Il punto sul contratto di factoring e sull'azione revocatoria fallimentare

21 Settembre 2018

Il contratto di factoring si configura quale contratto atipico, in cui l'elemento costante è la gestione di una massa di crediti di un'impresa, attuata mediante lo strumento della cessione dei crediti, in unione, di solito, con un'operazione di finanziamento all'impresa e, talora, con un'operazione di assicurazione, quando il factor assuma il rischio dell'insolvenza del debitore.
Premessa

Il contratto di factoring si configura quale contratto atipico, in cui l'elemento costante è la gestione di una massa di crediti di un'impresa, attuata mediante lo strumento della cessione dei crediti, in unione, di solito, con un'operazione di finanziamento all'impresa e, talora, con un'operazione di assicurazione, quando il factor assuma il rischio dell'insolvenza del debitore.

Tale figura contrattuale trova gran parte della propria regolamentazione nella legge n. 52 del 21 febbraio 1991, che disciplina la cessione dei crediti di impresa, ma non ne esaurisce la fattispecie, restandone estranee una serie di prestazioni accessorie, normalmente contenute nella modulistica contrattuale.

La legge si limita a delineare il proprio ambito di applicazione (art. 1), facoltizzando la cessione, anche in massa, dei crediti di impresa esistenti o futuri (art. 3), invertendo i termini della garanzia di solvenza (art. 4) ed introducendo il requisito del pagamento avente data certa, ai fini dell'opponibilità ai terzi della cessione (art. 5) e disciplinando la sorte del contratto nell'eventualità in cui uno dei soggetti del rapporto, da cui ha origine il credito oggetto di cessione, venga assoggettato alla procedura fallimentare (artt. 6 e 7).

Tra le principali criticità legate a tale figura contrattuale la più complessa è quella relativa alle conseguenze derivanti dal fallimento del cedente, disciplinate dagli articoli 5 e 7. In particolare, l'art. 5, 1° comma, introduce un criterio di opponibilità ulteriore rispetto a quelli previsti dalla normativa codicistica e dalla legge fallimentare, prevedendo che “qualora il cessionario abbia pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione ed il pagamento abbia data certa, la cessione è opponibile […] al fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento, salvo quanto disposto dall'art. 7, comma 1”.

Quest'ultimo articolo precisa che l'opponibilità al fallimento dell'efficacia della cessione verso i terzi è subordinata al mancato raggiungimento della prova, posta a carico della curatela, della conoscenza da parte del cessionario dello stato di insolvenza in cui versava il cedente allorché riceveva il pagamento del prezzo della cessione, a condizione che detto pagamento sia stato eseguito nell'anno anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento e prima della scadenza del credito ceduto.

L'elemento temporale incide profondamente sulle conseguenze applicabili, dal momento che (i) qualora non sia trascorso l'anno - e venga provata la scientia decoctionis - la cessione dovrà considerarsi inefficace, il curatore provvederà alla gestione del credito “ceduto” ed il factor potrà recuperare quanto anticipato soltanto spiegando domanda di ammissione al passivo fallimentare; al contrario, (ii) se è trascorso un anno dal pagamento, il factor potrà recuperare il credito a suo tempo pagato, senza dover renderne conto alla curatela.

Tuttora vi sono contrasti interpretativi in merito ai rapporti tra l'azione revocatoria di cui all'art. 7 sopra citato e quella prevista dall'art. 67 l.fall., con particolare riferimento al fatto che il ricorso alla prima sia da considerarsi come scelta “obbligata” per il curatore, stante il carattere di specialità nei confronti della legge fallimentare, ovvero costituisca un ulteriore strumento a tutela della massa dei creditori.

La revocatoria “speciale” prevista dall'art. 7, comma 1, L. n. 52/1991

Sul punto la Corte di Cassazione si è espressa con sentenza n. 16828 del 5/07/2013, affermando che la norma speciale della L. n. 52/1991, art. 7, “si inserisce nell'ambito del disposto dell'art. 67, comma 2, l.f. in relazione agli atti a titolo oneroso compiuti nel periodo sospetto annuale e a condizione che il curatore provi la scientia decoctionis”.

In particolare, secondo detta pronuncia, “nella prospettiva della l. n. 52 del 1991 il momento dal quale si fa discendere la sua opponibilità ai terzi non è il perfezionamento dell'atto contrattuale, bensì il “pagamento” del cessionario al cedente (fatto che rappresenta la “causa” della cessione, non già l'effetto di essa, come nella cessione-vendita del credito) e la revoca, coerentemente con questa impostazione, colpisce l'accordo in base al quale sarebbero ceduti i crediti e, per conseguenza, sono prive di effetti le cessioni di credito che ne sono state o ne potranno essere l'esecuzione”.

