012, che ha autorizzato a costituire l'attuale società per azioni, “prevedendo non solo la destinazione di scopo e la destinazione al Comune di Campione (…) di particolari contributi in denaro, ma anche degli stringenti controlli da parte delle autorità ministeriali (…), che si giustificano in ragione della peculiare attività svolta dalla società”, cioè il gioco d'azzardo. O meglio, sembrerebbe che sia la stessa legge (art. 10-bis D.L. n. 174/2012) a prevede la sottoponibilità della società Casinò di Campione s.p.a. alle procedure concorsuali, introducendo quale causa di risoluzione della convenzione tra il Comune di Campione e la società le ipotesi di “messa in liquidazione, fallimento, sottoposizione ad amministrazione controllata, concordato preventivo (…)”.

Secondo la ricostruzione del Tribunale non può neanche giovare a ritenere la società de qua un ente pubblico il ricorso alla categoria dell'organismo di diritto pubblico. Infatti, la Casinò Campione d'Italia s.p.a. opera “nel mercato come un normale soggetto di diritto privato, svolgendo una finalità tipicamente speculativa e svolgendo una attività di impresa (…) con l'unico vincolo di destinare una parte dei ricavi al bilancio del Comune”. Non sussistono, quindi, i tre requisiti delineati dalla costante giurisprudenza delle Sezioni unite - e oggi recepiti nel D.lgs. n. 50/2016, art. 3 comma 1 lett. d) - ovvero la personalità giuridica di diritto privato; il requisito dell'influenza dominante del soggetto pubblico e il requisito teleologico, che impone che l'organismo sia destinato a perseguire interessi generali, aventi carattere non industriale o commerciale.

Infine, i giudici di Como ritengono che per la società del Casinò Campione d'Italia non sussiste neanche quel “particolare rapporto di delegazione organica tra società ed ente comunale” proprio del fenomeno dell'in house providing.

Nel caso di specie, dunque, non sussistono gli elementi strutturali dell'in house, cioè la partecipazione pubblica totalitaria o altamente maggioritaria, lo svolgimento dell'attività prevalente nei confronti dei soggetti partecipanti e il c.d. controllo analogo a quello che la PA controllante esercita nei confronti dei propri organi. Più precisamente, “risultano ictu oculi mancanti sia il requisito dello svolgimento dell'attività della società nei confronti della collettività, essendo l'attività del Casinò rivolta evidentemente a clientela, sia nazionale che internazionale, che il requisito del controllo analogo, in quanto il Comune non è titolare di concreti poteri di azione diretta sulla gestione della società”.

Sulla scorta di quanto precede è indubbio, secondo le argomentazioni del Tribunale di Como, che la società per azioni Casinò Campione non può annoverarsi tra gli enti pubblici e deve essere ricompresa tra le società commerciali a cui sia applica il diritto societario, incluso quello delle procedure concorsuali.

Alla medesima conclusione si arriva anche provando a qualificare – come proposto dalla s.p.a. e dal Comune – la Casinò Campione d'Italia quale società legale o di diritto singolare.

Questa tipologia di società pubblica di derivazione pretoria è stata introdotta, data l'“impossibilità di delineare un quadro normativo unitario del complesso sistema delle società a partecipazione pubblica, ove sono confluiti (…) provvedimenti normativi nei più disparati livelli, volti a disciplinare di volta in volta singoli aspetti peculiari della disciplina delle società in mano pubblica”.

Tuttavia, la stessa dottrina favorevole alla creazione della categoria delle società legali è attenta nel precisare che a dette compagini sociali “per quanto non previsto da specifiche disposizioni della legge istitutiva si deve applicare il diritto comune, e dunque anche la disciplina del diritto societario e quella del diritto concorsuale”.

Questa ricostruzione della figura delle società legali trova, altresì, riscontro nella giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza 27 settembre 2013, n. 22209), la quale ha chiarito che per queste ultime “l'appartenenza ad un tertium genus, qualificabile come società-ente” non implica la sottrazione “in toto al diritto comune”. Più nel dettaglio, il Tribunale di Como ha sottolineato che “ipotizzare un tipo sociale scardinato dalla disciplina di diritto comune equivale a creare un vero e proprio mostro giuridico completamente nelle mani della gestione politica ed interamente irresponsabile nei confronti dei terzi”, con evidente violazione dei principi di uguaglianza (o meglio, di parità di trattamento) e di legittimo affidamento.

