Ancora sulla valutazione del danno nelle azioni di responsabilità: un banco di prova per la coerenza dei concetti

Danilo Galletti
27 Settembre 2018

L'Autore prosegue, in questa seconda parte del suo lavoro, con l'analisi del tema della valutazione del danno nelle azioni di responsabilità.
La responsabilità per danni futuri: forse un nuovo scenario

Un'area in cui forse il confronto con i principi della responsabilità civile potrebbe essere davvero utile è quello relativo all'attribuzione a ciascun titolare di organi sociali delle conseguenze pregiudizievoli causate dallo stesso.

E' proprio questo, lo si ricorderà, il contesto per cui è nata la teoria dei netti patrimoniali di periodo, che ha svolto e svolge la funzione di evitare di ascrivere a ciascun responsabile l'intero pregiudizio causato dall'insolvenza (misurato come noto dal deficit fallimentare).

Presupposto tacito di tale ricostruzione è che la responsabilità di ciascun agente venga meno nel momento in cui egli cessa dalla sua carica, e quindi smette di avere la possibilità di influire sulla produzione del danno.

Nel diritto civile tuttavia non sempre l'interruzione della condotta materiale dell'agente è ritenuta idonea ad arrestare anche il processo causale che genera il danno risarcibile. L'agente infatti può avere già innescato con la sua condotta un procedimento eziologico che si evolve a prescindere dalla persistenza del suo ruolo attivo, e che aggrava comunque le conseguenze dannose per la vittima.

Il danno può risultare aggravato d'altro canto anche per effetto dell'operare, dopo la cessazione della condotta dell'agente, di fattori causali sopravvenuti, naturali od umani; in fondo è a questi che si riferisce l'art. 41 c.p., ove è codificata la regula iuris per cui tali sopravvenienze escludono la responsabilità dell'agente solo se esse sono “sufficienti” a determinare il danno, ossia se ne assorbono l'eziologia, interrompendo il nesso causale con l'autore dell'illecito.

Il caso classico è quello dell'investitore il quale poi sia chiamato a rispondere della morte della vittima, in realtà causata (o concausata?) dall'errore del medico che l'ha avuta in terapia. Ma anche senza ipotizzare eventi “letali” la fattispecie funziona, ossia quando le conseguenze dell'accaduto siano solo aggravate dall'imperizia dei sanitari.

Peraltro il ragionamento sembra mantenere validità (anche ai fini dell'art. 41 c.p.) anche se viene specularizzato, con riferimento cioè ad eventuali patologie pregresse, magari indotte da precedenti errori di sanitari, che affliggano la vittima prima dell'evento dannoso provocato dall'agente.

Facile è la suggestione che porti a paragonare queste ipotesi rispettivamente al caso dell'aggravamento del dissesto provocato da chi succeda nella carica al titolare di un organo sociale, nel cui periodo di permanenza fosse già maturata la perdita del capitale sociale e/o della continuità.

Nel diritto civile si reputa che l'agente sia comunque responsabile anche dell'aggravamento, se il proprio illecito ha esposto la vittima ad un “rischio specifico” compatibile con gli accadimenti lesivi futuri (cfr. per tutti M. Franzoni, op. cit., 1993, 807 s.; Id., op. cit., Appendice di aggiornamento, 2004, 26 ss.; C.M. Bianca, op. cit., 255 ss.; F. Realmonte, Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno, Milano, 1967, 203 ss. In giurisprudenza v. la già cit. Cass., n. 15991/2011).

Allo stesso modo, chi intervenga ad aggravare un processo dannoso già in corso risponderà solo delle conseguenze arrecate, salvo il caso, che viene eccettuato, di chi sia “strumento materiale” della macchinazione altrui, ossia del danneggiante con dolo, il quale preveda anche l'aggravamento che conseguirà alla negligenza od imperizia altrui, conosciuta e “pianificata” (l'eccezione peraltro appare quantomeno discutibile, e forse deriva dalla sopravvalutazione, tipica di buona parte della civilistica, del ruolo dell'illecito “doloso”, il quale dovrebbe di per sé rivestire l'idoneità ad “assorbire” gli altri fattori concausali: v. sul punto Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1967, 154 ss.; in senso critico Monateri, Responsabilità civile, III, Torino, 1998, 126. In realtà, cause esentative della responsabilità consimili esistono in altri contesti, si pensi al d. lgs. n. 231/2001, ove l'operato dell'agente che abbia “fraudolentemente eluso il modello” organizzativo elide la responsabilità della persona giuridica, ma debbono essere espressamente previste: specie se l'agente è gravato da una precisa posizione di garanzia, infatti, e viene meno ai propri doveri, non si vede perché egli debba andare esente dalle conseguenze lesive che ha comunque prodotto. Egli dunque concorrerà con l'autore “morale”, anche se per titolo solo colposo, cosa che nel diritto civile non è affatto inconsueta. L'esempio potrebbe essere riportato agevolmente alla fattispecie del sindaco il quale ometta negligentemente i controlli doverosi, e così non intervenga a sventare la macchinazione ordita dall'amministratore, consapevole della probabile “neghittosità” del primo; grave sarebbe altrimenti l'indebolimento della funzione della responsabilità civile. Le massime del S.C. sul punto d'altro canto sembrerebbero addirittura contrarie, ed in senso esplicito, a tali ricostruzioni, per cui la mancata percezione di un grave illecito fa semmai presumere la responsabilità del sindaco).

E nel nostro settore? C'è invero materia quantomeno per dubitare della validità dell'assioma dominante, vorrei dire “consolidato” (v. però adesso, in senso esplicitamente contrario, Trib. Roma, 22 settembre 2015, cit.; Trib. Milano, 1 aprile 2016, in Giurisprudenza delle imprese. Cfr. adesso anche Trib. Torino, 6 aprile 2017, ivi), per cui a ciascuno vengono imputate esclusivamente le conseguenze dannose prodottesi nel periodo in cui è stato in carica.

Da qui predicare il ritorno al criterio del deficit fallimentare ovviamente il passo è lungo.

