I “chiarimenti” dell’Agenzia delle Entrate sulla transazione fiscale
17 Settembre 2018
Con la circolare n. 16 del 23 luglio scorso l'Agenzia delle Entrate ha fornito pregevoli e condivisibili chiarimenti sulla disciplina della transazione fiscale recata dal novellato art. 182-ter l.fall., ma è “scivolata” (anche a proprio danno) proprio su uno degli aspetti più importanti tra quelli trattati. Vediamo perché.
È noto che il citato articolo stabilisce che la domanda di concordato preventivo può prevedere il pagamento parziale, o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, se: 1) il piano su cui si fonda il concordato preventivo ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile attraverso un'alternativa liquidazione, tenuto conto del valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione dell'Erario, attestato da un professionista munito dei requisiti di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall.; 2) la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie offerti all'Erario non sono inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore e a quelli offerti ai creditori chirografari.
Così come accade per la generalità dei crediti privilegiati, la condizione per proporre il pagamento parziale dei crediti tributari (comprese Iva e ritenute alla fonte) è dunque costituita dall'oggettiva incapienza del valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, attestato da un esperto qualificato. Le norme in tema di composizione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla L. 7 gennaio 2012, n. 3, continuano invece a prevedere l'infalcidiabilità e, quindi, la mera dilazionabilità dell'Iva e delle ritenute operate e non versate. Per l'Agenzia delle entrate, pertanto, in assenza di una disposizione in tale senso, le prescrizioni contenute nell'art. 182-ter non sono estendibili a tale procedura. In dottrina è controversa l'obbligatorietà dell'attestazione in presenza di una proposta contenente solo la dilazione del pagamento dei crediti tributari e contributivi, ma non la loro soddisfazione parziale, sostenendosi che l'attestazione sarebbe necessaria solo se la dilazione proposta comporta una perdita economica rispetto ai maggiori tempi che occorrerebbe attendere nell'ipotesi della liquidazione fallimentare e che non dovrebbe essere necessaria in presenza di una mera moratoria annuale ex art. 186-bis, comma 2, ovvero per la dilazione dovuta ai tempi tecnici strettamente necessari per la liquidazione del bene gravato dalla prelazione. Con riguardo all'attestazione richiamata al precedente punto 1, l'Agenzia delle entrate ha precisato che l'attestatore deve “tenere conto anche del maggiore apporto patrimoniale rappresentato dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale oppure ottenuto all'esito dell'attività liquidatoria gestita in sede concordataria, che non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato finanza endogena, in quanto, ai sensi dell'art. 2740 c.c., l'imprenditore è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri”. Nella circolare è richiamato un passaggio della sentenza n. 9373 del 28 giugno 2012, con cui la Cassazione si è pronunciata sulla necessità di rispettare o meno la regola di cui all'art. 160, comma 2, l.fall. con riguardo all'apporto finanziario del terzo (che costituisce la fattispecie tipica di “finanzia esterna”). I giudici di legittimità hanno al riguardo ritenuto che “l'apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società”, ovvero a condizione che l'intervento finanziario sia utilizzato per pagare direttamente i debiti della società senza comportare una variazione nell'attivo e nel passivo del debitore.
Con questa precisazione l'Agenzia dà per scontata l'applicabilità dell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui “la prosecuzione dell'attività di impresa in sede concordataria non può comportare il venir meno della garanzia patrimoniale del debitore, che risponde dei suoi debiti con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 c.c.), non creando la prosecuzione dell'attività di impresa un patrimonio separato o riservato in favore di alcune categorie di creditori (anteriori o posteriori alla domanda di concordato). Né pare consentito azzerare in sede concordataria il rispetto delle cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.), che è un corollario della responsabilità patrimoniale” (così testualmente Tribunale di Milano, decreto 15 dicembre 2016. In tal senso anche Corte di Appello di Venezia, 12 maggio 2016). Tale indirizzo, tuttavia, nonostante il pregio della sua elaborazione, non è affatto pacifico, giacché secondo altri Giudici (cfr. Tribunale di Milano, 3 novembre 2016; Tribunale di Prato, 7 ottobre 2015; Tribunale di Treviso, 16 novembre 2015 e 23 marzo 2015; Tribunale di Rovereto, 13 ottobre 2014; il Tribunale di Torino, 7 novembre 2013; Tribunale di Saluzzo, 13 maggio 2013) le risorse finanziarie originate dalla prosecuzione dell'attività di impresa (ovvero i flussi finanziari disponibili o free cash flow), sebbene da essa provenienti, costituirebbero risorse “esterne” o “esogene”, che non derivano dalla liquidazione dell'attivo patrimoniale e la cui destinazione, quindi, non sarebbe soggetta all'obbligo di rispettare le cause legittime di prelazione. Secondo questo diverso orientamento, alla regola richiamata dall'art. 160, comma 2, l.fall. è infatti sottratto il maggior valore discendente dall'attuazione del piano concordatario, rispetto al valore dell'attivo esistente al momento della domanda di concordato, che costituirebbe il limite di soddisfazione della garanzia dei creditori prelatizi: pertanto, tale maggiore valore, essendo classificabile quale surplus concordatario, sarebbe liberamente distribuibile dal debitore al pari degli apporti finanziari esterni al patrimonio del debitore. Secondo questa diversa tesi, quindi, la distinzione tra “finanza endogena” e “finanza esterna” non dipende dalla fonte da cui provengono le risorse finanziarie da utilizzare per il pagamento dei debiti, dovendo la seconda locuzione corrispondere alla differenza tra il maggior valore ottenuto tramite la prosecuzione dell'attività economica rispetto al valore dell'attivo stimato nella relazione ex art. 160, comma 2, l.fall.: in quest'ottica, nel concetto di “finanza esterna” o nuova finanza” rientrerebbero a rigore anche le maggiori somme ricavate dalla vendita dei beni aziendali rispetto al valore stimato nell'ambito della suddetta relazione, sebbene si tratti di beni facenti parte del patrimonio del debitore già al momento dell'apertura della procedura.
