L'applicazione in fase di concordato della postergazione legale nei rapporti infragruppo

Danilo Galletti
18 Settembre 2018

I crediti/debiti originariamente commerciali non riscossi alle scadenze, decorsi termini maggiori rispetto a quelli normalmente concessi alla clientela secondo gli usi, debbono qualificarsi come finanziamenti nell'accezione di cui all'art. 2467 c.c.
Massima

I crediti/debiti originariamente commerciali non riscossi alle scadenze, decorsi termini maggiori rispetto a quelli normalmente concessi alla clientela secondo gli usi, debbono qualificarsi come finanziamenti nell'accezione di cui all'art. 2467 c.c.

Sussistono i presupposti per l'applicazione della postergazione ai finanziamenti discendenti e a quelli cross stream, con l'esclusione invece dei finanziamenti ascendenti diretti.

Opera la compensazione di cui all'art. 56 l.fall. rispetto ai crediti/debiti postergati ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. ed ai crediti/debiti non postergati.

Il caso

Tre società appartenenti allo stesso agglomerato societario depositano una domanda di concordato, formulando proposte collegate l'una rispetto all'altra.

La capogruppo (che chiameremo “ALFA”) stipula nella fase di vita in bonis con le due consorelle (che nel prosieguo nomineremo “BETA” e “GAMMA”) diversi contratti: un contratto di “conto corrente di corrispondenza” (di seguito, C/C); un contratto di prestazione di servizi, anche di consulenza; ed un contratto di “consolidamento fiscale”.

Tutte le società del Gruppo varano nel tempo due piani attestati di risanamento (art. 67 l.fall.), i cui presupposti non si realizzano, così da rendere alla fine necessario il concordato.

ALFA è creditrice di BETA e di GAMMA, al momento dell'ingresso in concordato, per svariati milioni di euro, formatisi nel corso degli anni, anche per fatture commerciali di vendita di beni; così pure BETA e GAMMA sono creditrici di ALFA.

Anche BETA e GAMMA vantano fra di loro ragioni di credito/debito per lo più per operazioni di natura commerciale.

Viene reciprocamente eccepita la natura postergata, ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies, dei crediti/debiti.

La controllante eccepisce altresì nei confronti delle due società controllate, “consorelle”, la compensazione, nell'eventualità in cui sia riconosciuta la postergazione nei rapporti “discendenti”, ma non in quelli “ascendenti”.

Nel piano di concordato le contrapposte ragioni di debito/credito vengono esposte come se fossero compensabili.

Nell'impossibilità di rinvenire un accordo da autorizzarsi ai sensi dell'art. 167 l.fall. si decide di compromettere in arbitrato le dispute insorte, nominando allo scopo un Arbitro unico.

Il Lodo emesso, e che si commenta, si segnala per la importanza delle questioni giuridiche risolte, che attengono a fattispecie di frequente verificazione pratica, nel diritto concorsuale, e per il particolare approfondimento e spessore delle motivazioni addotte.

Le questioni giuridiche

L'Arbitro esordisce con una assai opportuna premessa concettuale sul “significato della postergazione”: l'asserto è che essa “serve a risolvere un conflitto di interessi fra creditori”, e che la sua funzione non è quella di “riqualificare” l'apporto in capitale di rischio: il finanziatore resta comunque titolare di un credito verso la società finanziata.

Si tratta di una conclusione preliminare che non può che essere condivisa: d'altro canto essa è praticamente pacifica, tanto in dottrina (cfr. per tutti D. Vattermoli, Crediti subordinati e concorso fra creditori, Milano, 2012, 126 s. , quanto in giurisprudenza (v., soltanto da ultima, Cass., 21 giugno 2018, n. 16348).

Il legislatore del 2003 infatti aveva ben presenti i pregressi tentativi dottrinali, che si collocavano nell'ambito della dottrina della “sottocapitalizzazione” (V. per tutti G.B. Portale, Appunti in tema di versamento in conto futuri aumenti di capitale eseguiti da un solo socio, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, I, 93 ss. ) , di addivenire ad una riqualificazione dei prestiti sociali come apporti privi di diritto alla restituzione, da appostare direttamente nel patrimonio netto, e non fra i debiti. Ma ha scelto una soluzione diversa, dettando con l'art. 2467 c.c. una regola che rende nel concorso il credito alla restituzione del socio subordinato al pagamento di tutti gli altri creditori sociali non egualmente postergati, senza intaccarne la natura creditoria (per la natura creditoria della pretesa del socio ex art. 2467, in modo assai risoluto, v. Trib. Firenze, 6 giugno 2012, in in Il caso, che su di ciò fonda con sicurezza la tesi della legittimazione del titolare ad instare per il fallimento del debitore. V. in senso conf. Trib. Rovigo, 18 agosto 2017, in questo portale; App. Milano, 29 febbraio 2016; v. però, negando la sussistenza dello stato di insolvenza a causa della inesigibilità del credito, Trib. Milano, 14 gennaio 2016. In senso nettamente contrario alla tesi della legittimazione ad instare per il fallimento App. Venezia, 2.12.2014, Vimet c. Biffi, inedita, sul presupposto della applicabilità della norma anche in fase di liquidazione “volontaria”, nonché della inesigibilità del relativo credito; ma sarebbe quantomeno paradossale che proprio nel momento in cui si realizza il presupposto sostanziale tipico dell'art. 2467 c.c., ossia la società debitrice diviene insolvente, non potesse essere aperto il concorso dei creditori per il difetto di una delle condizioni che l'art. 15 l. fall. fissa al fine di “filtrare” i casi di impotenza finanziaria; l'orientamento contrario si fonda in realtà inconsciamente sull'equivoco della “riqualificazione” del credito subordinato in capitale di rischio ).

In breve l'art. 2467 c.c. pacificamente non costituisce una causa di novazione legale della causa dell'attribuzione, ma semplicemente un istituto che influisce su una qualità del credito (il quale rimane tale)( il fatto che l'applicazione dell'art. 2467 c.c. non comporti effetti novativi del credito, nel prosieguo, acquisirà ancor maggiore incidenza ).

D'altro canto si è osservato che la qualificazione in termini di versamento “a fondo perduto” esclude ed è incompatibile con l'applicazione dell'art. 2467 c.c., che presuppone per definizione un obbligo di restituzione (G. Zanarone, Commento all'art. 2467, in Comm. Schlesinger, Milano, 2010, 483 ss. Si fa eccezione per il caso in cui il diritto alla restituzione possa sorgere per effetto della mancata adozione della delibera di aumento del capitale sociale - c.d. versamenti in conto futuro aumento capitale -: v. G. Guerrieri, I finanziamenti dei soci, in La nuova s.r.l., a cura di Bione, Guidotti e Pederzini, Padova, 2012, 70).

Dunque prima di porsi il problema della eventuale applicabilità dell'art. 2467 c.c. occorre avere esaurito, con esiti positivi, il procedimento di qualificazione dell'apporto fornito dal socio in termini di finanziamento, e non già di versamento “a fondo perduto”, destinato ad incrementare il patrimonio netto, senza fondare alcun diritto alla restituzione (se non nell'eventualità in cui vi sia un avanzo di liquidazione dopo il pagamento di tutti i creditori, ivi compresi quelli postergati).

La giurisprudenza del S.C. ha con costanza affermato che il discrimen fra le due figure deve essere individuato esclusivamente nella volontà delle parti, oggetto di ricostruzione in fatto da parte del Giudice; al riguardo non rileva tanto il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto, ma la sua concreta esecuzione, l'intento pratico delle parti, e gli interessi sottesi alla pattuizione; soltanto in carenza di ulteriori elementi può essere attribuito rilievo alla classificazione della posta nel bilancio di esercizio del prenditore (cfr. Cass., 14 dicembre 1998, n. 12539; Id., 31 marzo 2006, n. 7692; Id. 24 luglio 2007, 16393; Id., 30 marzo 2007, n. 7980; Id., 23 febbraio 2012, n. 2758; Id., 3 dicembre 2014, n. 25585; Id., 9 dicembre 2015, n. 24861 ).

Inesigibilità o “antiprivilegio”?

L'Arbitro poi afferma in modo deciso che il credito postergato ai sensi dell'art. 2467 c.c. è posto in una condizione che lo colloca rispetto agli altri come se fosse dotato di un “antiprivilegio”; la questione dunque attiene alla graduazione del credito; e viene invece esplicitamente respinta la tesi per cui detta obbligazione dovrebbe ritenersi (temporaneamente) inesigibile.

Benché si voglia nel Lodo espressamente evitare di prendere partito, fra i sostenitori della tesi per cui la postergazione costituisce un fenomeno processuale oppure sostanziale, le affermazioni appaiono di notevole pregnanza, e non sembrano agevolmente criticabili.

La natura sostanziale della disposizione si misurerebbe, secondo l'orientamento dominante in giurisprudenza, ad es. quello del Tribunale delle Imprese di Milano, sul piano della temporanea inesigibilità dell'obbligazione: in tal senso “il presupposto della postergazione ex art. 2467 c.c. è il ricorrere di una fase in cui la società, in relazione all'attività in concreto esercitata, abbia la necessità delle risorse messe a disposizione dai soci (finanziatori) e non sia in grado di rimborsarli, onde con l'art. 2467 c.c. è stato introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del prestito in prestito postergato (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori … la condizione di inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. può essere eccepita dagli amministratori nei confronti del socio finanziatore solo laddove il finanziamento sia stato disposto e il rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società, di per sé comportante proprio la conseguenza – in termini di posizione dei soci finanziatori – che la disciplina normativa pare mirata ad evitare, vale a dire la conseguenza che i soci – non conferendo capitale ma assumendo la veste di creditori vengano a traslare il rischio di impresa sugli altri creditori, così proseguendo l'attività sociale in danno di questi ultimi, che, normalmente in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti” (Trib. Milano, 14 marzo 2014; più di recente, nel solco, Trib. Milano, 13 giugno 2016, ivi.). Sotto questo specifico punto di vista “la condizione di inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. va eccepita al socio finanziatore solo laddove il finanziamento sia stato erogato, e il rimborso richiesto, in presenza di una situazione di specifica crisi della società, che impone, da un lato, che il finanziatore (socio) resti assoggettato all'inesigibilità, prescritta dalla norma, destinata ad evitare che il rischio di impresa sia trasferito in capo agli altri creditori, e che l'attività sociale prosegua in danno di questi ultimi” (Trib. Milano, 15 gennaio 2014, ivi; conf. Trib. Santa Maria Capua Vetere, 24 luglio 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 336.; anche il Tribunale delle Imprese romano sembra aver sposato tale ricostruzione: cfr. Trib. Roma, 6 febbraio 2017).