Ma non ci si può semplicemente sottrarre alla critica, proveniente dal diritto civile.

Il pregiudizio risarcibile, come noto, può essere costituito infatti anche dal danno futuro (la nozione presenta qualche parentela con quella del lucro cessante, ma non si esaurisce in essa; anzi, normalmente il danno futuro è danno “emergente”: cfr. S. Tolone Azzariti, Danno emergente e lucro cessante, in Il danno contrattuale, cit., 97 ss.), ossia quello che al momento della pronunzia si stima che ragionevolmente sarà prodotto in capo alla vittima, al termine di tutte le varie seriazioni causali, anche se non ancora esaurite.

E danno futuro è precisamente quel danno-conseguenza che sia in correlazione causale con la condotta, anche se il processo causale che lo provoca si inneschi in ipotesi in modo ritardato.

Il sindaco che si dimetta dalla sua carica, in un certo momento ove il dissesto è già in atto, e magari motivi il suo gesto addebitando ai colleghi dello stesso collegio, e/o agli amministratori, di non avergli permesso di esercitare con pienezza le sue funzioni, che addirittura enfatizzi l'esistenza di un “sistema di illegalità endemica e diffusa” nella gestione della società, difficilmente potrà poi negare, anche per la natura qualificata della posizione di garanzia di cui è onerato, di avere con ciò contribuito, con tipica causalità omissiva, all'aggravamento del danno successivo al suo egresso, quando invece andando a fondo ed esercitando tutti i poteri connessi alla carica (art. 2403-bis c.c.) avrebbe potuto provocare l'arresto di tali situazioni pregiudizievoli (cfr. di recente, per la decisa affermazione per cui le dimissioni in questi casi non concretizzano la condotta doverosa, anche alla luce della importanza degli interessi esterni tutelati dalla funzione di controllo sindacale, Cass., 29 dicembre 2017, n. 31204).

Di più, la permanenza delle stesse condizioni di illiceità, e quindi l'aggravamento del danno, anche dopo la sua uscita, appaiono perfettamente “prevedibili” tanto nel senso dell'art. 1223 c.c. quanto dell'art. 1225 (ed anche soggettivamente); e questo proprio alla luce della motivazione addotta per il proprio egresso, rectius della situazione oggettiva preesistente.

Lo stesso è a dirsi, e con maggior vigore, per l'amministratore che inneschi la sequenza causale pregiudizievole, sfruttando la propria condizione di “supremazia” all'interno dell'organizzazione della società, e poi si faccia sostituire nella carica: a lui saranno imputabili anche le conseguenze dannose future, questa volta (con)causate con condotta attiva; ma senza escludere la responsabilità concorrente, attiva od omissiva, di chi gli sopravvenga, anche se l'illecito sia perpetrato con dolo.

Se però l'aggravamento del deterioramento patrimoniale susseguente al dissesto sarà agevolmente da porsi in correlazione con la condotta dell'organo ormai cessato, per lo stesso motivo per cui da quella condotta è lecito presumere, in termini di “regolarità causale”, un danno (cfr., per talune fattispecie in cui la giurisprudenza considera normale presumere da certe condotte la causazione di un danno, inteso come danno-evento, Bona, op. cit., 39) ed anche perché se erano in atto prima condotte tese ad occultare la situazione, così da disattivare i poteri di reazione di cui taluni gatekeepers dispongono, è presumibile che esse proseguano dopo, non altrettanto potrà dirsi per quelle condotte specifiche, ad es. di natura distrattiva, che gli amministratori, anche di fatto, compiano dopo l'egresso del convenuto.

Può dirsi infatti che sia forse non sorprendente che il soggetto economico dell'impresa dissestata, in condizioni dunque di spinta massima dell'azzardo morale, ponga in essere condotte depauperative di questo tipo, ma non mi pare che sia predicabile un nesso di “regolarità statistica” fra le due situazioni (né forse che lo stesso sia “prevedibile” ex art. 1225 c.c.).

Ed anche il danno da aggravamento del dissesto, scaturito dalla prosecuzione dell'attività caratteristica e dalla necessità di addebitare il patrimonio netto delle perdite di gestione così prodottesi, non può ritenersi a mio avviso più imputabile anche ai titolari degli organi precedenti quando molto tempo dal loro egresso sia trascorso, e soprattutto dopo che il dissesto sia divenuto clamoroso (ad es. quando la società sia sciolta, e pubblichi bilanci esponenti patrimoni netti negativi, situazione che in genere fa decorrere altresì il termine di prescrizione in relazione all'art. 2394 c.c.), ed eppure nessuno provochi il discessus fallimentare; la successiva condotta omissiva dei legittimati, infatti, in questi casi, ritengo acquisisca una rilevanza “assorbente” del fattore concausale precedente, sì da eliderlo.

Dunque in questi casi mi pare che l'imputazione all'ex organo delle conseguenze pregiudizievoli sopravvenute debba riguardare i soli effetti direttamente connessi alla prosecuzione dell'attività, in termini di perdita incrementale (“netta”, come visto supra) sino alla apparenza “conclamata” del dissesto, senza dimenticare le componenti svalutative legate alle perdite di valore di assets che avrebbero potuto essere più convenientemente e tempestivamente liquidati; ed escludendo comunque gli effetti negativi di condotte degli amministratori ex ante non prevedibili.

Anche in questo caso, comunque, si tratta di conclusioni da assumere cum grano salis, sulla base dell'id quod plerumque accidit, poiché solo l'analisi in concreto della situazione nella sua complessità potrà determinare con esattezza la conclusione; come del resto sempre deve accadere quando si maneggia la causalità “giuridica”.

Così, ad es., se il processo causale che condurrà all'effetto distrattivo sia già in essere allorquando l'ex organo valuta la “dipartita”, ad es. perché è già stato posto in essere il rapporto negoziale la cui attuazione condurrà alla lesione, difficilmente anche tali conseguenze, pur maturate ex post, potranno non essere ascritte alla responsabilità dell'agente; beninteso, qualora esso sia “imputabile”, ossia se egli fosse in grado di percepire l'illegittimità in fieri.