Queste argomentazioni hanno, infatti, condotto la Cassazione (Cass., sentenza 6 dicembre 2012, n. 21991) a escludere che, ai fini della non assoggettabilità di una società partecipata, non rileva la soggezione al potere di vigilanza e controllo pubblico, il quale si esplica “nella verifica della correttezza dell'espletamento del servizio comunale svolto, riguardando (…) l'attività operativa della società nei suoi rapporti con l'ente locale o con lo Stato, non nei suoi rapporti con i terzi e le responsabilità che ne derivano”.

Le predette considerazioni, nel caso di specie, fanno escludere la natura pubblica della società Casinò di Campione s.p.a., dato che i poteri di controllo e vigilanza del Ministero dell'Interno e del Ministero dell'Economia trovano giustificazione esclusivamente nella peculiare attività svolta dalla società.

Chiarito ciò, il Tribunale di Como coglie l'occasione per richiamare il recente intervento legislativo realizzato in materia dal D.Lgs. n. 175/2016 (TUSPP) il quale, aderendo alla c.d tesi panprivatistica, prevede espressamente che alla “variegata galassia delle società con partecipazione pubblica” si applica la disciplina prevista dal diritto comune, comprese le norme relative alle procedure concorsuali, “con la conseguenza che tutte le società a partecipazione pubblica sono fallibili e possono accedere alle procedure concorsuali”.

Non giova, secondo la ricostruzione dei giudici comaschi, a escludere il diritto concorsuale comune neanche il richiamo all'art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 175/2016, il quale prevede, tra l'altro, che restano ferme “le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l'esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse (…)”. In particolare, la ratio di detta disposizione è quella di salvaguardare i vincoli di destinazione delle società pubbliche e “non quella di derogare all'applicazione delle norme di diritto comune laddove non espressamente derogate dalle singole disposizioni normative”, anche per ragioni di carattere sistematico. Invero, l'inciso l'art. 1 del TUSP non è richiamato all'art. 14 che, invece, rende applicabile in via generale alle società pubbliche le procedure concorsuali.

Il Tribunale, operata una chiara ricostruzione della natura giuridica della Casinò di Campione s.p.a., risolve in senso affermativo la questione oggetto della controversia circa l'assoggettabilità della società alla legge fallimentare, accogliendo, quindi, la domanda (subordinata) di accesso alla procedura di concordato preventivo.

La prevalenza della procedura di concordato rispetto a quella fallimentare è stata chiarita dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza 15 maggio 2015, n. 9935 che hanno “definitivamente sancito che il principio di priorità logica della procedura concordataria rispetto al fallimento”, al quale si può ricorrere “solo quando (…) il concordato sia stato definitivo con esito negativo”.

Osservazioni

Il provvedimento del Tribunale di Como annotato focalizza l'attenzione sulla possibilità di assoggettare le società pubbliche alle procedure concorsuali.

La tematica non assume rilievo meramente accademico, in quanto la sottrazione dall'area di applicazione del diritto comune e, in particolare, della legge fallimentare rischia di riverberarsi negativamente sul legittimo affidamento serbato dai terzi che entrano in contatto con la società e sul principio della parità di trattamento dei creditori, i quali confidano sulla possibilità di rivalersi in sede di procedure concorsuali sul patrimonio della società.

Prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 175/2016 - che ha optato per la “fallibilità” delle società pubbliche - il dibattito risultava particolarmente vivace in dottrina e giurisprudenza.

In particolare, la diatriba ruota(va) intorno all'art. 1 l. fall., il quale dispone che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività, commerciale, esclusi gli enti pubblici”.

La ratio di quest'ultima deroga - come chiarito dal Consiglio di Stato nel parere reso a monte del D.Lgs. n. 175/2016 (parere n. 968/2016) – tradizionalmente è stata ancorata al fatto che “le regole di diritto comune, applicate agli enti pubblici economici, avrebbero finito per incidere sull'esistenza stessa dell'ente stesso. La “essenzialità” dell'ente imponeva, pertanto, la sua esclusione dall'applicazione delle procedure concorsuali”.

Pacifica la non assoggettabilità alle procedure concorsuali degli enti pubblici, maggiori incertezze si sono registrate con riferimento all'applicabilità dell'art. 1 l. fall. alle società pubbliche. Queste ultime, infatti, hanno innegabilmente natura privata, dalla quale discende l'applicabilità delle norme del codice civile, ma al contempo usufruiscono di risorse pubbliche derivanti dalla quota del socio pubblico, circostanza che può alterare la natura dell'organismo societario.