Sussiste, dunque, una contrapposizione tra coloro che non rinvengono nell'art. 186-bis l.fall. e nell'art. 184 l.fall. un'implicita deroga alla responsabilità patrimoniale sancita dall'art. 2740 c.c. (non essendo ammissibile la costituzione di due patrimoni separati del debitore), e coloro che invece ritengono sussistente detta deroga, in quanto “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”: per questa seconda corrente di pensiero, le risorse derivanti dalla prosecuzione dell'attività possono essere conseguentemente destinate discrezionalmente ai creditori privilegiati e chirografari, purché i primi ricevano un miglior trattamento dei secondi. Uno degli argomenti utilizzati in dottrina per supportare la tesi che annovera nel concetto di “quid pluris concordatario”, caratteristico del concordato in continuità, i flussi finanziari derivanti dalla prosecuzione dell'attività concerne proprio l'effetto esdebitatorio conseguente all'omologazione del concordato preventivo ex art. 184 l.fall., che, da un lato, comporta il venir meno del credito stralciato e, dall'altro, l'equiparazione dei creditori anteriori, con azzeramento della cause di prelazione.
Pertanto, l'errore in cui, ad avviso di chi scrive, è incorsa l'Agenzia delle entrate, nel pretendere che i flussi finanziari generati dalla continuità aziendale siano considerati dall'attestatore finanza endogena (e non una risorsa economica nuova), è proprio quello di avere assunto che il quid pluris generato dal risanamento aziendale debba essere pacificamente destinato integralmente al soddisfacimento dei crediti privilegiati fino a concorrenza del loro ammontare. Ciò in base alla più “rigida” interpretazione fornita dalla giurisprudenza circa il disposto dell'art. 160, comma 2, l.fall.. Si è invece ora evidenziato che tale orientamento risulta non condiviso da molti tribunali, anche perché, se questa fosse l'interpretazione corretta della norma testé citata, in caso di incapienza dell'attivo si renderebbe obbligatorio l'apporto esterno di nuove risorse finanziarie per la soddisfazione dei creditori chirografari, il quale dunque diventerebbe condizione di ammissibilità della proposta concordataria pur in assenza di una disposizione in tal senso. Inoltre, se fosse corretta la tesi data per scontata e fatta propria dall'Agenzia, non potendosi utilizzare i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell'attività, in caso di incapienza dell'attivo senza (altri) apporti esterni non residuerebbero risorse per soddisfare (nemmeno parzialmente) quelli chirografari e la proposta concordataria risulterebbe inattuabile, anche laddove consentisse un trattamento dei crediti più favorevole rispetto a quello consentito dall'alternativa ipotesi della liquidazione fallimentare. Sotto questo profilo, la tesi interpretativa dell'Agenzia non appare conforme alla ratio dell'art. 182-ter, comma 1, l.fall., che - come detto - richiede all'attestatore di confrontare il trattamento dei crediti tributari previsto dalla proposta di transazione fiscale con quello discendente dalla liquidazione fallimentare dell'impresa debitrice, proprio per consentire al Fisco il miglior recupero dei propri crediti: è infatti evidente che, ai fini di tale raffronto, non può rilevare il “patrimonio futuro” del debitore, perché, per quantificare il soddisfacimento derivante dallo scenario alternativo indicato dall'art. 160, comma 2, l'attestatore deve valutare la situazione che si verificherebbe in caso di fallimento del debitore, senza dunque tenere conto dei benefici generabili dalla prosecuzione dell'attività attraverso modalità e interventi che sono attuabili nel concordato preventivo (ma non nel fallimento). Infatti, tra la continuazione dell'attività economica e i flussi finanziari che possono discenderne sussiste un evidente rapporto di causa-effetto, nel senso che questi non potrebbero manifestarsi senza la prima e il risanamento da essa prodotto, essendo quest'ultimo il frutto della ristrutturazione dell'azienda, delle azioni strategiche volte alla riduzione dei costi e al conseguimento di maggiori ricavi, della conversione di debiti in equity nonché del finanziamento di nuovi investimenti - grazie all'intervento dei soci o di nuovi finanziatori - destinati a sostenere la continuazione dell'attività (che costituisce quindi l'indefettibile presupposto di tutte le predette misure). Lo si desume altresì dalle disposizioni contenute negli artt. 104 e 104-bis l.fall., che con riguardo al fallimento ammettono la prosecuzione dell'attività economica (nella forma dell'esercizio provvisorio o dell'affitto d'azienda) soltanto a titolo temporaneo, qualora ciò sia considerato (nel primo caso) strettamente