La stessa giurisprudenza d'altro canto sembra predicare l'applicabilità della norma anche alla liquidazione volontaria, non concorsuale (in tal senso, parrebbe, la massima di Cass., 13 luglio 2012, n. 12003, pur se le peculiarità del caso di specie, relativo all'applicazione del diritto intertemporale, e ad una fattispecie in cui il credito era stato fatto valere in realtà nei confronti di un fallimento - per cui si contendeva in realtà sull'applicabilità della norma ad un finanziamento erogato a società in liquidazione prima dell'entrata in vigore della norma - andrebbero attentamente scrutinate. Più di recente v. però, in modo più esplicito, Cass., 24 ottobre 2017, n. 25163. In dottrina v. G. Balp, Commento all'art. 2467, in Commentario Marchetti, Torino, 2009, 247 ss ), e comunque là dove sussista una condizione di “crisi” (rectius di “pericolo di insolvenza”) della società.

In dottrina invece la conclusione per cui il credito rientrante nel campo di applicazione dell'art. 2467 c.c. è inesigibile dal punto di vista civilistico, e non piuttosto caratterizzato da una “qualità” afferente al suo “rango”, strumentale ad un processo di “graduazione”, è tutt'altro che univocamente recepita (conff. in vario senso D. Vattermoli, Crediti subordinati e concorso fra creditori, cit., 128 ss.; D. Arcidiacono, I prestiti dei soci nella società di capitali, Torino, 2012, 132 ss.; G. Terranova, Commento all'art. 2467, in Comm. Nigro- Sandulli, Torino, 2004, 1449 ss., p. 1463 ss.; L. Mandrioli, La disciplina dei finanziamenti soci nelle società di capitali, in Società, 2006, 172 ss.; S. Bonfatti, Prestiti dei soci, finanziamenti infragruppo e strumenti ibridi di capitale, in Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Milano, 2004, 308; L. Panzani, La postergazione dei crediti nel nuovo concordato preventivo, in Fall., 2006, 681 s.).

Anche su questo punto mi risulta difficile non concordare col giudizio dell'Arbitro: il credito postergato ex art. 2467 c.c. è esigibile, tant'è vero che esso produce interessi; soltanto, esso non può essere pagato dall'organo gestorio della procedura prima che siano soddisfatti tutti i creditori antergati; esso è cioè posticipato ad essi nel riparto, allo stesso modo di come il chirografario viene dopo il privilegiato generale.

E si vede bene come tale disciplina possa applicarsi soltanto là dove vi sia un concorso collettivo di tutti i creditori sul medesimo patrimonio, da condursi secondo le regole di una procedura concorsuale.

Situazione non implicata dalla liquidazione volontaria della società, ove infatti i crediti, in linea generale, possono essere pagati dai liquidatori secondo le loro scadenze contrattuali, e se l'attivo è prospetticamente insufficiente (situazione che come è noto concretizza in questa fase l'insolvenza fallimentare), sorge solo l'obbligo degli stessi di instare per il fallimento (od altra procedura concorsuale), al fine di non incorrere in responsabilità; ove siano realizzati pagamenti di debiti postergati ad altri, i cui creditori antergati non trovino poi capienza, la responsabilità del liquidatore verso la Massa sembra da misurarsi sul piano del ritardo nell'accedere al fallimento, ove la liquidazione avverrebbe invece secondo il criterio della graduazione (cfr. sul punto Turelli, Gestione dell'impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012, 187 ss.); ma la giurisprudenza, poco interessata nel frangente a percepire l'aporia sistematica, è giunta a sostenere comunque che il pagamento di debito postergato da parte dell'amministratore costituirebbe un fatto illecito (cfr. di recente Trib. Bari, 5 febbraio 2018, in Il caso; ma l'orientamento è seguito anche dal Tribunale delle Imprese di Milano), in ciò forse “corroborata” anche dalla recente pronunzia delle Sezioni Unite sul danno da bancarotta “preferenziale” (Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2017, n. 1641).

D'altro canto vi sono diversi indizi testuali e sistematici che cospirano a favore della soluzione ermeneutica che “risolve” la postergazione nella graduazione:

  • la postergazione è affermata dall'art. 2467 c.c. con riferimento al solo fallimento;
  • il termine entro il quale il rimborso è inefficace è calcolato dall'apertura del fallimento, non della liquidazione;
  • lo stesso fatto che la legge dichiari il pagamento inefficace entro l'anno dal fallimento fa comprendere come altrimenti esso sarebbe pienamente efficace;
  • se il credito fosse inesigibile, allora il suo pagamento dovrebbe dar luogo ad un indebito oggettivo, ripetibile in ogni momento, e non con le tempistiche imposte dall'art. 2467 c.c. per il solo fallimento (e sarebbe paradossale immaginare che fuori dal fallimento la tutela della Massa sia più agevole che nel suo ambito);
  • la norma sarebbe altrimenti del tutto inutile persino nel fallimento, ed anzi assurdamente deleteria per i creditori, posto che il pagamento di debito non scaduto nel fallimento è inefficace e dà luogo a ripetizione nei due anni dalla sentenza, non entro l'anno precedente (art. 65 l. fall.);
  • infine, se così fosse, le poste relative ai finanziamenti dei soci sarebbero ancor più vincolate per la società in bonis di quelle realmente attribuite “a fondo perduto”, che possono essere distribuite, a date condizioni, ai soci, siccome costituenti riserve di patrimonio disponibili.

D'altro canto, anche chi in apparenza parla di applicabilità dell'art. 2467 c.c. alla liquidazione volontaria, in realtà spesso lo fa per lo più in termini di regola di condotta per i liquidatori, che dovrebbero appunto, come si è detto, chiedere il fallimento della società proprio al fine di sottrarsi all'obbligo di pagare (Ferri Jr., In tema di postergazione legale, in Riv. dir. comm., 2004, 974 ss.).

Dunque la postergazione legale pare dover essere una tipica categoria del diritto concorsuale, che attribuisce al credito una qualità, da far valere nel concorso con gli altri portatori di ragioni creditorie.

Mi pare pertanto che tale qualità debba essere fatta valere già nella fase di ammissione allo stato passivo, non come fatto costitutivo del diritto del creditore instante, ma come oggetto di un'eccezione della curatela.

Il credito d'altro canto dovrà essere ammesso in via definitiva, e non già condizionale (con riserva), atteso che tale qualità non attiene alla esigibilità del diritto, ma solo alla sua graduazione (conf. Lamanna, Il nuovo procedimento di accertamento del passivo, Milano, 2006, 257 ss.).

Anche su tali aspetto la motivazione del Lodo è conforme a quanto andiamo dicendo.

Postergazione e concorso: sanzione o disincentivo?

L'Arbitro tuttavia, subito dopo, asserisce altresì che i creditori postergati “non sono estranei al concorso”, come dimostrerebbe anche la loro legittimazione ad instare per il fallimento (in realtà non così univocamente riconosciuta, per quanto si diceva sopra); e che la ratio legale dell'art. 2467 c.c. non consisterebbe in una “sanzione”, bensì rispecchierebbe solo la volontà del Legislatore di far gravare i costi dell'insufficienza del patrimonio (del debitore) sui creditori soltanto dopo che essi siano stati sopportati dai postergati.

Quanto al termine “sanzione”, è probabile che il dissenso sia solo nominalistico: l'art. 2467 c.c. espone a mio avviso sicuramente una ratio rivolta a far sì che, nelle situazioni in cui la società necessiti di un'attribuzione a titolo di capitale di rischio, il socio che scelga la strada del finanziamento subisca la “sanzione” della postergazione legale, e della necessità di restituire al curatore fallimentare quanto ricevuto in restituzione entro un anno dal fallimento.

Ciò al fine di indurre lo stesso socio a optare direttamente per l'attribuzione a titolo di capitale di rischio, definitiva e senza diritto alla restituzione.

La norma quindi svolge la funzione economica di indurre il socio ad immettere in società mezzi che rafforzino il patrimonio netto, nel momento in cui essa ne ha bisogno, anziché soddisfarne il mero bisogno di cassa tramite un “finanziamento”, e così consentendo fra l'altro al socio “prestatore”, grazie alle rilevanti asimmetrie informative che lo avvantaggiano, di poter successivamente arbitrare in ordine alle sorti del suo credito, utilizzandolo in modo per lui vantaggioso, ad es. (ma non solo) attraverso la richiesta “tempestiva” di restituzione della somma finanziata (cfr. per tutti N. Abriani, Finanziamenti “anomali” dei soci e regole di corretto finanziamento nella società a responsabilità limitata, in Studi Zanarone, Torino, 2011, 6. E. Civerra, Il finanziamento delle società di capitali, Milano, 2013, 257 ss. ).

Sotto questo punto di vista, la norma presidia davvero, a mio avviso, anche un “principio di corretto finanziamento” della società (v. Cass., 24 luglio 2007, n. 16393; più di recente, sostanzialmente in tal senso, e rinvenendo un principio generale che rende la norma suscettibile di applicazione “transtipica”, Cass., 20 giugno 2018, n. 16291; v. anche Cass., 24 ottobre 2017, n. 25163; l'asserto è comune anche nelle pronunzie del Tribunale delle Imprese di Milano. In dottrina v. U. Tombari, “Apporti spontanei” e “prestiti” dei soci nelle società di capitali, in Liber Amicorum Campobasso, 1, Torino, 2009, 562).