Pertanto, in una cornice normativa lacunosa rispetto alla proliferazione degli enti destinati al perseguimento di interessi collettivi, un ruolo fondamentale circa la delimitazione dell'area di operatività del diritto concorsuale è stata svolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Tre le principali tesi emerse. La prima teoria, poggia sul criterio funzionale, in virtù del quale le compagini sociali pubbliche non rientrano nell'ambito di applicazione delle regole delle procedure concorsuali

La seconda teoria c.d. tipologica esclude la possibilità di assoggettamento al fallimento e al concordato preventivo per le società in mano pubblica che abbiano i requisiti strutturali dell'in house, ovvero la partecipazione pubblica totalitaria (o quasi totalitaria) al capitale sociale, l'attività svolta prevalentemente nei confronti degli enti controllanti e il controllo analogo a quello che l'ente pubblico esercita nei confronti dei propri uffici servizi.

Infine, l'orientamento c.d. panprivatistico ritiene che anche per le società partecipate opera l'ordinaria disciplina delle procedure concorsuali. Detto assunto troverebbe conforto nell'art. 2449 c.c., il quale con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede solo un particolare potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.

Questa tesi interpretativa è risultata prevalente nella giurisprudenza che ha recepito la“tendenza a regolamentare il fenomeno delle società a partecipazione pubblica, in assenza di una esaustiva ed univoca disciplina specifica, con le norme di diritto comune, ivi incluso il diritto concorsuale”(ex multis Cass., sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196; Cass., S.U., sentenza 1 dicembre 2016, n. 24591; Cass., sentenza 16 dicembre 2013, n. 28015; Cass., sentenza 27 settembre 2013, n. 22209; Cass., sentenza 6 dicembre 2012, n. 21991)

Tuttavia, è la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione (precedente al TUSP) che prevedeva un regime peculiare per le società in house, alle quali non si riteneva applicabile il diritto fallimentare, poiché qualificabili come una longa manus dell'amministrazione stessa. Più nel dettaglio, “l'entein house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa. Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e societàin house non si realizza più in termini di alterità soggettiva(Cass., sentenza 27 settembre 2013, n. 22209, cit.).

In via di estrema sintesi, secondo l'orientamento interpretativo prevalente la deroga all'ordinaria fallibilità non può operare per le società pubbliche poichè queste ultime hanno natura privata. Questa ricostruzione è stata fatta propria anche dal D.lgs. n. 175/2016, attuativo delle c.d. Riforma Madia (L. n. 124/2015) in tema di società partecipate, il quale ha recepito la tesi panprivatistica, come testimoniano gli articoli 1, 12 e 14.

In particolare, il terzo comma dell'art. 1 prevede che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme (…) contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato. Anche l'art. 12 del D.lgs. 175/2016 in tema della responsabilità degli organi di governance, incoraggia il sistema privatistico, disponendo che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”. Viene, tuttavia, fatta salva “la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”.

Dunque, il tenore letterale del primo comma dell'art. 12 conferma l'orientamento delle Sezioni Unite consolidatosi sin dal 2009 che ha introdotto il principio della generale soggezione dei membri degli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche (non in house) alle ordinarie azioni di responsabilità previste agli artt. 2393-2395 c.c, comportando un arretramento della disciplina pubblicistica a favore del regime civilistico di responsabilità.

La differenza di regime per le società in house è stato, invece, eliminato nell'art. 14 del T.U. società partecipate il quale, in tema di crisi d'impresa di società a partecipazione pubblica, afferma in maniera netta che (tutte) le compagini pubbliche “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”.

Questa norma, rappresenta il diretto precipitato dell'orientamento giurisprudenziale prevalente prima della riforma Madia, il quale facendo leva sulla forma societaria e sulla natura giuridica sostanzialmente privata ha optato per l'applicazione in via generale dello statuto dell'imprenditore commerciale, compresa la normativa in tema di procedure concorsuali.

Appare evidente, quindi, l'idea del legislatore delegato ad attuare la L. n. 124/2015 di non prevedere una disciplina speciale per il fenomeno dell'in house provinding,nonostante i dubbi sollevati dalla commissione speciale insediata presso il Consiglio di Stato. In particolare, nel parere reso il 16 marzo 2016 si invitava il governo a rimeditare la “disciplina del fallimento delle società in house, che va affrontata esaminando congiuntamente gli articoli 14 e 21 del t.u. n. 175 del 2016”. Infatti, l'art. 21 comma 1, impone alle pubbliche amministrazioni locali partecipanti di accantonare nel bilancio un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione. Da ciò, secondo il Consiglio di Stato, “deriva che, nel caso di società interamente partecipate dall'ente locale, qualora quest'ultimo non intenda dismettere la partecipazione o porre in liquidazione la società sarà obbligato a ripianare le perdite, eventualità quest'ultima che negherebbe in radice la possibilità per le società in house di fallire”.