Senza dimenticare la possibilità (su cui ci siamo già soffermati supra, e sulla quale tuttavia la dottrina civilistica manifesta una certa avversione: v. ad es. Bona, op. cit., 52 ss.) per il Giudice che applichi l'art. 1226 c.c., anche d'ufficio, di ridurre l'entità astratta del risarcimento così quantificato, applicando ad es. un tasso demoltiplicatore che aumenti in relazione al tempo trascorso dall'egresso.

Il danno derivante da condotte preferenziali

Un tipico banco di prova per la ricostruzione sistematica delle azioni di responsabilità è costituito dal pagamento di debito effettuato dall'amministratore nella consapevolezza dell'insolvenza della società, e della potenzialità dannosa per i creditori di tale condotta.

Le fattispecie più frequenti attengono al pagamento di debiti sociali sorti verso lo stesso amministratore (ad es. compensi, pur oggetto di regolari deliberati assembleari, o restituzione di somme in precedenza anticipate dallo stesso alla società), oppure garantiti dallo stesso a beneficio di terzi creditori specifici, sì da evidenziare un interesse egoistico ed esclusivo dell'agente all'estinzione della passività.

Si tratta come è noto di un comportamento che può integrare il delitto di bancarotta preferenziale (art. 216, comma 2, l.fall.), punibile anche nei confronti del creditore, se questo fornisca un contributo “qualificato”, che vada al di là della condotta “tipica” prevista dalla norma penale. Va altresì precisato che nella giurisprudenza penale il pagamento non deve necessariamente riguardare un credito chirografario, atteso che la lesione della par condicio creditorum può avvenire anche mediante il pagamento di un creditore privilegiato, se ciò determini la postergazione di quest'ultimo nel riparto a vantaggio di un altro che non dovesse essergli preferito per legge.

Le trattazioni manualistiche e generali in genere non affrontano un'altra importante fattispecie, che pure viene ricondotta (sia pur con accese discussioni in dottrina: v. Cass. pen., 2 marzo 2004, n. 16688. Per alcuni scritti critici dell'assunto interpretativo v. i contributi di C. Vinciguerra, in Giur. it., 2002, c. 1259; R. Bricchetti, in Dir. e prat. soc., 2000, fasc. 11, 91; G. Flora, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998, 93).alla bancarotta preferenziale, per “simulazione di privilegi”: quella della “trasformazione” di un credito chirografario in privilegiato, sovente realizzata mediante l'erogazione di un finanziamento assistito da privilegio speciale, il cui importo sia utilizzato al fine di estinguere un precedente debito chirografario, o comunque postergato nell'ordine delle cause legittime di prelazione ( il fenomeno può essere integrato, secondo la S.C., anche là dove il finanziamento sia erogato da un soggetto terzo rispetto al debitore originario, quando la provvista sia stata comunque erogata in modo da estinguere il debito di quest'ultimo; in questi casi il finanziato si troverà ad essere al contempo creditore del debitore originario, per causa ancora di finanziamento. All'origine ci può essere anche un mandato di credito dissimulato del creditore originario al terzo a vantaggio del debitore originario, ma questo ha poca importanza ai nostri fini).

In entrambi i casi l'atto è sicuramente revocabile (la S.C. sembra escludere altresì che l'atto possa essere nullo, benché sia accertata la violazione dell'art. 216, comma 3, l.fall.: cfr. Cass., 28 settembre 2016, n. 19196), nel primo caso pianamente, ai sensi dell'art. 67, comma 2, l.fall., e nell'altro come atto “anomalo” (artt. 64- 67, comma 1, l.f.), o comunque come atto “in frode” ex artt. 2901 c.c. – 66 l.fall. (cfr. Cass., 9 ottobre 2012, n. 17200: “la stipula di un mutuo con concessione d'ipoteca al solo fine di garantire ex novo con l'erogazione di somme destinate ad affluire, per accordi e prefinanziamenti precedenti e per il tramite di un terzo, nelle stesse casse della banca mutuante, l'esposizione verso lo stesso soggetto o di terzi, configura un collegamento funzionale fra negozi giuridici nel quale si individua un motivo illecito, la cui persecuzione integra causa di revocabilità dell'atto”. Conff. Cass., 28 gennaio 2013, n. 1807; Id., 13 settembre 2013, n. 21020; Id., 1 ottobre 2007, n. 20622; Id., n. 11495/1997; Trib. Rimini, 27 ottobre 2014. Tale impostazione ha costituito il punto di approdo della giurisprudenza della S.C., attraverso tre sentenze che presentano coincidenti motivazioni - Cass., 29 febbraio 2016, n. 3955; Id., 15 marzo 2016, n. 5087; Id., 1 aprile 2016, n. 7321 -: “l'erogazione di un mutuo ipotecario non destinato a creare un'effettiva disponibilità nel mutuatario, già debitore in virtù di un rapporto obbligatorio non assistito da garanzia reale, non integra necessariamente né le fattispecie della simulazione del mutuo (con dissimulazione della concessione di una garanzia per un debito preesistente) \chirografario con un debito garantito). Essa può integrare, invece, e normalmente integra una fattispecie di procedimento negoziale indiretto, nel cui ambito il mutuo ipotecario viene erogato realmente e viene utilizzato per l'estinzione del precedente debito chirografario”. Le medesime sentenze si fanno carico poi della possibilità astratta di rinvenire nell'operazione una causa meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, soprattutto alla luce delle riforme del diritto concorsuale, e del recente favor manifestato dal Legislatore per le ristrutturazioni finanziarie. Così “il ricorso al credito come strumento di ristrutturazione del debito cui del resto si rivolge l'attuale normativa a mezzo degli attuali artt. 182-bis e 182-quater L. Fall., consente di rinegoziare i finanziamenti bancari anche nei riguardi di debiti scaduti. E di simile condizione, involgente ambiti di economia reale, va preso atto. Ma l'elemento caratteristico di siffatto tipo di ricorso al credito è che segua effettivamente, poi, l'erogazione di nuova liquidità da parte della banca, funzionale non solo (e non tanto), quindi, all'azzeramento della preesistente esposizione debitoria, tutelando la banca mediante un'ipoteca configurabile come garanzia non contestuale, ma a rimodulare, per il tramite di nuove condizioni negoziali per esempio afferenti il tasso di interesse o rinnovate tempistiche dei pagamenti, l'assetto complessivo del debito nel contesto di una nuova veste giuridico-economica degli anteriori rapporti. In ciò può concretamente stabilirsi il discrimine tra le due tipologie di operazioni, costituito dalla preesistenza o meno del rischio di credito effettivamente assunto dalla banca. La quale banca, laddove eroghi effettivamente nuova liquidità al debitore, nel contesto di un'operazione non distorta e non preordinata a estinguere semplicemente l'obbligazione pregressa ripianando, con l'ipoteca, il rischio di credito male apprezzato al momento della sua insorgenza, si conforma alla sua funzione economica istituzionale munendo l'impresa di nuove risorse suscettibili di rifinanziarla; funzione in tal caso connaturata all'essere il finanziamento, cui accede l'ipoteca, destinato per l'appunto ad assicurare ulteriori disponibilità al debitore in conformità alle regole di corretta gestione di un rischio contestualmente assunto e, per questo, nuovo”. L'orientamento del 2016 si è poi consolidato anche attraverso una serie di pronunzie ad es. del 2018).