Da questo autorevole orientamento deriva che la l. n. 52 del 1991 sarebbe applicabile, oltre che alle domande di dichiarazione di inefficacia di cessioni di crediti verso corrispettivo (ai sensi dell'art. 67, comma 1, l.fall.) anche alle domande di dichiarazione di inefficacia di cessioni di crediti causa solvendi (quali mezzi anomali di pagamento) proposte ai sensi dell'art. 67, comma 2, l.fall.. Orientamento che, peraltro, parrebbe anche confermato nell'ambito della motivazione della più recente sentenza n. 14260 dell'8/07/2015 della Corte di Cassazione.

Tuttavia tale impostazione non trova il favore di parte della dottrina e, a sostegno della perplessità manifestate sul punto, vi è da dire che la riforma di cui al d.l. n. 35/2005 ha parzialmente modificato la disciplina della revocatoria di cui all'art. 67, 2 comma, l.fall., prevedendo il dimezzamento del “periodo sospetto” (da un anno a sei mesi), mentre quello previsto dalla legge n. 52/1991 continua ad essere di un anno. Ebbene, dal momento che - come ormai assodato dalla giurisprudenza - la revocatoria di cui all'art. 7 l. n. 52/1991 si pone quale norma speciale in relazione alla rispettiva norma di riferimento ex art. 67 l.fall., sembrerebbe porsi un problema di legittimità costituzionale; come può una norma che dovrebbe semplicemente integrare, specificandola, un'altra norma generale, essere caratterizzata da un requisito essenziale (quale quello temporale) notevolmente diverso?

Per tentare di dare una risposta a tale quesito prendiamo le mosse proprio da quanto affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 16828 del 5 luglio 2013, già citata sopra, laddove afferma che la norma speciale della L. n. 52 del 1991, art. 7, si inserisce nell'ambito del disposto dell'art. 67, comma 2, l.fall..

La circostanza per la quale la giurisprudenza della Suprema Corte esplicitamente riconduce l'azione prevista dall'art. 7, comma 1, legge n. 52/1991 ad un'ipotesi specifica di applicazione della revocatoria fallimentare di cui all'art. 67, comma 2, l.fall. – ponendo in essere un rapporto di species a genus – attesa anche l'identità della tipologia di atti, ritenuti “normali”, presi in esame dalle due norme, sembra determinare una disparità di trattamento tra le due fattispecie normative nella parte in cui la prima stabilisce un “periodo sospetto” doppio rispetto a quello attualmente previsto dalla legge fallimentare. Se, infatti, il trattamento normativo previsto dall'art. 7 risultava “congruo” rispetto a quello dell'art. 67, comma 2, all'epoca dell'approvazione della legge n. 52/1991 – attesa l'identità dell'arco temporale di riferimento per gli atti colpiti dalla sanzione di inefficacia – altrettanto non può dirsi a seguito dell'entrata in vigore del D.L. 15 marzo 2005, n. 35, il quale ha dimezzato il periodo sospetto previsto dall'art. 67 l.fall. e, con specifico riferimento al secondo comma di detta norma, ha ridotto detto periodo da un anno a sei mesi.

Al riguardo, è plausibile ritenere che l'omessa modifica del termine rilevante di cui all'art. 7 sia da ricondurre ad un difetto di coordinamento tra le riforme che hanno interessato la legge fallimentare – a partire proprio dal D.L. 35/05 – e la normativa speciale in tema di cessione dei crediti di impresa.

Il presupposto soggettivo dell'azione revocatoria speciale ex art. 7 L. n. 52/1991

Premesso quanto precede in merito ai criteri di applicabilità della disposizione “speciale” di cui all'art. 7, comma 1, della legge 21 febbraio 1991, n. 52, è opportuno svolgere una riflessione in merito al presupposto soggettivo che tale norma richiede.

Ed infatti, essa individua nel pagamento del cessionario al cedente - e non nel perfezionamento dell'atto contrattuale - il momento dal quale fare discendere l'opponibilità della cessione al fallimento del cedente, a condizione che il curatore non provi la "scientia decoctionis" del cessionario e che il pagamento sia eseguito entro l'anno dalla dichiarazione di fallimento e prima della scadenza del credito ceduto.