Si tratta dunque, in chiave di analisi economica del diritto, di un incentivo negativo, che “preme” sul socio, costringendolo ad internalizzare parte del costo dell'insolvenza, al fine di ottenere da lui il comportamento corretto, che consiste nell'effettuare tempestivamente (v. anche infra) un conferimento.

Se si vuole, può allora parlarsi credo anche di “sanzione”, purché nel significato specifico appena divisato.

In merito invece al fatto che il creditore “partecipi al concorso”, il discorso forse dovrebbe essere più complesso.

Non v'è dubbio, a mio avviso, come già si accennava, che tale creditore debba essere ammesso allo stato passivo del fallimento, beninteso con la “qualità” tipica della postergazione; ma nel fallimento riformato è lo stesso concetto di concorso formale ad essersi dilatato, tanto da essere esteso anche alle prededuzioni (in tal senso v. ancora Lamanna, Il nuovo procedimento di accertamento del passivo, cit., 257 ss. - e già in Tutela della nuda prelazione nel fallimento del terzo proprietario o datore, in Fallimento, 2005, 993 ss. -; mi sia consentito inoltre il rinvio al mio Noterelle sulla concorsualità poco “sistematizzata”, in questo Portale, 2014) ed anche ad altre situazioni.

Nel concordato preventivo invece la disinvolta riconduzione del creditore postergato al “concorso” rischierebbe di condurre ad applicazioni in contrasto con la ratio del disposto: il titolare infatti dovrebbe essere ammesso al voto, col risultato di poter diventare per paradosso arbitro della soluzione concordataria, spesso da lui stesso proposta; soluzione ad una crisi che altrettanto spesso egli ha contribuito in misura determinante a provocare.

L'Arbitro aveva a disposizione, al momento di redigere il Lodo, la sentenza n. 2706 del 2009 della S.C., ed infatti la cita.

Successivamente però la Cassazione è tornata sul tema (Cass., 21 giugno 2018, n. 16348), ed è approdata a conclusioni che soddisfano maggiormente l'interprete: la Corte infatti è consapevole della funzione primaria dell'art. 2467 c.c., che presidia probabilmente principi appartenenti al c.d. ordine pubblico economico; tale funzione presuppone che il creditore postergato non sia trattato alla pari del chirografario; dunque un concordato in cui il trattamento assicurato a chirografari e postergati sia il medesimo, senza nemmeno una dilatazione temporale per questi ultimi, non è compatibile col sistema; poiché la norma è inderogabile, nessuna “deroga” è ammissibile (anche se la S.C., un po' contraddittoriamente, sembra ammettere l'idea teorica del consenso “unanime” dei chirografari).

La partecipazione al voto tuttavia non potrebbe essere esclusa “sempre”, posto che la legittimazione al voto nei concordati costituirebbe la “regola generale”, ma solo quando ciò costituirebbe violazione anche sostanziale della norma.

In realtà, a me pare che il creditore postergato non possa votare mai, perché il divieto ha sede nella legge, e cioè proprio nella ratio dell'art. 2467 c.c.: come si vedrà meglio più avanti, il titolare del credito postergato non solo non deve trovare soddisfazione prima e meglio dei chirografari, a meno che la crisi non sia stata superata; esso non deve ritrarre (preventivamente rispetto agli altri) alcuna utilità tipica dal proprio credito, utilità che sono integralmente “sterilizzate” strumentalmente al conseguimento dell'obiettivo che il Legislatore si prefigge; e fra queste utilità “tipiche” vi è anche la facoltà di partecipare alla decisione che determina la soluzione “regolatoria” della crisi del proprio debitore.

Il prolungato ritardo nel riscuotere i propri crediti

L'Arbitro passa poi ad esaminare nel merito la prima delle importanti questioni giuridiche rimesse alla sua cognizione: gran parte delle ragioni creditorie reciproche intercorrenti fra le società era nata incontestatamente da semplici rapporti commerciali, non finanziari; il titolare poi si era astenuto per un tempo prolungato dall'esigerne il pagamento.

Alcune di tali poste erano state poi annotate nel C/C, anche in tal caso astenendosi tuttavia il titolare del conto “a credito” dal pretendere il saldo attivo a suo vantaggio.

L'estensore del Lodo manifesta subito la sua propensione ad accogliere una ricostruzione dell'art. 2467 c.c. che privilegi la “sostanza” sulla “forma”.

Viene poi aderita la tesi per cui in tutti i casi in cui l'esecuzione del rapporto commerciale “devii” rispetto a quello che costituisce lo svolgimento “normale” di un rapporto analogo intercorso con terzi, ed il titolare si astenga per un tempo prolungato dal riscuotere il proprio credito, quest'ultimo divenga postergato.

Anche in tal caso mi pare che le argomentazioni fornite dall'Arbitro siano ineccepibili, anche per la loro forte coerenza interna, e più che meritevoli di condivisione.

Al fine di ritenere la norma applicabile, occorre a mio parere quantomeno e solo:

  • che la società, a prescindere dalla sua forma, si trovi nelle condizioni di cui all'art. 2467 c.c. al momento di ricevere l'attribuzione (nonché, parrebbe, al momento in cui si applica la postergazione: v. infra) (il disposto infatti deve ricevere secondo la giurisprudenza ormai prevalente applicazione “transtipica”, con particolare riferimento a quelle s.p.a. ove il ruolo del socio e la sua “influenza” sull'impresa sia n concreto paragonabile a quella del socio di s.r.l. - v. supra -. La giurisprudenza di merito era già giunta a tale conclusione affermando che “la disciplina di cui all'art. 2467 c.c., oltre a soddisfare esigenze di tutela dei creditori che possono in concreto ricorrere non solo nell'ambito di società a responsabilità limitata ma anche nell'ambito di società per azioni c.d. chiuse - come posto in luce da Cass. n. 14056/2015 -, non è di per sé una disciplina singolare o isolata nel complessivo disegno del diritto societario, ma appare invece del tutto coerente con le linee fondanti di tale disegno, prevedenti, per lo svolgimento di attività di impresa in forma societaria, l'immissione da parte dei soci di capitale di rischio e il rinnovo di tale immissione nel caso di perdita del capitale originario, sicché, in tale contesto di norme (relativo in particolare alla disciplina dei conferimenti e agli obblighi di ricapitalizzazione), la valenza anti-elusiva della postergazione dei finanziamenti dei soci ex art. 2467 c.c. appare espressione di un principio generale, volto ad evitare uno spostamento del rischio di impresa sui creditori; si tratta, quindi, di un principio generale esplicitato dal legislatore solo per le società a responsabilità limitata, quali società tendenzialmente e ontologicamente più esposte al rischio di sottocapitalizzazione in danno dei creditori, ma non per questo inapplicabile anche a società costituite in forma di società per azioni, laddove le stesse presentino, in concreto, situazioni organizzative che riecheggino quelle tipiche delle prime e, in particolare siano connotate da una base azionaria familiare o comunque ristretta; dalla coincidenza tra le figure dei soci e quelle degli amministratori; dalla connessa possibilità per il socio di apprezzare compiutamente, analogamente al socio di S.r.l. tipicamente dotato di poteri di controllo ex art. 2476, comma 2, c.c., la situazione di adeguata capitalizzazione della società” Trib. Milano, 28 luglio 2015, in Il caso, che riprendeva il decisum conforme di Cass., 7 luglio 2015, n. 14056; conf. Trib. Roma, 15 settembre 2015; Trib. Bologna, 9 marzo 2016. Più di recente era stato possibile scorgere forse qualche elemento di perplessità sull'applicazione “transtipica” dell'art. 2467 c.c. nella motivazione di Cass., 20 maggio 2016, n. 10509, in materia di società cooperative, ove però l'asserto non assurgeva al ruolo di ratio decidendi, ma configurava in sostanza un obiter dictum; eppure il tentennamento della S.C. aveva favorito un revirement in seno allo stesso Tribunale di Milano: sent. 16 novembre 2017, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; v. però infine, con motivazione assai “determinata”, difficilmente reversibile, la già cit. Cass., 20 giugno 2018, n. 16291);
  • che il socio ponga in essere un “finanziamento”, e quindi apporti risorse utili alla società, che ne ha bisogno;
  • che la causa dell'attribuzione attribuisca al socio anche un diritto alla “restituzione” dalla società stessa, da interpretare però in relazione alla funzione della norma.

L'orientamento nettamente prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, reputa in effetti che la norma, avente natura “materiale”, e non già “formale” (finanziamenti “in qualsiasi forma” effettuati), e dunque rivolta a sanzionare il risultato di un comportamento, e non già la forma assunta da una condotta negoziale, possa essere applicata anche là dove la funzione di “finanziamento” appartenga alla causa del rapporto in senso “concreto”, al di là della veste giuridica del negozio posto in essere.

In tal modo, può costituire “finanziamento” anche la prestazione di una garanzia concessa dal socio in favore di un finanziatore terzo, a beneficio della società (debitore garantito) (conff. D. Arcidiacono, op. cit., 112 ss.; M. Campobasso, op. cit., 409; E. Pedersoli, Il trattamento delle garanzie rilasciate dai soci e applicazione dell'art. 2467 c.c., in Giur. comm., 2015, II, 168 ss. ), e così pure il pagamento di un debito della società, o comunque l'assunzione dello stesso con liberazione della società e rivalsa del solvens (per tutti v. G. Zanarone, op. cit., 455 s. Trib. Udine, 3 marzo 2009, in Banca borsa, 2012, II, 224.), l'acquisto di un credito verso la società (cfr. E. Pedersoli, Sulla nozione di “finanziamento” ai fini dell'applicazione della regola di postergazione, in Giur. comm., 2013, II, 1202 ss.), financo la somministrazione alla società di merci o di servizi (od anche la concessione in godimento di un bene), là dove il creditore per il prezzo degli stessi si astenga in modo prolungato dal richiederne il pagamento (cfr. Trib. Udine, 3 marzo 2009, cit.; Trib. Padova, 16 maggio 2011, ivi; Trib. Reggio Emilia, 10 giugno 2015, in Il caso; Trib. Torino, 21 marzo 2016, inedita. ).