Ma qua si tratta di valutare se esso concretizzi altresì un illecito civilistico, e se sì di quali conseguenze pregiudizievoli debba eventualmente rispondere l'agente.

La non perfetta sovrapposizione fra revocatoria e preferenzialità del resto è già dimostrata dall'adesione della S.C. alla concezione “antindennitaria” della revocatoria fallimentare (cfr. Cass., Sez. Un., 28 marzo 2008, n. 7028) sicché il pagamento, anche di debito privilegiato, è sempre revocabile, anche se esso non vada concretamente a pregiudicare la Massa, pur potendosi al limite porre un problema di interesse ad agire della Curatela in revocatoria, nei casi ove certamente il riparto consentirà di pagare integralmente tutti i creditori antergati e equiordinati nell'ordine dei privilegi(cfr. sul punto di recente Trib. Milano, 26 maggio 2017, in Unijuris. Ma in realtà è sempre - nel diritto fallimentare riformato soltanto entro un anno dalla dichiarazione di esecutività - teoricamente possibile che si insinui allo stato passivo un creditore antergato, ovvero, rectius, non postergato, potrebbe forse trattarsi anche di una prededuzione-, motivazione sulla base della quale la S.C. non sembra lasciare molto scampo a tali eccezioni in rito. Andrebbe poi forse anche rilevato come la procedura fallimentare possa avere interesse anche a finanziare, attraverso i proventi delle revocatorie, il compimento di azioni ricostruttive od accrescitive del patrimonio del fallito, cosicché all'esito delle iniziative programmate l'attivo disponibile per la ripartizione sia più ampio; ciò a mio avviso è sufficiente a fondare, anche in via presuntiva, l'interesse ad agire della curatela; diversamente l'interesse assunto a base della revocatoria verrebbe a costituire una mera ipostasi, per di più afferente ad una concezione meramente “statica” e superata della procedura, come mero strumento per la liquidazione di attivi e la ripartizione del ricavato).

Ma sembra indiscutibile che un comportamento considerato illecito dal diritto penale non possa essere di converso assunto come lecito per il diritto civile, e questo a prescindere dal problema, nient'affatto semplice da risolvere, e che certo non troverà soluzione in questa sede, se in qualsiasi atto revocabile sia comunque insito anche un illecito civile, quantomeno ai sensi dell'art. 2043 c.c.; ciò però non implica ancora che l'atto comporti un danno risarcibile, tanto in termini di danno-evento, quanto soprattutto di danno-conseguenze.

La giurisprudenza di merito che aveva affrontato ex professo il tema aveva per lo più fornito una risposta negativa (tale orientamento è costante tanto per il Tribunale delle Imprese di Milano - sentt. 22 dicembre 2010, in Società, 2011, 757, e 18 gennaio 2011, in Fallimento, 2011, 588; Id., 7 ottobre 2016, in giurisprudenza delle imprese, la prima delle quali è stata confermata da App. Milano, 18 novembre 2013, oggetto di ricorso per Cassazione, che ha originato il caso su cui è stata richiesta la rimessione alle Sezioni Unite - quanto per quello di Roma - v. sent. 29 settembre 2015, in giurisprudenza delle imprese -. In senso differente, parrebbe, Trib. Firenze, 7 settembre 1995, in Giur. comm., 1996, II, 562, con nota contraria di Biagioli. L'orientamento milanese di cui sopra potrebbe forse apparire dissonante rispetto alla contestuale affermazione per cui sarebbe invece risarcibile alla Massa creditoria rappresentata dalla curatela il pagamento da parte dell'amministratore di un debito postergato ex art. 2467 c.c.: Trib. Milano, 26 ottobre 2015; Id., 21 aprile 2017 in giurisprudenza delle imprese; Trib. Roma, 1 giugno 2016, in Società, 2017, 41, con nota di Pecoraro: anche volendo ritenere detto credito inesigibile infatti, resta il fatto che sempre di un debito della società si tratta, sicché il patrimonio, anche in questi casi, non varia col pagamento; ma forse incide la circostanza per cui l'estinzione del credito postergato danneggia tutti i creditori non parimenti subordinati. Il tema è raramente oggetto di attenzione in dottrina: v. tuttavia di recente per un cenno G. Facci, op. cit., 309 s.): il pagamento infatti non potrebbe arrecare un pregiudizio al patrimonio sociale, dato che esso elide contemporaneamente tanto l'attivo utilizzato per estinguere il debito, quanto il passivo rappresentato da quest'ultimo; inoltre il pregiudizio semmai è arrecato ad una parte soltanto dei creditori (quelli concretamente lesi, ossia per i quali il riparto finale sia diminuito a causa della liquidità erogata in favore del preferito), e non a tutta la Massa.

