Responsabilità da reato degli enti. Limiti e conseguenze della richiesta di patteggiamento

Cipriano Ficedolo
19 Settembre 2018

La Suprema Corte con la sentenza n. 14736/2018 ha colto l'occasione per fare chiarezza in una vicenda che fino a questo momento non aveva avuto modo di affrontare, ovvero quale sia il mezzo di impugnazione da adottare avverso l'ordinanza di rigetto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti.
Massima

In tema di responsabilità da reato degli enti, l'ordinanza che illegittimamente rigetta la richiesta di applicazione della pena, formulata ai sensi dell'art.63 d.lgs. 6 giugno 2001, n. 231, non è abnorme, in quanto è espressione di un potere riconosciuto dall'ordinamento ed è impugnabile solo unitamente alla sentenza che definisce il giudizio, ai sensi dell'art. 586 c.p.p., e non già immediatamente in cassazione quale atto abnorme.

Il caso

La sentenza in commento trae origine dalla nota vicenda giudiziaria relativa al caso “Ilva di Taranto”. La Corte di assise di Taranto rigettava la richiesta di applicazione della pena formulata da due società, ritenute responsabili per l'illecito amministrativo, rilevando l'insussistenza dei presupposti previsti dall'art. 63d.lgs. 231/2001.

Secondo i giudici della Corte di assise tarantina la pena concordata tra il P.M. e le società imputate era sommariamente inadeguata e non proporzionata alla gravità dei reati commessi.

I difensori delle società, avverso la predetta ordinanza di diniego, presentavano ricorso per cassazione deducendo l'abnormità strutturale dell'ordinanza di rigetto del patteggiamento.

Inoltre, la Corte di assise, errando, nel motivare l'ordinanza di rigetto del patteggiamento, aveva fatto riferimento al reato di cui all'art. 439 c.p. che non è ricompreso tra i reati presupposto ex d.lgs. 231/2001.

I ricorrenti, in subordine, deducevano la illegittimità costituzionale dell'art. 448 c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost. nella parte in cui non prevede un mezzo di impugnazione prontamente esperibile avverso le ordinanze reiettive del patteggiamento emesse in limine al dibattimento, al pari di quanto affermato da Cass. pen., Sez. I, n. 21234 del 2 febbraio 2017 in tema di ordinanza dichiarativa della inammissibilità della richiesta della messa alla prova.

La questione

La questione offre lo spunto alla Suprema Corte per cercare di chiarire un tema alquanto complesso, quale la responsabilità amministrativa degli enti, ex d.lgs. 231/2001, che, ad oggi, a distanza di quasi venti anni dalla sua entrata in vigore presenta ancora molti punti non ben delineati essendo un tertium genus rispetto alle più note e codificate responsabilità civile e penale.

Prima di addentrarci nel merito della vicenda in oggetto, è necessario effettuare un breve excursus relativamente al d.lgs. 231/2001 ed in particolare all'art. 63 che regola l'applicazione della sanzione su richiesta.

Il menzionato art. 63 prevede, due casi per l'applicabilità della pena su accordo delle parti nei confronti dell'ente:

  • quando il giudizio nei confronti dell'imputato persona fisica sia definibile con il medesimo rito,
  • quandoper l'illecito amministrativo è prevista la sola sanzione pecuniaria.

A chiusura della norma il Legislatore ha previsto che, se il giudice, ritiene che debba essere applicata una sanzione interdittiva in via definitiva, la scelta del predetto rito alternativo rimane preclusa.

La fattispecie diventa ancor più complessa nell'ipotesi in cui l'imputato persona fisica decida di affrontare il processo nelle forme del rito ordinario.

In tal caso, la posizione dell'ente e quella dell'imputato persona fisica potrebbero essere non del tutto identiche e/o sovrapponibili, specie nell'eventualità in cui l'imputato persona fisica scelga il rito ordinario mentre l'ente opti per un eventuale patteggiamento.

La posizione di quest'ultimo verrebbe inesorabilmente stralciata e dovrebbe essere creato un nuovo fascicolo con un nuovo R.G.N.R. nel cui interno confluiranno solo gli atti relativi alla posizione dell'ente che, in astratta ipotesi, potrebbero essere differenti da quelli dell'imputato persona fisica.

Di conseguenza, il giudice che dovrà valutare la congruità dell'accordo ex art. 444 c.p.p. e quindi avere una visione il più completa dei fatti reato, si troverebbe in una situazione monca, non essendo presente nel fascicolo la posizione dell'altro imputato e, di conseguenza, si troverà a dover valutare “ipoteticamente” una richiesta di patteggiamento mai presentata dall'imputato e valutare “in solitudine” un consenso mai espresso dal P.M..

Il giudice, a questo punto, non avendo un quadro complessivo dell'intera vicenda potrebbe optare per il rigetto della richiesta di applicazione della pena nei confronti dell'ente non ritenendola congrua.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte con la sentenza n. 14736/2018 ha colto l'occasione per fare chiarezza in una vicenda che fino a questo momento non aveva avuto modo di affrontare, ovvero quale sia il mezzo di impugnazione da adottare avverso l'ordinanza di rigetto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti.