In tutti questi casi, infatti, la società da un lato ottiene una utilità patrimoniale di cui necessita, e dall'altro viene a beneficiare del “differimento” nell'esazione di una somma di denaro, ciò che costituisce appunto l'essenza economica di ogni finanziamento.

Al riguardo non ritengo che occorra che le parti pongano in essere una simulazione (relativa) del rapporto: l'art. 2467 c.c. infatti non agisce sul piano del contratto, ma soltanto su quello dell'obbligazione, sanzionando così un comportamento del socio, il quale non necessariamente a mio avviso deve manifestare un intento “comune” a quello della società debitrice.

Si pensi alle ipotesi dell'acquisto del credito verso la società, ove quest'ultima non è parte del contratto, che intercorre soltanto fra cedente e cessionario; ed anche all'assunzione del debito, ove la società pure potrebbe restare estranea, sotto il profilo contrattuale, al rapporto fra creditore ed assuntore del debito.

Ma anche a voler ragionare in termini contrattuali, ciò che occorre è solo che la causa in concreto dell'operazione venga “piegata” verso un fine che rispetto allo schema causale del contratto (ossia la causa “astratta”, o se si preferisce il “tipo”) si qualifica come “ulteriore” (dunque si tratterebbe semmai di “negozio indiretto”, e non già comunque di simulazione).

Di nessuna rilevanza mi pare poi la circostanza per cui l'utilità che il socio attribuisca alla società serva ad alimentare direttamente i bisogni della propria attività operativa (ad es. merci da rivendere a terzi, pagamento di debiti di funzionamento), oppure soltanto indirettamente, ad es. attraverso la prestazione di un servizio strumentale a sostenerne l'organizzazione. La distinzione fra erogazione e destinazione del finanziamento è ben nota alla letteratura giuridica (si pensi all'abusiva concessione di credito), ma non mi pare rilevare ai fini di cui all'art. 2467 c.c., ove qualsiasi risorsa utile proveniente dal socio che consenta alla società di non sostenere immediatamente un costo può integrare la fattispecie.

D'altro canto per contrastare l'assunto per cui l'art. 2467 non si applicherebbe alla fattispecie della sostituzione del socio al creditore, si è detto anche che tale condotta non danneggerebbe i creditori, non elevando in alcun modo il passivo, e non modificando il patrimonio; al riguardo mi pare però sufficiente l'osservazione che l'art. 2467 c.c. non contiene nella propria fattispecie l'elemento del pregiudizio ai creditori, ma soltanto l'insorgenza di un pericolo per il soddisfacimento futuro degli stessi, anche di quelli che sopravverranno all'operazione (la giurisprudenza, in sede applicativa della norma, infatti non attribuisce in genere rilevanza a tale elemento pregiudizievole; conf. G. Balp, op. cit., 248, che parla di “presunzione assoluta di pregiudizievolezza”; più semplicemente, l'elemento del pregiudizio non appartiene alla fattispecie. ); e proprio per questo il Legislatore discorre di “ragionevolezza” di un conferimento (v. infra).

Sostituendosi al creditore originario il socio pone la società nelle stesse condizioni in cui essa si troverebbe qualora egli l'avesse finanziata in luogo del suo dante causa, posto che egli poi si asterrà dal riscuotere il credito, ed in tal modo differirà l'emersione della crisi (attribuisce rilevanza a tale finalità della norma D. Arcidiacono, op. cit., 82.), acquisendo medio tempore la possibilità di decidere in che modo trarre eventualmente vantaggio dall'acquisto, che lo colloca in posizione di creditore della “sua” società.

Non è dunque sufficiente l'acquisto del credito verso la società da parte del socio, occorre anche che il cessionario si astenga dall'incassarlo in modo prolungato, sì da non lasciare dubbi sulle reali intenzioni dello stesso.

Se la funzione “materiale” di finanziamento è già presente nel momento genetico in cui sorge il credito verso la società, non vi possono essere dubbi sull'applicazione della norma.

Più complessa è invece la fattispecie se il credito nasce in modo non “anomalo”, ossia fra parti che non funzionalizzano l'erogazione ad esigenze di “finanziamento” della società (che ad es. non si trova ancora nelle condizioni di cui all'art. 2467 c.c.), e poi assume tale carattere successivamente, per effetto dell'insorgere della crisi sociale (o comunque delle condizioni di cui all'art. 2467).

Ad es., il socio eroga un finanziamento in un momento “fisiologico”, e poi proroga lo stesso alla sua scadenza, quando le condizioni della società prenditrice sono peggiorate; oppure semplicemente si astiene, per un tempo prolungato, dal riscuotere il suo credito relativo alla restituzione della somma mutuata, o alla corresponsione del prezzo di una vendita, quando la società si trova già in crisi (la conclusione in termini postergativi è conforme ad es. alla soluzione adottata dal diritto tedesco; essa però non è unanimemente condivisa in dottrina: contra ad es. v. E. Pedersoli, op. loc. ultt. citt., pur nel contesto di una ricostruzione dell'art. 2467 c.c. abbastanza “espansiva”. ).

Al riguardo, mi pare che per le stesse considerazioni appena riportate, abbia poco senso porsi nell'ottica della ricerca di una “novazione” del rapporto, posto che ciò ancora una volta colloca la fattispecie sul piano contrattuale, e non già del comportamento del socio (In ogni caso, non appaiono giustificate le tendenze restrittive talvolta manifestate da parte della dottrina fondate sulla ricognizione della causa novativa: l'art. 1230 c.c. infatti non richiede che l'intento novativo sia espresso, ma soltanto che esso sia inequivoco; l'animus novandi dunque può risultare anche da manifestazioni tacite e/o d fatti concludenti; v. in dottrina per tutti C.M. Bianca, Diritto civile, Milano, 4, 1993, 446 ss. Un maggior rigore sul piano della ricerca della reale volontà novativa può giustificarsi semmai quando oggetto della modifica siano elementi meramente accessori del rapporto, ma nel nostro caso il profilo modificativo attinge la causa del contratto, tipico elemento essenziale del negozio, sicché tali perplessità non mi sembrano comunque giustificate. Correttamente nel senso per cui basterebbe la manifestazione tacita di una decisione di finanziamento cfr. D. Arcidiacono, op. cit., 119 s.).

Ciò detto, se la concessione formale di una proroga eliderebbe, credo, ogni perplessità, è anche evidente che non sarebbe sufficiente la mera astensione dal riscuotere un credito alla sua scadenza per legittimare l'applicazione della norma.

Il comportamento più probabile in questi casi è del resto proprio quello meramente passivo, ove il contegno del socio mantiene una ineliminabile ambiguità, probabilmente anche ricercata e voluta, al fine di diminuire il rischio di incorrere poi nella postergazione.

Le esigenze antielusive in questo contesto sono del resto elevate, atteso che la norma, come si è visto, è rivolta a sanzionare un comportamento scorretto del socio.

D'altro canto la situazione sarebbe identica, sotto il profilo economico, qualora il socio provocasse la restituzione formale del finanziamento, contestualmente erogandone un altro per lo stesso importo (al limite anche provvedendo a “compensare” le partite contrapposte, così da non generare movimenti di cassa); i comportamenti devianti dell'imprenditore in crisi, integrati dalla “sostituzione” di un finanziamento ad un altro contestualmente erogato (in genere meglio garantito), sono del resto abbastanza frequenti, e troppo noti per poter essere ignorati.

Ritengo che, come per ogni manifestazione coincidente con il silenzio, divenga allora determinante l'interpretazione del comportamento complessivo del socio in relazione al contesto, anche temporale, in cui esso è inserito: dunque, nel caso ad es. dell'acquisto del credito sociale, sarà “indiziario” il fatto che il socio, al momento di sostituirsi al creditore sociale, non si sia preoccupato di subentrare de facto (attraverso le opportune annotazioni e/o trascrizioni) nelle garanzie prestate; non abbia fissato un nuovo termine per l'esazione del credito, pur se lo stesso sarebbe attualmente esigibile, sulla base del titolo; abbia successivamente proseguito nel sovvenzionare la società, “in qualsiasi forma”, senza riscuotere il credito già scaduto, comportamento astensivo quest'ultimo che si sia protratto a lungo; non abbia sollecitato la predisposizione di piani di rientro; non abbia formulato rilievi avverso l'approvazione di bilanci del debitore che classificavano il debito come esigibile “oltre i 12 mesi”; che la società non disponesse al momento di disponibilità finanziarie sufficienti a generare il flusso sufficiente, né potesse procurarsele agevolmente sul mercato del credito, etc.

Diversi altri elementi oggettivamente riscontrabili nello sviluppo del rapporto possono altresì risultare univoci nell'indicare l'esistenza di tale afflato “finanziario”: la risalenza di certe poste creditorie, mai sollecitate; la costante e talvolta “vorticosa” movimentazione dei mastrini corrispondenti, che documentano i rapporti intercompany; la collocazione di (gran parte) dei crediti così scaturiti nelle voci immobilizzate del proprio attivo di bilancio; la omessa fatturazione di larga parte delle somme (al fine di non far insorgere il debito IVA corrispondente), e l'emissione di contro di fatture prive di scadenze di pagamento, oppure indicanti scadenze meramente convenzionali, che poi non vengono rispettate senza alcuna documentazione del perché; la omessa evidenziazione per lungo tempo degli interessi.