Ne scaturirebbe altresì un difetto di legittimazione del curatore, che non potrebbe agire ai sensi dell'art. 2394 c.c., e non godrebbe di strumenti processuali che lo abilitino a rappresentare e sostituire singoli creditori, o singoli gruppi di essi; legittimati sarebbero piuttosto i singoli creditori, ai sensi degli artt. 2395- 2476 c.c.

Sulla questione è stata richiesta di recente la rimessione alle Sezioni Unite (v. l'ord. 26 luglio 2016, n. 28166), sul presupposto per cui viene tradizionalmente ammessa la costituzione di parte civile della curatela fallimentare nel processo per bancarotta preferenziale (art. 240 c.p.), e sarebbe irragionevole predicare la legittimazione del singolo creditore, quando la lesione da lui rivendicata atterrebbe al patrimonio sociale, e quindi non sarebbe “immediata e diretta” ex art. 1223 c.c.; in ultima analisi poi il creditore sarebbe titolare di una posizione giuridica attiva, di natura pretensiva al rispetto degli artt. 2740 e 2741 c.c., e la lesione di tale posizione andrebbe a colpire nello stesso modo tutti i creditori, riducendo il patrimonio concretamente distribuibile per gli stessi (in tal senso, sia pur dubitativamente, anche S. Turelli, Gestione dell'impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012, 187).

Le Sezioni Unite (dopo aver fondato la legittimazione della Curatela sulla natura “unitaria” della possibilità per la curatela di agire al fine di ottenere il ristoro del danno, tanto in sede penale quanto civile; di recente tuttavia il Tribunale delle Imprese di Milano non ha riconosciuto la legittimazione del commissario giudiziale ad instare in sede civile per il risarcimento del danno subito dalla Massa creditoria, nonostante la possibilità espressamente riconosciuta di costituirsi parte civile nel giudizio penale: Trib. Milano, 3 novembre 2017, in giurisprudenza delle imprese). hanno indiscutibilmente accolto tale ultima prospettazione, all'inizio del 2017 (Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2017, n. 1641, in Fallimento, 2017, 660, con nota di Balestra; in Società, 2017, 595, con nota di Fauceglia; in Corr. giur., 2018, 667, con nota di Fanciaresi; cfr anche N. De Luca, Pagamenti preferenziali e azioni di responsabilità. Spunti di riflessione, in Fallimento, 2018, 945 ss.) con affermazioni forse fin troppo “lapidarie” nella motivazione: “in definitiva il disconoscimento della legittimazione attiva del curatore fallimentare da parte dei giudici del merito si fonda sull'assunto che il pagamento preferenziale possa arrecare un danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, perché si tratta di operazione neutra per il patrimonio sociale, che vede diminuire l'attivo in misura esattamente pari alla diminuzione del passivo conseguente all'estinzione del debito. Si tratta tuttavia di assunto palesemente erroneo, perché il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori. Infatti la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare. Tanto che, secondo la giurisprudenza di questa corte, in tema di revocatoria fallimentare, la legge in nessun caso richiede l'accertamento di un'effettiva incidenza dell'atto che ne è oggetto sulla par condicio creditorum, sicché è evidente che la funzione dell'azione revocatoria fallimentare è esclusivamente quella di ricondurre al concorso chi se ne sia sottratto… del resto, anche dal punto di vista strettamente contabile, il pagamento di un creditore in misura superiore a quella che otterrebbe in sede concorsuale comporta per la massa dei creditori una minore disponibilità patrimoniale cagionata appunto dall'inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in funzione di garanzia dei creditori … essendo evidentemente il depauperamento del patrimonio sociale conseguenza necessaria del riconosciuto aggravamento del dissesto, la sentenza d'appello è palesemente contraddittoria. Infatti l'aggravamento del dissesto, per cui i C. hanno ammesso la propria responsabilità, non può esservi senza il depauperamento del patrimonio sociale”.

La problematica, pur se forse ormai “risolta” sul piano applicativo dalla pronunzia delle Sezioni Unite, mette in realtà in evidenza uno dei limiti della concezione “tradizionale” del patrimonio sociale, ed è quindi comunque opportuno trattarla in modo più analitico.

Non v'è dubbio infatti che da un punto di vista contabile il patrimonio sociale non diminuisca, né per effetto del pagamento, né della “trasformazione” di un debito chirografario in uno privilegiato: ciò che muta è soltanto una “qualità” dello stesso, soprattutto nel secondo caso, in cui addirittura i saldi dell'attivo e del passivo restano numericamente invariati. L'accoglimento nella teoria del danno civile della c.d. teoria della differenza (cfr. per tutti S. Tolone Azzariti, op. cit., 101 ss.; M. Franzoni, op. cit., 1993, 826 ss.9 non sembrerebbe dunque lasciare scampo alle ragioni delle curatele.

E non v'è parimenti dubbio che il Curatore non sia istituzionalmente legittimato ad intraprendere azioni nell'interesse di singoli creditori, od anche di gruppi omogenei di essi; di più, il curatore può agire in sostituzione e rappresentanza dei creditori, anche intesi come Massa nel loro complesso, soltanto nei casi tipici ed espressamente individuati dalla legge (e questo perché le azioni “di massa”, secondo l'orientamento ancora largamente prevalente, sono e restano “tipiche”).

Uno di questi casi è rappresentato dall'art. 2394 c.c., in forza del rinvio contenuto negli artt. 2394-bis e 146 l.fall. (strumento giuridico non a caso percepito come “necessario” anche in tema di s.r.l.); ma nel caso prospettato, ad un primo esame, il danno, inteso come conseguenza, si materializza direttamente in capo ad un creditore, oppure ad una serie omogenea di essi (ad es. il ceto chirografario, oppure il ceto privilegiato, se il riparto non conduca a nessun pagamento per i primi, e il pagamento diminuisca le aspettative di realizzo dei secondi).