Anche la Vª Commissione Permanente della Camera aveva messo in luce le proprie perplessità circa la mancata previsione della deroga alla fallibilità per le società in house. Più precisamente, il parere della predetta Commissione del 30 giugno 2016 esortava a valutare“l'opportunità di individuare (…) una distinzione netta (…) tra società strumentali e società in house, con deroghe al codice civile di maggiore intensità”.

Nonostante dette sollecitazioni il legislatore del Testo Unico società partecipate ha ritenuto di non prevedere deroghe all'applicazione della Legge Fallimentare per le società in house. Detta conclusione sembrerebbe confortata anche dal comma 6 del medesimo art. 14 T.U., il quale dispone che “nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita”. Il riferimento alle società titolari di affidamenti diretti non lascerebbe, quindi, dubbi sulla fallibilità anche delle società in house.

Alla luce di quanto precede, appare logico il ragionamento operato dal Tribunale di Como nella vicenda relativa alla possibilità di applicare le disposizioni della Legge Fallimentare alla società Casino di Campione d'Italia s.p.a.

Viene, infatti, esclusa la natura di ente pubblico, in quanto il vincolo di scopo nell'oggetto sociale, la destinazione al Comune di particolari contributi pubblici e i controlli ministeriali sulla società sono giustificati dall'attività di gioco d'azzardo svolta dalla società.

Impossibile anche ricondurre la società del Casinò di Campione d'Italia nel concetto di organismo di diritto pubblico, attesa la finalità speculativa e l'operatività sul mercato come un normale soggetto di diritto privato nei limiti della normativa speciale applicabile alle case da gioco.

Ancora, secondo il Tribunale di Como mancherebbe tra la società e il Comune di Campione d'Italia il rapporto di delegazione interorganica proprio del modello di organizzazione meramente interno riconducibile al sintagma della società in house. Sarebbero, pertanto, assenti nella fattispecie in esame, sia il requisito dello svolgimento dell'attività della società nei confronti della collettività, (essendo l'attività del gioco d'azzardo del Casinò rivolta non solo a clientela nazionale), sia il controllo analogo da parte del Comune.

Non ha convinto il Tribunale neanche la tesi che mira a ricondurre la società Casinò Campione s.p.a. nella categoria di derivazione pretoria della società legale o di diritto speciale, in quanto anche a dette tipologie di compagini sociali, per quanto non espressamente previsto da specifiche disposizioni di legge, si applica il diritto comune anche in materia di procedure concorsuali.

Il Tribunale di Como, dunque, non ha dubbi circa applicabilità della disciplina prevista dal diritto societario alle società a partecipazione pubblica, in assenza di una differente disciplina, oltre al principio generale della fallibilità positivizzato dall'art. 14 del T.U. società partecipate, anche la costante giurisprudenza prevalente sia precedente che successiva al D.Lgs. 175/2016.

Infatti, la Cassazione a varie riprese ha ribadito che “la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità”(ex multis Cass., sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196, cit.; Cass., S.U. sentenza, 1 dicembre 2016, n. 24591; Cass., sentenza 16 dicembre 2013, n. 28015; Cass., sentenza 27 settembre 2013, n. 22209; Cass., sentenza 6 dicembre 2012, n. 21991) .

Sulla scorta di quanto precede, il Tribunale di Como conclude per l'assoggettamento all'ordinaria disciplina del concordato preventivo (prevalente su quella del fallimento) anche della società Casinò di Campione s.p.a.

Conclusioni

La pronuncia del Tribunale di Como in esame si inserisce a pieno titolo nel solco scavato da anni dalla giurisprudenza di legittimità (e di merito) ormai univoca nel ritenere che anche le società pubbliche sono assoggettabili al fallimento e possono accedere alle procedure concorsuali, proprio per tutelare l'affidamento ingenerato nei confronti di terzi e dei creditori.

Si vuole, infatti, evitare che le strutture societarie partecipate da soggetti pubblici divengano assoggettate unicamente alla politica e irresponsabili nei confronti dei terzi, aprendo, così, la strada a possibili disastri finanziari e contabili.

Oggi la vexata quaestio circa l'applicabilità delle disposizioni comuni del diritto concorsuale sembrerebbe risolta dall'art. 14 T.U. società partecipate che ha recepito, anche per il profilo della gestione della crisi d'impresa, la c.d. tesi panprivatistica. Questa scelta del legislatore si pone, altresì, in linea con l'art. 1 l. fall.., che esclude dall'area delle procedure concorsuali solo gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile (come testimoniano l'art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012 e l'art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016).

In definitiva, se si parla di applicazione del diritto comune alle società pubbliche “vanno respinte le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche” (Cass., sentenza 7 febbraio 2017, n. 3196), da cui consegue l'operatività del diritto societario, incluso quello che disciplina le procedure concorsuali.