Oggetto dell'effetto postergativo sarà, anche in caso di mera dilazione rispetto a credito preesistente, nato in epoca non “sospetta”, l'intera somma dovuta dalla società al socio, maggiorata degli eventuali interessi medio tempore maturati (la cui natura accessoria al capitale determina inevitabilmente a mio avviso tale conclusione).

Non è infatti accettabile l'asserto per cui soltanto l'interesse maturato sarebbe suscettibile di ricadere nel campo applicativo dell'art. 2467 c.c., in quanto esso costituirebbe il corrispettivo della dilazione, unico atto di finanziamento posto in essere.

Infatti la norma vuole evitare che il socio somministri alla società vantaggi finanziari, anziché risorse a titolo di mezzi propri, e tale vantaggio è insito nel nostro caso nel “differimento” dell'esazione del credito, senza alcuna relazione con la corrispettività del rapporto creditizio.

E questo anche perché, come si è già visto, l'art. 2467 non riguarda l'aspetto contrattuale del finanziamento, quanto il comportamento del socio, il quale attribuisce alla società il vantaggio di non riscuotere l'intera somma dovuta, non il solo interesse eventualmente pattuito come corrispettivo per la dilazione.

Anche il fatto poi che l'interesse aggravi il passivo, laddove la mera dilazione rimane neutra sul piano patrimoniale, resta del tutto irrilevante sul piano della funzione della norma, dato che come si è già detto il pregiudizio concreto per la società e per i suoi creditori (esistenti) non appartiene alla fattispecie.

Nel caso di specie l'Arbitro, nonostante le lacune istruttorie (il materiale probatorio offerto dalle parti non consentiva di determinare quali fossero concretamente i termini di pagamento pattuiti), accerta che il ritardo nell'esazione si è protratto ben al di là di quanto le società erano aduse fare con le controparti commerciali “terze”.

La stessa conclusione è coerentemente e logicamente replicata quanto all'omologo ritardo nel riscuotere il saldo attivo del C/C, nonché il credito risultante dall'accordo di consolidamento fiscale.

L'immissione delle singole poste nel C/C infatti non ne nova né confonde la causa originaria, ma il comportamento astensivo del creditore produce l'effetto di cui all'art. 2467 c.c., a prescindere dalla fonte e dalla natura dell'obbligazione per come contratta originariamente.

I finanziamenti infragruppo “ascendenti”.

L'Arbitro prende posizione anche in ordine alla sorte dei finanziamenti infragruppo c.d. “upstream”, ossia “ascendenti”, per essere stati erogati dalle società assoggettate a direzione e coordinamento a favore della holding, anziché il contrario.

L'Arbitro aderisce alla tesi invero dominante, certamente fondata sulla lettera della legge (art. 2497quinquies c.c.), per cui soltanto i finanziamenti (e dunque, mutatis mutandis, i rapporti comunque “attivi” dal punto vista obbligatorio) “discendenti”, posti in essere da parte di società controllanti verso società controllate (c.d. downstream), oppure da parte di società assoggettate al medesimo controllo (c.d. cross stream), rientrano nel fuoco della norma.

La motivazione sottolinea come l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento colloca la controllante nella tipica posizione di “vantaggio informativo” presupposta dalla norma.

Ciò non si verifica invece necessariamente per il finanziamento erogato dalla controllata alla controllante (c.d. upstream).

D'altro canto, non sono state fornite dalle parti (sempre abbastanza “bacchettate” dall'Arbitro) idonee allegazioni circa il fatto che i finanziamenti in questione fossero riconducibili ad una politica strategica unitaria, fondata sull'attività di direzione e coordinamento; ma si ha l'impressione che, quand'anche il materiale allegatorio e probatorio fosse stato idoneo su tale versante, la conclusione non sarebbe mutata.

L'estensore del Lodo infatti precisa che il riequilibrio degli interessi, in tali frangenti, andrebbe ricercato nella responsabilità della capogruppo o di chi comunque prende parte al fatto lesivo per la controllata (art. 2497 c.c.).

Come si diceva si tratta di conclusione che è conforme all'opinione dominante espressa dalla letteratura dedicata (cfr. per tutti M. Maugeri, Finanziamenti “anomali” dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali, Milano, 2005, 238 ss.; G. Balp. op. cit., 302. ).

Ma in questo caso l'asserto risulta invero meno convincente, soprattutto alla luce delle premesse dogmatiche così efficacemente posate in precedenza.

La ratio dell'art. 2497-quinquies c.c. sembrerebbe presupporre rapporti non “proprietari”, ove cioè il finanziante non è socio del finanziato; altrimenti basterebbe l'art. 2467 c.c., soprattutto se ricostruito ed interpretato in termini “transtipici”.

Dunque la società che esercita la direzione e coordinamento vedrà applicato l'art. 2467 c.c. anche se il finanziamento sia erogato a società del gruppo che non sia da lei partecipata, nemmeno indirettamente; e d'altro canto la direzione e coordinamento costituisce un fenomeno di fatto, che può essere provato a prescindere da qualsiasi rapporto “proprietario”, laddove il controllo fa solo presumere la relazione di potere in questione (art. 2497sexies), non ne costituisce elemento essenziale (cfr. per tutti P. Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Riv. soc., 2007, 317 ss.; A. Niutta, Sulla presunzione di esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497-sexies e 2497-septies c.c.; brevi considerazioni di sistema, in Giur. comm., 2004, I, 983 ss. v. anche V. Cariello, Dal controllo congiunto all'attività congiunta di direzione e coordinamento, in RDS, 2007, 1 ss.).

Nella fattispecie principale descritta dalla norma la finanziata sembrerebbe dover essere anch'essa sottoposta a direzione e coordinamento da parte della finanziatrice (“da chi esercita … nei suoi confronti”); quanto invece ai finanziamenti cross stream il dato letterale non è ripetuto, ma che la finanziata sia comunque sottoposta a quella direzione appare implicito nella formulazione: dunque la fattispecie sarebbe costituita da un rapporto instaurato fra due soggetti intragruppo, entrambi sottoposti a controllo da parte di un “terzo”; non sembra rilevante chi eroga a chi, trattandosi di rapporto “orizzontale”, in cui entrambe le società in realtà sono eterodirette; ma una potrebbe trarre vantaggio dalla relazione, e dunque viene “sanzionata” con la postergazione; la società che tragga vantaggio dunque risponderebbe comunque del fatto, nei limiti del vantaggio ricevuto (art. 2497, comma 2°, c.c.), ma sarebbe al contempo anche la “danneggiata”, posto che il finanziamento potrebbe non essere recuperabile.

La capogruppo invece risponderebbe comunque del fatto, ai sensi del primo comma dell'art. 2497 c.c., difficilmente potendo l'operazione superare il vaglio di conformità ai principi di “corretta gestione societaria ed imprenditoriale”, quando il presupposto stesso di applicabilità della norma poggia sulla non “ragionevolezza” dell'atto (v. anche infra).

Dunque l'affermazione circa la perdurante responsabilità della società in testa al gruppo non è particolarmente pregnante, e non può costituire motivo sufficiente per approdare alla conclusione della inapplicabilità del disposto.

Nel caso “tipico” della norma chi eroga il finanziamento è in condizioni di vantaggio informativo rispetto alla situazione di chi lo riceve; inoltre essa è in grado di influenzare e di orientare il comportamento della finanziatrice, senza esserne necessariamente socio.

Nel caso “collaterale” invece chi eroga il finanziamento non è necessariamente nelle stesse condizioni di vantaggio informativo; né è in grado di influenzare il comportamento della finanziatrice; ciononostante vi è un soggetto (la capogruppo) che, pur non essendo (almeno direttamente) beneficiaria dell'operazione, sul piano negoziale, si trova in entrambe le situazioni di vantaggio.

Alla luce di tale ricostruzione, e preso atto anche della natura della norma come espressione di un “principio generale”, di ordine pubblico economico, circa il “corretto finanziamento” delle società di capitali, risulta arduo comprendere perché non debba risultare postergato altresì il credito per il finanziamento della controllata verso la controllante.

Anche in tale fattispecie infatti il finanziamento nasce in un contesto di duplice vantaggio, informativo e di “potere”, di un soggetto rispetto all'altro all'interno del gruppo.

Appare allora possibile l'interpretazione “estensiva”, e comunque non si ravvedono motivi ostativi all'integrazione analogica.

Non mi pare nemmeno che, per i casi “extratipici”, occorra predicare l'esigenza della prova positiva della riconduzione del finanziamento all'attività di direzione e coordinamento: basterà la integrazione dei presupposti astratti della norma, ossia la inerenza al gruppo (in tal senso, di recente, Trib. Pescara, 23 settembre 2016).

Si dirà che con la postergazione, in questi casi, è la danneggiata, ossia la finanziatrice “controllata”, ad essere “sanzionata”, ma a prescindere dalla circostanza per cui, come si è già detto, il “pregiudizio” non è elemento costitutivo del disposto, anche nel caso “collaterale”, delle società “consorelle”, tale effetto si verifica.

Gli “indici” per l'applicazione dell'art. 2467 c.c.

Nel Lodo si prende posizione anche in ordine all'applicazione degli “indici” che consentono di ritenere che la società si trovi nelle condizioni di cui all'art. 2467 c.c.

L'Arbitro sceglie saggiamente una soluzione pragmatica, basata su un approccio “concreto”, che si avvale dei risultati della scienza aziendale, tramite un'analisi insieme quantitativa e qualitativa della situazione della società.

Anche in questo caso l'approccio sembra assolutamente da condividere.