Ma nel caso dell'atto “preferenziale”, come si è visto, non è l'intera Massa creditoria a rivendicare un danno, bensì tutt'al più una partizione della stessa.

Il sistema vigente dunque non sembrerebbe poter tutelare queste posizioni, almeno non attraverso l'operato del curatore del fallimento.

Tant'è vero che l'unica risposta che la legge fallimentare riesce a dare per quei casi in cui determinati debiti insistano solo su certi beni del debitore fallito, ad es. per il fondo patrimoniale, è l'espulsione di quei beni (e di quelle passività) dal concorso (art. 46, n. 3, l.fall.), non la formazione di masse separate (si v. tuttavia, per una differente proposta ricostruttiva, il mio Stato passivo o riparto? La “frantumazione” dell'idea di responsabilità, in corso di pubblicazione); nel caso delle società di persone invece (art. 148 l.fall.) il Legislatore ha evitato di dare luogo ad una procedura unica, con masse attive e passive separate per la società e per ciascun socio, ed ha invece concepito più fallimenti fra di loro separati, anche se “collegati”.

Resterebbero invece azionabili le relative pretese da parte dei singoli creditori, posto che in realtà la lesione si materializza proprio nei loro rispettivi patrimoni, come avviene nei casi più classici di lesione del credito, secondo criteri di “regolarità causale”.

Eppure, tale conclusione non sembra del tutto tranquillizzante, né tantomeno appagante. Il che non vuol dire però che sia neppure valida la soluzione data di recente al problema dalle Sezioni Unite, che pare invero abbastanza semplicistica.

La sensazione è che le conclusioni formulate dalla giurisprudenza di merito sino al dictum delle Sezioni Unite si basassero su due presupposti taciti: che danneggiati debbano essere comunque i creditori, e che il danno al patrimonio sociale vada inteso in termini di mera differenza aritmetica fra i valori “netti” prima e dopo l'illecito.

Il primo assunto è meramente convenzionale, ma non lo metteremo qua in discussione; certo la legge fallimentare vigente non sembra dedicare troppa attenzione alle possibili frazioni del ceto creditorio, anche se quest'affermazione non è così salda ed assoluta come potrebbe sembrare: l'art. 66 l.fall. infatti consente di esercitare l'azione revocatoria “ordinaria” sulla base della sola condizione per cui almeno un creditore precedente all'atto revocando (ed ammesso allo stato passivo) sia stato pregiudicato; ma il ricavato deve essere ripartito fra tutti i creditori della Massa, senza distinzioni; ed anche l'art. 2394 c.c. in fondo tutela nello stesso modo i creditori antecedenti e susseguenti al dissesto sociale, anche se il modo in cui essi sono pregiudicati non è affatto identico (i primi sono lesi solo nel diritto al riparto, mentre gli altri lo sono anche nella loro libertà di autodeterminarsi in relazione alla decisione se finanziare il fallendo); qualche indizio di segno contrario si potrebbe rinvenire anche nella disciplina dei patrimoni destinati; e la stessa nuova disciplina delle “classi” creditorie indubbiamente mina alla base la monoliticità della “massa creditoria”. Ma da qui ad ipotizzare azioni “di serie” atipiche, esercitabili a tutela di singole partizioni della Massa, quando poi difetterebbero strumenti normativi idonei ad orientare e canalizzare la distribuzione di quanto eventualmente ricavato, il passo è anche in questo caso più lungo del previsto.

Il secondo assunto però non sembra allineato con le acquisizioni più recenti del diritto e della responsabilità civile, e qua invece vale la pena di soffermarsi.

In realtà infatti la giurisprudenza che governa quotidianamente la responsabilità civile non considera più da tempo il patrimonio del danneggiato come un'entità astratta, che debba essere ripristinata dopo la lesione in modo da riportarlo allo stesso identico livello quantitativo precedente all'illecito (l'assunto tradizionale appare notoriamente già minato dalla normale incidenza per il diritto del lucro cessante, che sfugge alla logica “meccanica” della differenza aritmetica) : questa concezione infatti è stata superata definitivamente quando è stato compreso che il danno scaturisce anche da lesioni di facoltà che non sono misurabili all'interno del patrimonio, anche se ne fanno parte, facoltà che attribuivano al danneggiato delle utilità che comunque vanno ristorate.

Nella moderna teoria della responsabilità civile la “patrimonialità” viene intesa con riferimento alle conseguenze dell'illecito, non al bene leso in sé (cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., 27 gennaio 2010, n. 1688; Id., 5 luglio 2002, n. 9740: “il carattere patrimoniale del danno riguarda non solo l'accertamento di un saldo negativo nello stato patrimoniale del danneggiato ma anche l'incidenza in concreto di una diminuzione dei valori e delle utilità (suscettibili secondo una valutazione tipica, che si riflette sul "quantum" risarcitorio, di commisurazione in denaro) di cui il medesimo può disporre, costituendo il patrimonio, ai fini in considerazione, quell'insieme di beni, valori e utilità tra loro collegati sotto il profilo e mediante un criterio funzionale. Ne consegue che il carattere della patrimonialità, che attiene al danno e non al bene leso dal fatto dannoso, non implica sempre e necessariamente un esborso monetario nè una perdita di reddito o prezzo, potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato”) e dunque è possibile che il risarcimento debba ristorare quelle utilità perse, attribuendo al danneggiato “compensazioni” economiche, necessarie a restaurare la situazione anteatta della vittima, che pur elevino il livello numerico del suo patrimonio rispetto al pregresso.

Per fare un esempio banale, la vittima che riporti il danneggiamento di un veicolo può normalmente essere ristorata mediante l'erogazione di una somma sufficiente a comprarne un altro equiparabile a quello danneggiato; ma questo accade solo se si tratti di un bene fungibile e reperibile facilmente sul mercato; qualora invece il bene non sia “rimpiazzabile” in questo modo (ad es. perché si tratta di un prototipo, oppure di un veicolo fuori produzione e fuori mercato), è giocoforza misurare e risarcire il danno in modo differente, attribuendo ad es. al danneggiato una somma di denaro che ragguagli non già il “valore venale” del bene, bensì l'esborso necessario per costruirne uno simile. E ciò senza violare il principio per cui il risarcimento deve essere “compensativo”, e non già “punitivo”, né contravvenendo alla teoria “della differenza”, ma solo adattando i concetti all'evoluzione degli stessi e della percezione “sociale” del danno, assecondando l'esigenza normativa profonda per cui tutto il danno deve essere risarcito (v. ancora M. Franzoni e S. Tolone Azzariti, opp. locc. ultt. citt.).