necessario per non recare maggiore pregiudizio ai creditori oppure (nel secondo) conveniente per rendere più proficua la vendita del complesso aziendale. In entrambi i casi, la continuazione dell'attività è ammessa soltanto nella prospettiva di conseguire una migliore liquidazione, ma mai in un'ottica di risanamento, che rimane estranea rispetto alla procedura fallimentare. Ne consegue che le stime effettuate dal curatore (e, prospetticamente, dall'attestatore) non potranno riguardare un'azienda in normale esercizio, essendo l'eventuale prosecuzione in via temporanea dell'attività diretta unicamente alla conservazione dell'azienda in uno stato di efficienza, al fine di preservare il valore residuo che ancora c'è (e non per generare nuovo valore). Al riguardo, come rilevato nelle “Linee guida per la valutazione di aziende in crisi”, elaborate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e dalla Società Italiana dei Docenti di Ragioneria ed Economia Aziendale, “Il professionista deve tenere conto della reale situazione in cui versa l'azienda o il ramo di azienda che si intende cedere o affittare o conferire” e nel caso di affitto d'azienda “deve considerare l'effettiva capacità di creazione dei flussi finanziari attesi nell'orizzonte interessato, senza considerare i benefici apportati dalla possibile gestione del terzo cessionario o affittuario. L'affitto di azienda deve essere valutato considerando le finalità conservative e di mantenimento dell'efficienza dei complessi aziendali, nonché dei costi di manutenzione ordinari e straordinari che il terzo potrebbe essere tenuto a sopportare o assumere a proprio”.
La situazione cui l'attestatore deve far riferimento è infatti quella prevista dall'art. 105 l.fall., il quale disciplina, appunto, la vendita (mediante procedure competitive) dell'azienda nello stato in cui si trova, in maniera unitaria, oppure attraverso singoli rami, oppure, ancora, atomisticamente (poiché l'unica soluzione alternativa è quella della liquidazione fallimentare, il valore dell'attivo da liquidare corrisponde sostanzialmente al prezzo ottenibile dalla cessione dell'azienda in base all'esito della procedura competitiva), senza poter considerare gli effetti derivanti dagli atti previsti nella proposta concordataria per riportare l'azienda in una condizione di equilibrio economico. Del resto, se l'attivo discendente dall'ipotesi della liquidazione fallimentare dovesse essere valutato anche assumendo l'avvenuta attuazione delle misure previste nella proposta concordataria, non si vede come essa potrebbe essere definita quale ipotesi alternativa a quest'ultima. In altri termini, poiché i flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell'attività economica non potrebbero entrare nel patrimonio del debitore in caso di fallimento, essi non possono essere considerati nel computo dell'attivo di liquidazione da destinare al soddisfacimento dei creditori privilegiati e, quindi, nemmeno ai fini della valutazione del trattamento che sarebbe riservato ai crediti tributari in tale ipotesi. È quindi auspicabile che l'Agenzia delle entrate riveda il proprio orientamento su questo rilevante aspetto; ciò anche nel suo stesso interesse, perché in molti casi l'applicazione dell'indirizzo da essa adottato è destinato a rivelarsi contrario all'interesse della stessa Amministrazione finanziaria. L'Agenzia ha espresso detto orientamento solo con riguardo alla transazione fiscale proposta nell'ambito di un concordato preventivo e non lo ha ribadito con riguardo all'attestazione da rendere nell'ambito dell'accordo di ristrutturazione dei debiti. Anche se ciò, di per sé, non pare sufficiente per legittimare alcuna conclusione circa la disciplina applicabile con riferimento a quest'ultimo istituto, vi è una buona ragione per ritenere che il suddetto indirizzo non possa comunque riguardare la soddisfazione parziale proposta nell'ambito degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis, che va rinvenuta nel fatto che per questi ultimi non trova applicazione il disposto dell'art. 160, comma 2, l.fall., sulla cui rigida interpretazione ed applicazione si fonda – come detto – la posizione assunta in merito dall'Agenzia delle entrate. Inoltre, il concetto di “nuova finanza” non rileva ai fini degli accordi ristrutturazione, alla cui stipula i creditori ben possono aderire rinunciando all'applicazione degli artt. 2740 e 2741; così come può, e anzi ha l'obbligo di fare, il Fisco, una volta accertato il rispetto dei criteri concernenti il trattamento non deteriore dei crediti erariali rispetto a quelli degli altri creditori aderenti e la convenienza della proposta a confronto delle ipotesi alternative praticabili. |