L'art. 2467 àncora infatti l'effetto postergativo alla circostanza per cui “anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

Il disposto indica un ratio specifico, il rapporto fra indebitamento (nel passivo ai fini di quest'esame dovrebbero essere considerati anche i fondi rischi, poiché un rischio consistente, che genererà dunque con alta probabilità un debito, potrebbe in realtà già essere considerato come un debito, anche ai fini dell'art. 2467 c.c.) e patrimonio netto (altresì noto come indice di leverage), che ha natura patrimoniale, pur senza indicare quale sia il rapporto “critico” (un rapporto superiore a 3 – ovvero 0,3 se invertito - viene tuttavia considerato per lo più preoccupante: v. ad es. App. Venezia, 11 novembre 2015, Fall.to Magazzini Generali; Trib. Vicenza, 13 aprile 2016, nella stessa vicenda. Secondo Trib. Milano, 2 giugno 2013, cit., anche un rapporto superiore a 2 può essere rilevante, soprattutto se la struttura dell'indebitamento è fortemente “a breve”. Nel caso esaminato da Trib. Roma, 1 luglio 2014, il rapporto era addirittura superiore a 5. L'art. 2545-quinquies fa riferimento ad un rapporto pari a 4).

Eppure quando la Legge ha voluto fissare un indicatore di bilancio, lo ha fatto senza difficoltà (artt. 2412, 2545quinquies c.c.).

Ciò è indice del fatto che il Legislatore ha rimesso all'applicazione dell'interprete l'individuazione del giusto “equilibrio”, che deve essere sempre relativizzato e adattato al contesto specifico, ossia al settore merceologico, alle dimensioni ed ai connotati dell'impresa, nonché al periodo congiunturale in cui la società opera (“anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società”).

Il criterio del leverage come si diceva costituisce un indicatore di stampo patrimoniale; alla situazione finanziaria tuttavia fa diretto riferimento la seconda parte della norma, la cui relazione con la prima parte va necessariamente chiarita.

Al riguardo le opinioni sono estremamente variegate nella risposta al quesito fondamentale, se i due canoni (eccessivo squilibrio e “ragionevolezza” del conferimento) vadano applicati necessariamente insieme od in alternativa fra di loro (cfr. per tutti M. Campobasso, op. cit., 239 ss.).

L'utilizzo della disgiuntiva “ovvero” sembrerebbe suggerire un'applicazione alternativa dei due criteri, anche se l'argomento letterale non risulta determinante.

Sicuramente però l'applicazione necessariamente congiunta condurrebbe a risultati potenzialmente in contrasto con la ratio del disposto: si pensi ad una situazione concretamente non “squilibrata” ai sensi dell'art. 2467, comma 2, ma in una situazione finanziaria tale da suggerire che l'erogazione di un finanziamento, anziché di un conferimento, possa mettere a repentaglio l'equilibrio finanziario della società, ponendola in una situazione di “rischio di insolvenza”, od aggravando tale stato se già esistente (è noto infatti che la società, per la composizione immobilizzata del suo attivo, o per la natura a breve termine del passivo, può trovarsi in situazione di equilibrio patrimoniale anche se tecnicamente insolvente.): sarebbe evidentemente in contrasto con la funzione stessa della norma rifiutare di applicarla in questo frangente(riflessione questa già formulata da D. Vattermoli, op. cit., 144; in senso conf. Trib. Torino, 15 luglio 2016, in giurisprudenza delle imprese).

In realtà, a me pare che il criterio della “ragionevolezza”, se correttamente inteso, informi di sé l'intero disposto, ivi compreso il parametro dello “squilibrio”, e possa giustificare autonomamente l'applicazione della norma (mentre considererei con estrema prudenza l'ipotesi ermeneutica opposta, ossia di disapplicazione del disposto, ove lo squilibrio patrimoniale sussista, ma difetti quello finanziario, e ciò stante la chiara lettera della Legge, nonché la funzione della stessa di prevenire un mero “pericolo”).

In esso si rinviene una dimensione “prospettica”, che guarda al futuro della società, evidenziando quelle situazioni in cui l'erogazione del finanziamento potrebbe mettere a rischio in un futuro prossimo la struttura finanziaria.

La “ragionevolezza” d'altro canto va percepita non tanto in relazione al fatto che un finanziatore “terzo” erogherebbe lo stesso finanziamento alle medesime condizioni (altrimenti se le condizioni del finanziamento fossero sufficientemente onerose, tanto sotto il punto di vista della remunerazione quanto delle eventuali garanzie concesse, si potrebbe reperire un terzo disponibile ad assumerlo; col risultato paradossale che le forme di finanziamento più favorevoli al socio sfuggirebbero all'applicazione della norma. ), quanto rispetto alla situazione della società (così anche D. Vattermoli, op. loc. ultt. citt.)), la quale potrebbe cadere in condizioni di insolvenza, oppure aggravare le proprie condizioni, qualora il bisogno di cassa della stessa fosse soddisfatto tramite il ricorso ad una formula di credito anziché di equity.

Il canone dello “squilibrio” d'altro canto non sembra dare rilievo ad elementi di natura finanziaria, afferenti alla liquidità, che pure non possono non essere presi come riferimento per valutare l'applicazione della norma; si pensi ad es. ad una situazione ove il leverage non appaia eccessivo, sotto il profilo del rapporto secco fra indebitamento e patrimonio netto; ed eppure la natura “a breve” del passivo, magari unitamente ad una dinamica reddituale non brillante, rendano comunque preoccupante la condizione della società, in termini di “probabilità di insolvenza” (in tal senso v. Trib. Venezia, 14 aprile 2011, in Il caso; nello stesso senso la cit. Trib. Milano, 4 giugno 2013, cit. ).

In questi casi la ricostruzione sistematica dell'art. 2467 c.c. qui proposta sembra poter condurre egualmente all'applicazione della stessa, a tutela di tutti i creditori, anche di quelli futuri.

In tal senso del resto sembra collocarsi decisamente la giurisprudenza, che rifugge dalle declamazioni di principio, ed applica il disposto saggiamente, valorizzando le situazioni ove il “pericolo di insolvenza” è comunque rilevante.

Dunque non sono affatto banditi gli altri indicatori, a matrice economico- finanziaria, che appaiano congrui rispetto alla specifica situazione della società, e che possono denunziarne la crisi (cfr. sul punto E. Civerra, op. cit., 279 ss., che fa riferimento all'indice di indipendenza finanziaria, pari al rapporto fra indebitamento ed investimenti; App. Milano, 18 aprile 2014, in Giur. comm., 2015, II, 997, che indica il rapporto fra disponibilità liquide e passività correnti giudicandolo preoccupante se inferiore ad 1, nonché il rapporto fra il patrimonio netto e somma di capitale e passivo. V. anche il Documento n. 17 dell'IRDC, dell'aprile 2013, 12 ss. ).

E così pure legittimo ed anzi doveroso sarà il rinvio alle riflessioni della scienza aziendalistica e della finanza aziendale, al fine di percepire la natura rilevante o meno della situazione.

Senza dimenticare che non esistono valori “assoluti”, e comunque occorre formulare un'analisi specifica della concreta situazione della singola società finanziata.

Nel contesto di tale analisi assumerà rilievo anche la dinamica reddituale, posto che è evidente che per una società che produce ricavi con continuità ed in abbondanza un minimo squilibrio finanziario, od anche patrimoniale, può non assumere una rilevanza critica; laddove in una società priva di una reale attività operativa, produttiva di flussi di cassa e reddituali costanti e rilevanti, ad es. per una holding di partecipazioni appartenente ad un gruppo che espone una gestione finanziaria modesta (rectius, proventi finanziari da partecipazione scarsi), uno squilibrio assume un'importanza ben superiore.

Così fa anche l'Arbitro, registrando le performances sempre negative nel tempo delle tre società.

Non sembra che nel calcolare gli indici si possa prescindere dal livello complessivo del passivo della società nel momento rilevante, ossia quello in cui matura la “decisione di finanziamento”, ivi comprese le somme precedentemente erogate e già soggette a postergazione ex art. 2467 c.c.

Ciò per svariati ordini di motivi, che si concentrano principalmente sulla circostanza per cui l'interpretazione qui avversata appare in contrasto con la stessa ratio della norma.

La tesi contraria, infatti, appare senz'altro inconsapevolmente influenzata dal preconcetto di fondo per cui le pretese del socio dovrebbero essere riqualificate in apporti a fondo perduto, senza diritto alla restituzione. Ma in realtà abbiamo già visto che tale assunto è incompatibile col sistema, e con la volontà espressa del Legislatore.

Ma soprattutto, il suo accoglimento tradirebbe le finalità della disciplina: il suo presupposto è che al momento in cui il “primo” finanziamento è stato erogato, la società versasse nelle condizioni di cui all'art. 2467 c.c.; se in un momento successivo il socio decide ancora di finanziare la stessa, egli si pone nuovamente in contrasto con i fini del sistema, e sarebbe irragionevole premiarlo con una valutazione, quanto all'applicazione di una sanzione per il suo comportamento, che trae beneficio dalla sua precedente condotta per definizione “scorretta”.

L'unica eventualità per sfuggire all'applicazione dell'art. 2467 giace nella prova dell'integrale superamento della situazione di crisi della società al momento di erogare il secondo finanziamento (e sempre a condizione che si condivida, come fa ad es. il Tribunale delle Imprese di Milano, la tesi per cui il credito del socio ridiviene esigibile quando la società ha superato la crisi: v. infra. ); solo se ciò avviene, e se dunque vi è la certezza di poter pagare tutti gli altri creditori sociali, ivi compreso il precedente finanziamento del socio, è possibile per quest'ultimo sottrarsi alla postergazione.

Ma si tratta evidentemente di un'ipotesi a dir poco teorica.

Il precedente finanziamento infatti, benché postergato, è un debito, e deve essere anch'esso restituito, sia pur a determinate condizioni; dunque deve essere considerato nel passivo sociale, e nella valutazione della situazione complessiva della società dal punto di vista patrimoniale e finanziario.