Dunque il fatto che il pagamento appaia neutro sotto il profilo patrimoniale, rectius sotto il profilo “aritmetico” del patrimonio, non dice ancora granché circa la ricorrenza di un danno risarcibile.

Ma questo ancora non è sufficiente per addivenire ad una conclusione finale differente da quella “classica”; occorre altresì individuare degli specifici danni- conseguenza, di natura patrimoniale, che siano sofferti però non dai singoli creditori (per i limiti di cui sopra), ma direttamente dal patrimonio sociale.

Non necessariamente ciò deve scaturire da un medesimo danno-evento, secondo il classico schema “a raggiera”, per cui dal primo discendono le conseguenze risarcibili. E' possibile infatti che alla stessa condotta seguano danni-evento diversi, anche in capo a soggetti lesi differenti, e danni-conseguenza pure distinti.

Una prima conseguenza risarcibile che sembra possibile mettere in correlazione con il pagamento “preferenziale” scaturisce dalla diminuzione della liquidità conseguente al pagamento (tipico danno-evento, eppure ancora neutro sul piano patrimoniale, in senso “aritmetico”), con conseguente impossibilità di saldare debiti, scaduti, il cui inadempimento comporti per legge conseguenze sfavorevoli per la società: ad es. debiti tributari, previdenziali, con riferimento a sanzioni (sono debitore di questa osservazione, che non mi pare di rinvenire nella letteratura edita, verso l'amico Luca Bertozzi) ed interessi (per quanto già detto sopra, infatti, non pare che il decorrere degli interessi sia del tutto neutro ai nostri fini: l'anticipazione della condotta corretta infatti ne arresterebbe probabilmente il maturare prima di quanto sia altrimenti avvenuto), ma il discorso potrebbe essere forse generalizzato, in astratto, con riferimento ad eventuali debiti contrattuali, pur se di rango chirografario, assistiti da clausole penali e/o determinative di interessi convenzionali particolarmente “aggressive”.

Ciò presuppone tuttavia che, qualora l'agente avesse posto in essere la condotta alternativa corretta, vi sarebbe stata la possibilità di pagare piuttosto tali crediti, così evitando il pregiudizio evidenziato. Ossia, che le risorse impiegate in modo “preferenziale” sarebbero state più utilmente erogate al fine di estinguere le passività di cui sopra.

Ma ciò non potrebbe dirsi ad es. se nell'ipotesi alternativa “desiderabile”, quella ad es. in cui il patrimonio della società viene liquidato “ordinatamente” con modalità ordinarie (anche se del caso ricorrendo ad una regolazione “stragiudiziale” della crisi), oppure se la società viene tempestivamente assoggettata a fallimento o concordato, non sarebbe comunque stato ragionevole pagare quei debiti, stante la radicale “insufficienza” dell'attivo.

Occorre insomma, more solito, una valutazione complessiva della situazione, ed in particolare di tutti i fattori concausali e delle alternative controfattuali (valutazione nel frangente di particolare complessità, attesa la molteplicità dei fattori concausali che operano nelle condizioni di crisi: ad es. se l'attivo fosse comunque ab origine “insufficiente”, può dirsi che l'agente debba andare esente dalle conseguenze del pagamento qualora egli abbia provocato il dissesto, oppure ne abbia concausato l'aggravamento rendendolo concretamente insufficiente alla bisogna ? Senza dimenticare che in questi casi comunque l'agente risponderà normalmente delle conseguenze della prosecuzione dell'attività, e dunque sarà responsabile dell'insorgere di quel nuovo debito, e dei suoi accessori, prima ancora che della estinzione “preferenziale” dell'altro).

Sul piano della distribuzione degli oneri processuali pare poi che alla curatela incomba di dimostrare il pagamento preferenziale, l'aggravamento del passivo che ne è scaturito, e la insufficienza attuale dell'attivo distribuibile; sarà invece l'amministratore, in ossequio al canone di cui all'art. 1218 c.c., a dover allegare e dimostrare che in ogni caso non vi sarebbe stato modo di estinguere precocemente quelle passività, evitando così l'aumento del passivo che ne è scaturito.

Un'altra fattispecie di danno-evento rilevante potrebbe rinvenirsi là dove del debito estinto sia titolare un creditore che abbia manifestato particolare “aggressività” nel tutelarsi, ad es. chiedendo ed ottenendo un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, instando in executivis, od addirittura per il fallimento.

In tal modo infatti l'amministratore può evitare che il dissesto già in atto divenga conclamato, e così differire il fallimento, o comunque il trattamento “concorsuale” della crisi; la conclusione appare pacifica qualora il pagamento preferenziale attenga al creditore instante per il fallimento.

Qualora dunque appaia ragionevole presumere che il mancato pagamento avrebbe anticipato l'emersione del dissesto, onere la cui prova incomberà normalmente sulla curatela (onere non agevolissimo, se non nei casi in cui l'istanza di fallimento sia già pendente e si possa argomentare che la stessa sarebbe stata accolta dal Tribunale; dovendosi altrimenti evidenziare come l'attivazione degli strumenti esecutivi non avrebbe consentito al creditore di trovare soddisfazione, inducendolo così ad instare per il fallimento), ma anche sulla base delle note tecniche “inferenziali”, sarà possibile ricavarne che le conseguenze della prosecuzione ulteriore dell'attività sono addebitabili all'autore del pagamento; il quale tuttavia dovrebbe probabilmente già risponderne autonomamente; il pagamento preferenziale dunque si inserirà nel processo eziologico in discorso, aggravando la posizione dell'amministratore, il cui contributo causale all'aggravamento del dissesto risulterà così rafforzato.