Se ne ricava che, ai fini della esperibilità della revoca, è richiesta la sussistenza del profilo soggettivo della “scientia decoctionis” in capo al cessionario, intesa quale conoscenza o comunque conoscibilità da parte del cessionario dello stato di insolvenza in cui versava il cedente al momento della cessione.

Benchè la disciplina di cui all'art. 7 l. n. 52/1991 preveda che tale onere probatorio sia esclusivamente a carico del curatore fallimentare, l'orientamento giurisprudenziale maggioritario ha introdotto una facilitazione nell'adempimento di tale onere nei casi in cui il convenuto in revocatoria sia una banca o analogo soggetto specializzato, stabilendo che il curatore abbia l'onere di provare non già l'effettiva conoscenza dello stato di insolvenza, bensì la semplice conoscibilità dello stesso, anche sulla base di semplici presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. A ben vedere, pertanto, l'attività istruttoria svolta dal factor, come è stato giustamente osservato, “può divenire una pericolosa arma a doppio taglio per le società di factoring (Cass. n. 5742/1993; Cass. n. 4128/1980; Trib. Milano 22 giugno 1995, in Gius, 1995, 3164). Conclusione, questa, certo non confortante ove si pensi che, da un lato, in periodi di crisi, sono proprio le società di factoring ad essere chiamate a sostenere le imprese prive dei requisiti stringenti richiesti per l'accesso al credito bancario e, dall'altro, ove si consideri che, una volta dichiarato il fallimento, la sussistenza dello stato di insolvenza nel periodo sospetto renderà “complicata” proprio in ragione dell'attività istruttoria sopra citata la difesa in punto elemento soggettivo.

La domanda di revocatoria delle cessioni ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall.

Come è noto, la causa del contratto di factoring varia a seconda della reale finalità perseguita dalle parti, che può essere (i) quella di cedere un credito a fronte di un corrispettivo (vendendi), (ii) quella di estinguere posizioni debitorie pregresse (solvendi) o (iii) quella di costituire contestualmente una garanzia per le cessioni effettuate (mandati). L'individuazione della causa è particolarmente significativa dal momento che la giurisprudenza e la dottrina sono divise sulla normativa applicabile alle diverse fattispecie.

In particolare (come rilevato nei paragrafi precedenti) nulla questio in relazione alla inequivocabile volontà del legislatore di introdurre una disciplina speciale applicabile alle cessioni di crediti pecuniari verso corrispettivo, aventi una causa vendendi. In tale fattispecie infatti si ravvisa tra la disciplina del factoring relativa agli aspetti non regolati dalla l. 52/1991 e quella introdotta da quest'ultima un rapporto di genere a specie, tale per cui la disciplina speciale, siccome introdotta in deroga a quella generale, è sicuramente di stretta interpretazione nella parte in cui delimita l'ambito della sua applicazione alla “cessione di crediti pecuniari verso corrispettivo” (art. 1, n.1) e nella parte in cui ricollega “al pagamento del corrispettivo” il nuovo criterio di opponibilità introdotto dall'art. 5, e l'azione di rimozione dell'efficacia delle cessioni di crediti in caso di fallimento del cedente, prevista dall'art. 7.

La revocatoria ai sensi dell'art. 67 l.fall. del contratto di factoring o delle singole cessioni

Nell'eventualità in cui fosse esperibile l'azione revocatoria di cui all'art. 67 l.fall., è necessario affrontare un ulteriore problema legato al fatto se sia da assoggettare ad azione revocatoria il contratto di factoring, ovvero i singoli atti di cessione di credito. Il problema ha una portata pratica non indifferente dal momento che è opportuno individuare quali siano gli atti a titolo oneroso cui fare riferimento per la determinazione del cosiddetto periodo sospetto (dato temporale). Se il contratto di factoring è stato stipulato nell'anno anteriore alla sentenza di fallimento, nulla quaestio; ma se il contratto risale ad una data antecedente tale termine, appare evidente come, nel gioco delle parti, da un lato (curatela) verrà sostenuta la revocabilità delle singole cessioni, mentre dall'altro (factor) si propenderà per la tesi inversa, opponendo il riferimento temporale alla conclusione del contratto di factoring.