Diversa può essere però la valutazione se condotta in termini non patrimoniali ma “finanziari” (v. supra): ossia il passivo postergato ex art. 2467 c.c., siccome tecnicamente “inesigibile” (almeno secondo la tesi dominante, sposata ad es. dal Tribunale delle Imprese di Milano. ), può ritenersi parificato alle passività esigibili nel lungo termine; una preponderanza di tale componente nel passivo della società debitrice dunque non potrà escludere lo “squilibrio” come descritto nell'art. 2467 c.c., ma potrà rendere meno grave lo stesso, situazione quest'ultima come si è visto non del tutto irrilevante ai fini dell'applicazione della norma.

La fattispecie non sembra d'altro canto dare rilevanza alla conoscenza (o conoscibilità) da parte del socio delle condizioni della società che rilevano ai fini dell'applicazione della norma (anche la giurisprudenza di solito non attribuisce rilevanza all'indagine sugli stati soggettivi del socio, v. per tutte ad es. Trib. Tolmezzo, 27 dicembre 2011, in Unijuris; nel senso che la valutazione deve essere oggettiva, autorevolmente, C. Angelici, i finanziamenti dei soci nel tempo e nello spazio, in Liber Amicorum Abbadessa, Torino, 1, 2014, 449; conf. D. Vattermoli, op. cit., 142).

Il Legislatore ha infatti senz'altro presupposto l'esistenza di un contesto, quale quello della “nuova” s.r.l., ove il “tipo socio- economico” si caratterizza per la vicinanza dei soci alla gestione, e dunque per la loro “intraneità” alla stessa anche sotto il profilo informativo.

Solo in tal modo poi la norma può esercitare una funzione effettivamente disincentivante (rectius, incentivante di comportamenti finanziari “corretti”), armonica rispetto alla sua ratio di “sanzionare” un comportamento inefficiente, ossia esentando i creditori (o se si preferisce, instaurando una presunzione) da una prova che attiene al foro interno del socio, ed eleverebbe in modo consistente i costi della lite.

La rilevanza dei piani attestati di risanamento

Un'altra questione giuridica assai interessante, trattata nel Lodo anche se forse con minore apparato analitico e motivazionale rispetto alle altre (probabilmente anche a causa dello scarso apporto istruttorio ricevuto dalle parti), attiene all'eventuale incidenza dei due piani attestati di risanamento adottati da tutte le società, durante il periodo in cui le partite creditorie reciproche andavano formandosi.

L'Arbitro rileva come i crediti di cui si discute non nascessero da finanziamenti od altri rapporti direttamente contemplati nei piani attestati; le allegazioni delle parti tuttavia miravano a far riconoscere come l'adozione del piano, strumento legittimato ed anzi “incentivato” dall'ordinamento giuridico, avrebbero dovuto escludere l'applicazione dell'art. 2467 c.c.

L'estensore del Lodo conclude negativamente, rilevando anche come per effetto dell'azione del piano il finanziatore non sia sottoposto ai controlli, e non possa dunque avvalersi dei privilegi assicurati dagli artt. 182quater e quinques l.f. Se la società sceglie il piano attestato, il finanziamento dell'impresa in futuro sarà rimesso esclusivamente al diritto comune, e dunque anche all'art. 2467 c.c. Se il socio (o le società del gruppo) non vogliono rischiare di incorrere nella postergazione, debbono scegliere lo strumento del conferimento a titolo di equity, comunque considerato dall'ordinamento come più “desiderabile”.

Anche in tal caso mi pare di dover condividere la conclusione.

L'adozione di un piano attestato non costituisce niente più, sul piano del diritto societario, del varo di un “piano strategico” (arg. ex art. 2381 c.c.); chi finanzi una società che stia attuando un tal piano, socio o meno, non può godere di nessuna particolare guarentigia.

Dunque quando si discuterà della postergazione si valuterà la situazione della società al momento del finanziamento, secondo la logica dell'art. 2467 c.c.; il piano al riguardo non sarà irrilevante, come non lo sarebbero i piani strategici della società adottati dal c.d.a. ai sensi dell'art. 2381 c.c. (nel caso deciso dal Lodo in commento peraltro le parti non avevano prodotto all'Arbitro i piani strategici delle società). Ma rileveranno nella misura in cui dagli stessi si possa ricavare che la società si trovava in realtà in equilibrio.

Dunque la dimostrazione (l'onere della prova incombe sulla società, o sulla curatela, che eccepisce la postergazione) della assenza di tale equilibrio potrà passare anche per la dimostrazione della inattendibilità del business plan, attestato o meno, e ciò tanto per ragioni sopravvenute, anche al limite imprevedibili, quanto “originarie”, cioè determinate da cause endogene contenute nel piano, di per sé inidoneo a svolgere la sua funzione, a causa di assumptions irragionevoli, mancata considerazione di fattori determinanti od altro.

Non avrà rilevanza invece la circostanza che il socio finanziatore potesse o meno ignorare in buona fede detta inattendibilità, atteso che lo stato soggettivo del primo, come si diceva, è irrilevante ai fini dell'applicabilità dell'art. 2467 c.c.

C'è ancora da domandarsi se la sopravvenuta adozione di un piano attestato, dopo l'erogazione del finanziamento, possa “cancellare” i presupposti della postergazione, già maturati per cause “genetiche”, oppure sopravvenute (per effetto della inerzia del creditore nel riscuotere).

Ad avviso della giurisprudenza dei principali Tribunali delle Imprese, si è già accennato, il credito del socio ridiverrebbe esigibile qualora cessassero le condizioni di “crisi” che sussistevano al momento in cui fu erogato il “finanziamento”.

Peraltro la conclusione in termini di sopravvenuta esigibilità del debito in caso di cessazione della crisi non è per nulla pacifica (contra ad es. D. Vattermoli, op. loc. citt.), ed anzi potrebbe prestare il fianco a qualche perplessità, nella misura in cui rischia di indebolire la portata “sanzionatoria” e “disincentivante” del disposto, legittimando il socio finanziatore ad opporre difese strumentali.

Ma il superamento della crisi in ogni caso deve a mio avviso essere completo e definitivo, sicché ad es. in caso di riemersione successiva della crisi dovrà valutarsi con estrema attenzione se la stessa fosse stata realmente superata al momento in cui è avvenuta la “restituzione”; ed in difetto dell'adozione di una ristrutturazione perseguita in modo pianificato ed organico, meglio ancora se si sia adottato uno degli strumenti giuridici di regolazione della crisi consegnati dall'ordinamento, ritengo sia preferibile presumere che la crisi fosse in realtà la stessa, e che essa si sia semplicemente ripresentata in forma acuta, senza essere mai stata realmente superata.

Altrimenti, se cioè la crisi fosse stata in effetti “superata”, e poi si fosse ripresentata per effetto di fattori concausali sopravvenuti ed eterogenei, i presupposti della postergazione andranno indagati ex novo, con riferimento cioè al periodo che segue il nuovo insorgere della condizione di distress, al fine di individuare un nuovo atto di “rinunzia” all'esazione, costituito dal prolungato ritardo nel riscuotere.

Sarebbe diverso se il finanziamento del socio fosse invece espressamente previsto e contenuto nel piano attestato, e sussistessero tutte le condizioni dell'art. 67 l.f. ?

Dall'esame della motivazione del Lodo sembrerebbe che l'Arbitro ritenesse di no.

In effetti il “beneficio” rilasciato dal piano attestato si esplica sul piano della revocatoria fallimentare, esentando chi ponga in essere atti in attuazione del piano, non della graduazione del credito.

Certo la ratio dell'art. 67, lett. d), l.fall., è proprio nel senso di incentivare la controparte del debitore in crisi a porre in essere gli atti negoziali contemplati nel piano, bilanciando tale attenuazione nella efficacia della revocatoria con i controlli (in realtà tutti “privatistici”) che dovrebbero presidiare il piano attestato. Per cui potrebbe risultare controproducente mantenere intatta l'efficacia “disincentivante” della postergazione, che fra l'altro opera oggettivamente, e dunque a prescindere dalla percepibilità da parte del finanziatore della effettiva situazione della società

Resta il fatto che il Legislatore ha esentato il terzo dalla revocatoria fallimentare, dalla bancarotta (art. 217-bis l.fall.), ma non dalla postergazione.

Ed a livello generale d'altro canto la letteratura che si è posta il problema del “concorso” fra esenzioni dalla revocatoria fallimentare di cui al comma terzo dell'art. 67 l.fall. ed art. 2467 c.c. ha per lo più concluso nel senso della piena operatività di questa norma, che persegue finalità specifiche e peculiari della materia del finanziamento.

Per non incorrere nella postergazione, dunque, il socio dovrà semmai ricorrere al concordato preventivo od all'accordo di ristrutturazione, ove operano le più potenti ed efficaci guarentigie poste dagli artt. 182quater e quinquies l.f.; e si veda come, forse non a caso, tali norme siano strutturate sul presupposto che l'art. 2467 c.c. costituisca la norma generale, nei confronti della quale esse operano in modo da “disattivare” la postergazione, ma soltanto nella misura dell'80% (cfr. di recente sul tema L. Mandrioli, I finanziamenti soci “interinali” nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, scritto inedito in corso di pubblicazione, che ho potuto consultare per la cortesia dell'a.).

Compensazione e postergazione

Infine l'ultima parte del Lodo prende in esame quello che forse il problema più interessante implicato nella fattispecie: sul presupposto che le posizioni creditorie delle società controllate verso ALFA non abbiano natura postergata, a differenza dei crediti di quest'ultima verso BETA e GAMMA, è possibile la compensazione?

In questo contesto la soluzione data dall'Arbitro, per la verità, a me non pare del tutto convincente, ed anche l'argomentazione impiegata sembra meno persuasiva delle precedenti: ciò forse anche a causa della attività difensiva non particolarmente “appassionata” che le parti avevano svolto sul punto nel giudizio (nel Lodo pare serpeggiare spesso, peraltro, un diffuso senso di insoddisfazione per l'attività difensiva svolta da tutte le parti. ).