I giudici di legittimità, prima di entrare nel merito della vicenda, hanno precisato che l'ordinanza che respinge la richiesta di applicazione della sanzione su richiesta ex art. 63 d.lgs. 231/2001 è impugnabile solo ed unitamente alla sentenza che definisce il giudizio ai sensi dell'art. 568 c.p.p.

Di conseguenza, il ricorso presentato dai difensori degli enti imputati è stato dichiarato inammissibile, poiché, il provvedimento del giudice di prime cure oggetto dell'impugnazione è risultato essere si illegittimo, ma non abnorme.

Dopodiché, hanno affermato che, la Corte di assise nel motivare l'ordinanza di rigetto sia incorsa in una serie di errori, alcuni dei quali anche rilevanti ma, nonostante ciò, l'ordinanza non risulta essere affetta di abnormità.

In primis la Corte territoriale, nel motivare l'ordinanza di rigetto ha erroneamente richiamato il reato di cui all'art. 439 c.p. – avvelenamento di acque o di sostanze alimentari – reato non previsto nel novero dei reati presupposto ex d.lgs. 231/2001.

È doveroso precisare che, l'ente non può essere ritenuto responsabile per qualsivoglia fatto costituente reato ma, ex art. 2 del d.lgs. 231/2001, solo e unicamente per quei reati e le relative sanzioni espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Inoltre, ha “equivocato” il riferimento all'interdizione prevista dall'art. 63, comma 2, del d.lgs. 231/2001 ritenendo che, la stessa potesse avere valore ostativo all'ammissione della richiesta di applicazione della sanzione anche ove applicata in via “temporale”.

La Suprema Corte ha inoltre precisato che, il “patteggiamento dell'ente” deve ritenersi senza dubbio consentito ove l'illecito amministrativo sia sanzionato anche con la sanzione interdittiva temporanea, tanto è vero che, l'art. 63 d.lgs. 231/2001, riconosce la preclusione ostativa al rito premiale solo ed unicamente nell'ipotesi in cui il giudice ritenga debba essere applicata la sanzione interdittiva in via definitiva; in tal modo riconoscendo implicitamente l'ammissibilità del patteggiamento in presenza di sanzioni edittali congiunte (Cass. pen., Sez. II, 30 ottobre 2008, n. 45130, Rosa; Cass. pen., Sez. III, 8 giugno 2016, n. 45472, Talian).

Passando ad analizzare la questione dell'abnormità strutturale del provvedimento impugnato i giudici hanno statuito che, l'abnormità per essere definita tale deve integrare una singolarità ed una stranezza del contenuto tale da risultare “completamente avulsa” dall'intero ordinamento processuale.

L'abnormità per essere considerata tale deve integrare non un semplice vizio dell'atto, bensì, «uno sviamento della funzione giurisdizionale» che, nel caso di specie non si è verificata nonostante l'ordinanza emessa dalla corte territoriale sia viziata in più punti sia in relazione all'ammissibilità dell'ente al patteggiamento che, al richiamo al reato di cui all'art. 439 c.p. non contemplato nel novero dei reati presupposto ex d.lgs. 231/2001.

Da ultimo la Suprema Corte ha osservato che, in tema di ordinanza di rigetto del “patteggiamento dell'ente” il codice prevede quale mezzo d'impugnazione ex art. 586 c.p.p., seppur differito, solo e unicamente l'appello della sentenza di primo grado; vi è un solo caso in cui è ammessa l'impugnazione immediata e riguarda le ordinanze in materia di libertà personale.

Difatti, nel caso in cui il giudice del dibattimento rigetti il “patteggiamento”, non ritenendolo meritevole di ratifica, il codice ha previsto un rimedio, anche se differito nel tempo, avverso il predetto provvedimento, e tale norma trova conferma nell'art. 34 d.lgs. 231/2001 il quale, prevede espressamente che, nel procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme del predetto d.lgs., nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale in vigore.

La norma di rinvio dell'art. 34 rende applicabile la previsione dell'art. 586 c.p.p., in base alla quale, i provvedimenti emessi nel corso del dibattimento sono impugnabili solo ed unitamente alla sentenza che definisce il giudizio in corso.

Quanto su esposto è sufficiente a precludere la possibilità di attivare il ricorso per cassazione da considerarsi strumento residuale che, invece, presuppone l'assenza di ogni altro mezzo di censura avverso il provvedimento che si intende impugnare.

Osservazioni

In definitiva, a fronte del combinato disposto degli artt. 34 d.lgs. 231/2001 e 586 c.p.p., avendo l'ordinamento previsto quale forma di impugnazione delle ordinanze emesse nel corso dibattimento l'appello della sentenza, non è possibile esperire il ricorso per cassazione che, invece, presuppone l'assenza di altri mezzi di censura avverso un provvedimento giurisdizionale.

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