Ed infatti, a tal proposito si segnalano diversi orientamenti in merito alla qualificazione giuridica di tale contratto, (i) l'uno teso ad individuare in tale fattispecie le caratteristiche di un “contratto preliminare unilaterale”, (ii) l'altro volto a considerarlo quale “cessione attuale dei crediti futuri”, avente effetti obbligatori, ma producente gli effetti reali propri della fattispecie nel momento in cui i singoli crediti vengono ad esistenza e (iii) un ultimo orientamento, infine, che individua nel contratto di factoring un “contratto normativo”, e quindi un accordo-quadro che si porrebbe come giustificazione causale rispetto ai successivi contratti di cessione del credito.

Ebbene, la propensione per l'una o per l'altra tesi non è evidentemente irrilevante, dal momento che finisce per ripercuotersi sull'oggetto dell'azione revocatoria fallimentare. Ad avviso di chi scrive la tesi che sembra più aderente alla funzione svolta dal contratto in esame è , quella che lo qualifica come “un contratto definitivo da cui nascono diritti ed obblighi per entrambi i contraenti ed al quale, in particolare, va ricollegato l'effetto traslativo dei crediti d'impresa, effetto che si realizza non appena i crediti vengono ad esistenza... Le singole cessioni...cui si fa riferimento nei contratti non costituiscono differenti attività negoziali, ma sono semplicemente i momenti di realizzazione del contratto definitivo” (Cassandro Sulpasso, Collaborazione alla gestione e finanziamento di impresa: il factoring in Europa, in Quaderni di Giur. comm., n. 37, Milano, 1981, 122).

Da quanto precede consegue che la cessione costituisce soltanto lo strumento di realizzazione della causa del contratto di factoring e, pertanto, sarà quest'ultimo, e non le singole cessioni, a costituire il termine di riferimento per l'azione revocatoria fallimentare, ivi compresa quella “speciale” prevista dall'art. 7, comma 1, L. n. 52/1991.

Tale orientamento sembra ormai prevalere anche in giurisprudenza (Trib. Genova, 17 ottobre 1994, in Giur. comm., 1995, II, 697) dove il contratto di factoring viene configurato come “un rapporto fortemente unitario, avente la sua origine nell'accordo iniziale, nel quale le singole cessioni sono momenti di attuazione di un unico programma negoziale che trovano in questo la propria causa e di cui costituiscono contenuto essenziale”. Tale ricostruzione ha il merito di evitare la discrasia determinata dalla convivenza nel medesimo contesto contrattuale di una convenzione di base autonoma e separata rispetto alle successive cessioni di credito.

In tal senso si è recentemente pronunciata anche ulteriore giurisprudenza di merito:

La valorizzazione, quale momento genetico, del contratto originariamente stipulato e non dell'atto sopravvenuto (dichiarazione di scioglimento ex art. 72 L.F. o delibera di esclusione del socio, pur individuati quali fatti giuridici che determinano il sorgere del credito), porta alla conclusione che anche con riferimento al rapporto di factoring il momento di acquisto dei crediti, anche futuri, va individuato nel contratto stesso di factoring e non nell'atto successivo in base al quale essi sorgono, che intercorre tra il cedente ed il debitore ceduto.

E' quindi fondata la tesi della Banca secondo cui il contratto tra cedente e debitore ceduto, da cui sorge il credito futuro oggetto di cessione, si pone rispetto al factor come un semplice fatto giuridico che (alla pari dell'atto di scioglimento ex art. 72 L.F. e della delibera di esclusione del socio fallito), pur generando il credito, non riguarda direttamente il factor e non può, pertanto, costituire la causa genetica originaria dell'ingresso del credito nel patrimonio del cessionario, ovvero “l'atto tra vivi” di acquisto previsto dall'art. 56 2° comma L.F.” (Trib. Venezia, 28 aprile 2015, sentenza n. 1458/2015, in motivazione, inedita).

Sul punto, per concludere, si segnala la recentissima sentenza della Suprema Corte n. 14002 del 31 maggio 2018 che, pur non riferendosi espressamente al contratto di factoring, ma ai contratti di cessione del credito, ha espressamente affermato, in motivazione, che “nel caso in cui non vi sia un accordo per la cessione contestuale al sorgere del debito ma un accordo generale di cessione a monte a cui abbiano fatto seguito singole cessioni di credito da parte del somministrato disposte per saldare precedenti fatture del somministrante, queste ultime cessioni, sebbene abbiano riguardato debiti preesistenti se apprezzate singolarmente , hanno però adempiuto un accordo generale addirittura antecedente al debito e in questo particolare contesto non possono considerarsi anomale, perché rispondendo alle regole che le parti si erano date in precedenza, non erano idonee a far sospettare alcunchè all'accipiens”.

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