In effetti pare che le difese di BETA e GAMMA si fossero “trincerate”, a proposito della compensazione, sulla tesi della inesigibilità del credito postergato, facendosi forza dall'orientamento giurisprudenziale sicuramente prevalente, così rimanendo forse “spiazzate” dalla diversa ricostruzione sistematica fatta dall'Arbitro.

Certo la ricostruzione della postergazione in chiave di (in)esigibilità sembrerebbe idonea a chiudere il discorso, facendo venir meno uno dei requisiti dell'art. 1243 c.c. (così ad es. la cit. Trib. Roma, 6 febbraio 2017).

Ma da un lato non è detto che ciò risolva tutti i problemi legati all'applicazione dell'art. 56 l.fall.

E dall'altro, come si è visto, è possibile una differente qualificazione dell'istituto, che fa leva sulla graduazione del credito, anziché sulla sua esigibilità.

L'Arbitro si colloca infatti proprio in quest'ultima prospettiva, ed approda alla soluzione permissiva circa la compensazione.

Poiché i crediti reciproci di differente “rango” possono divenire oggetto di compensazione, se sussistono gli altri requisiti legali, e visto che presupposto essenziale di applicabilità dell'art. 56 l.f. è la anteriorità al concorso della matrice genetica di entrambi i crediti (nel frangente pacificamente riscontrabile), sarebbe giocoforza concludere nel senso per cui la compensazione è possibile.

Si tratta di una deroga alla par condicio creditorum (meglio, diremmo, allo “ordine legale delle cause di prelazione” di cui all'art. 160 l.fall.), che si inserisce nel quadro di un sistema che già conosce deroghe a tale principio, una di quelle fra l'altro implicata proprio dal funzionamento dell'art. 56 l.f.

Non si rinviene invece nell'art. 2467 c.c. uno di quei casi in cui la compensazione non è ammessa ad operare dalla legge, come statuisce l'art. 1246, n. 5, c.c.

Eppure, proprio l'ultimo asserto lascia inappagati.

Mi pare cioè che l'Arbitro non si sia posto a sufficienza l'interrogativo se già nella funzione della norma possano rinvenirsi sufficienti ostacoli sistematici all'operare della compensazione, così da rinvenire nella stessa l'appiglio normativo che può sostanziare l'applicazione dell'art. 1246, n. 5, c.c., ossia la “disattivazione” dell'istituto della compensazione (in tal senso D. Vattermoli, op. cit., 371 ss.).

Quello che la norma vuole in sostanza è che il socio immetta risorse idonee a costituire un “conferimento” già nel momento in cui egli prende la decisione di finanziamento.

Nel momento successivo in cui il socio valuta come operare col suo credito, invece, egli può soltanto rinunziare al diritto alla restituzione, “convertendo” se si vuole il suo credito in versamento a fondo perduto, di fatto rinunziando al credito stesso, e senza così urtare contro le finalità della disposizione.

Qualsiasi scelta giuridica differente, ivi compresa la compensazione del credito con un debito correlato, anche e persino in ipotesi relativo alla liberazione di un aumento di capitale (gli orientamenti del notariato per la verità sembrerebbero favorevoli a tale modalità operativa: v. ad es. la Massima n. 23 del Consiglio Notarile di Firenze, o la Massima I.K.3 del Consiglio delle Tre Venezie. Per elementi di fondata perplessità v. però Trib. Napoli, 8 novembre 2006, in Notariato, 2008, 519, con nota di Nigro), od il suo conferimento nella società a titolo di aumento di capitale (a prescindere dalle notorie difficoltà giuridiche che tale soluzione di per sé comporta), che comporti l'acquisizione da parte del socio di un qualsiasi vantaggio patrimoniale, deve ritenersi violativa dei fini del disposto.

Il socio finanziatore infatti può così approfittare della sua posizione di indiscusso vantaggio informativo al fine di ottenere un ulteriore vantaggio dal proprio credito, attraverso la estinzione di un suo debito o la assegnazione, come corrispettivo della sua “rinunzia”, di azioni o di altro; vantaggio di cui non avrebbe potuto godere qualora avesse compiuto l'unica azione corretta nel momento in cui ha fatto la propria attribuzione alla società, ossia un conferimento, tipico od “atipico”; azione corretta che avrebbe anche potuto evitare l'insorgere dello stato di crisi.

L'ipotesi dell'aumento del capitale, con pretesa di compensare il credito con il debito nato dalla sottoscrizione (cfr., commentando la pronunzia del Tribunale di Roma del 6 febbraio 2017, A. Messore, La compensazione del debito da aumento di capitale e la postergazione legale dei finanziamenti soci, in Banca borsa tit. cred., 2018, 380 ss.), costituisce il “caso limite” idoneo a dimostrare, al di là di ogni dubbio, la bontà della conclusione: certo sussistono nella fattispecie specifica evidenti peculiarità, legate al fatto che l'”utilizzo” del credito avverrebbe qui in modo tale da convertirlo di fatto in equity, così sottoponendolo ad un regime di disponibilità più rigoroso di quello postergato originario (lo stesso in sostanza di qualsiasi attribuzione fatta dal socio “a fondo perduto”), apparentemente quindi avvantaggiando i creditori pregressi, o comunque in modo neutro per gli stessi, ed in ipotesi soddisfacendo le finalità della norma, che come si è già visto mira proprio ad indurre il socio ad immettere risorse in società a titolo di equity.

Ma parrebbe dimenticarsi che il socio così operando rinunzia sì al diritto alla restituzione, e converte definitivamente il suo diritto in equity; ma non fa questo nel momento in cui avrebbe dovuto, ossia quando decide di “finanziare” la società, ed inoltre, e direi soprattutto, consegue il beneficio di estinguere un proprio debito, che avrebbe dovuto estinguere in numerario.

D'altro canto il fatto che il socio non riceva così denaro non pare sufficiente ad escludere che ciò configuri “restituzione” in violazione dell'art. 2467 c.c., stante anche la già ricordata natura “materiale” della norma: non sembra infatti che potrebbe parimenti sfuggire all'applicazione del disposto ad es. la “restituzione” di una somma data a mutuo mediante datio in solutum (art. 1197 c.c.).

E non è forse un caso che in altre ipotesi, quando l'ordinamento ha voluto evitare l'effetto per cui il credito di un soggetto sia soddisfatto prima di un altro, abbia esplicitamente vietato la compensazione, come in talune ipotesi di segregazione patrimoniale, caratterizzate dal fatto che un soggetto gestisce un patrimonio nell'interesse di un altro (art. 22, comma 2, t.u. fin.).

Ancora, la compensazione conduce di fatto ad una sottrazione di attivo alla Massa, tanto se essa sia eccepita dal debitore del fallito, quanto se essa sia opposta come oggetto di una vera e propria domanda riconvenzionale; per questo la giurisprudenza sembra voler superare, in tempi recenti, l'orientamento, invero un tempo affermato in prevalenza, per cui il soggetto, che sia convenuto in giudizio dal curatore di un fallimento, potrebbe opporgli in compensazione, in via di mera eccezione, e non già di domanda, riconvenzionale, un proprio controcredito, a prescindere dalla sua previa verifica nella sede dell'accertamento del passivo concorsuale, avanti il Giudice Delegato.

Infatti “in tema di fallimento, l'accertamento dei crediti vantati nei confronti della massa deve aver luogo con il medesimo rito previsto per i crediti concorsuali poiché il credito opposto in compensazione può essere riconosciuto soltanto in sede fallimentare e, anche se dedotto solo in via di eccezione, presuppone l'accertamento del debito del fallito” (in tal senso Cass., 4 settembre 2014, n. 18691); ed ancora “in tema di fallimento, l'accertamento dei crediti vantati nei confronti della massa deve aver luogo, al pari di quello dei crediti concorsuali, con il rito previsto dagli art. 93 ss. l. fall., non assumendo alcun rilievo l'eventualità che il credito sia stato opposto in compensazione in un giudizio ordinario promosso dal fallimento per la riscossione di un credito del fallito, in quanto la compensazione, oltre a presupporre l'accertamento del credito, può essere riconosciuta soltanto in sede fallimentare” (Cass., 27 marzo 2008, n. 7967)( tale soluzione interpretativa potrebbe fra l'altro nel prossimo futuro divenire necessitata anche a causa dell'avvenuto mutamento del sistema normativo, conseguito alla promulgazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155 - c.d. Legge delega per la riforma della legge fallimentare, scaturita dai lavori della Commissione “Rordorf” -, di prossima attuazione nel nostro ordinamento, che all'art. 7, comma 8, lett. e), impone di “attrarre nella sede concorsuale l'accertamento di ogni credito opposto in compensazione ai sensi dell'art. 56” l.f. L'art. 160 della bozza di “Codice della crisi e dell'insolvenza”, infatti, recita “i creditori possono opporre in compensazione dei loro debiti verso il debitore il cui patrimonio è sottoposto alla liquidazione giudiziale i propri crediti verso quest'ultimo, ancorché non scaduti prima dell'apertura della procedura concorsuale, soltanto dopo che sono stati ammessi al passivo”).

Dunque l'”impatto” quantomeno qualitativo della compensazione sul patrimonio della società non è affatto trascurabile, e già l'osservazione pragmatica potrebbe condurre ad una diversa valutazione della sua incidenza nell'applicazione dell'art. 2467 c.c.

Conclusioni

Si vede bene dunque come il Lodo commentato abbia affrontato una gran quantità di questioni giuridiche di grande rilevanza pratica e teorica, fornendo una motivazione di grande impegno e rigore logico.

Forse non tutte le conclusioni appaiono in assoluto condivisibili, ma va anche detto che la fattispecie sembra comunque essere stata ben decisa, posto che anche se non si condividesse la soluzione in ordine alla compensazione fra credito postergato e non postergato, i crediti di BETA e GAMMA avrebbero anche potuto essere considerati pur essi postergati ai sensi dell'art. 2497-quinquies, benché “ascendenti”, per i motivi di cui sopra, e dunque così sicuramente compensabili.

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