Infine, nel caso della “trasformazione” di debito chirografario in privilegiato, ci si deve indagare su quale significato concretamente pregiudizievole possa rivestire tale evento, costituito da una modificazione qualitativa del patrimonio sociale, sicuramente in senso peggiorativo.

Il vincolo così creato rispetto ad un asset contenuto nel patrimonio sociale può infatti ostacolare od addirittura impedire future ristrutturazioni del passivo, perseguite o tramite strumenti stragiudiziali, od addirittura tramite rimedi concorsuali: ad es, impedendo in futuro di reperire finanziatori disponibili ad erogare le somme necessarie, disponibili per cassa e finalizzate a finanziare nuovi processi produttivi (a differenza delle attribuzioni che si realizzano nell'operazione di “trasformazione” descritta, che non sono rilevanti dal punto di vista finanziario, e non generano flussi di cassa per la società)(nel caso del finanziamento assunto al fine di estinguere un debito di terzi, tipicamente di una società facente parte dello stesso gruppo, invece, l'operazione comporta anche un impiego di risorse a vantaggio di un soggetto che teoricamente dovrebbe restituire le somme ricevute; qualora ciò non sia possibile, e sia mancata un'adeguata preliminare valutazione della capacità di rimborso, il fatto sarà di per sé e per ciò solo illecito e pregiudizievole: cfr. Cass., 27 dicembre 2013, n. 28669 : “qualora l'amministratore di una società conceda un apporto economico in favore di un terzo soggetto ed indipendentemente dalla configurazione giuridica di tale apporto, in caso di perdita dell'apporto stesso, è censurabile la condotta dell'amministratore che non abbia predisposto al riguardo idonee cautele dal momento che, se è vero che all'amministratore non può essere rimproverato il cattivo uso della discrezionalità imprenditoriale, in quanto il merito dell'agire gestorio resta insindacabile, tuttavia rientra nell'ambito della diligenza esigibile il corredare la scelte medesime con le verifiche, le indagini e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quella natura, alle condizioni di tempo e di luogo ed alla luce di ogni altra circostanza concreta”; conf. di recente Cass., 22 giugno 2017, n. 15470. Il pregiudizio dunque sarà addirittura duplice).

Con un onere della prova non agevole da parte della procedura attrice, ma neanche impossibile: si pensi ad es. alla impossibilità di assemblare una domanda di concordato per insufficienza dell'attivo disponibile al fine di attribuire una percentuale rilevante ai creditori chirografari (ad es. a causa dell'impossibilità di “assicurare” il pagamento del 20%), dovuta alla necessità di pagare integralmente il creditore così “privilegiato”.

E si noti come in taluni casi fra quelli evidenziati il danno-conseguenza sia riportato dal patrimonio sociale, e dunque sia rivendicabile soltanto attraverso un'azione “sociale”, laddove in altri (come quando si prolunga l'agonia finanziaria della società) esso sia avvertito anche dall'intera Massa dei creditori, e dunque possa essere azionato in giudizio anche ex art. 2394 c.c.; il che non deve sorprendere, giacché come si è già detto alla medesima condotta possono ricollegarsi danni-evento differenti, e danni-conseguenza pure differenziati.

Il danno derivante da perdita di azioni revocatorie

Un problema intrinsecamente connesso al precedente attiene alla possibilità per la curatela di dolersi della perdita di azioni revocatorie che avrebbe potuto in teoria esercitare, qualora il concorso fosse stato aperto con anticipo rispetto a quanto concretamente accaduto, per effetto del reprensibile ritardo degli organi sociali.

Anche in questo caso le pronunzie disponibili sono davvero poche, pur se nella prassi operative della curatela il danno da “perdita di revocatorie” costituisce una sorta di “mito”, sempre affermato, ma quasi mai concretamente internalizzato (si rammenta ad es. il caso “Italgrani/Casillo”, il cui epilogo tuttavia non fu favorevole alla procedura).

La fattispecie si contraddistingue per essere ancora più difficilmente trattabile con i canoni tradizionali: qui la concezione “aritmetica” del patrimonio ha infatti scarse possibilità di operare, atteso che non solo la revocatoria costituisce uno strumento di reintegrazione della garanzia che non influisce astrattamente sul quantum del patrimonio, stante l'aumento pure del passivo che (dovrebbe) scaturire dall'ammissione allo stato passivo del revocato ai sensi dell'art. 71 l.fall.; ma soprattutto, non si tratta nemmeno di “utilità” realmente presenti nel patrimonio del debitore in bonis, venendo tali azioni ad esistenza soltanto con l'apertura del concorso (arg. ex art. 24 l.fall.)(il discorso ovviamente è diverso per la revocatoria “ordinaria” esercitabile pur nel fallimento (art. 66 l.fall.); soltanto da tale momento, d'altro canto, inizia a decorrere il relativo termine di prescrizione, proprio perché prima il diritto non esiste, e quindi non “può” essere fatto valere (arg. ex art. 2935 c.c.).

L'azione sociale dunque non potrebbe intercettare alcun diritto della società che sia stato leso, e così pure l'azione dei creditori, atteso che il mancato esercizio di dette azioni non può essere mai ciò che ha provocato l'insufficienza del patrimonio, né ciò che l'ha aggravato.

Dette azioni (di responsabilità) infatti non “nascono” dal fallimento, ma semplicemente il curatore le “trova” nel patrimonio sociale e nella sfera soggettiva dei creditori, nella quale subentra in modo esclusivo per effetto dell'apertura del concorso. Dunque se tale risarcimento non poteva essere richiesto prima del fallimento, dalla società e/o dai creditori, non vi dovrebbe essere motivo perché esso possa essere rivendicato dalla curatela dopo.

Anche le teoriche sulla lesione della c.d. chance risultano a prima vista poco compatibili con la situazione in discorso, atteso che la chance non costituisce la lesione di un diritto eventuale, potenziale, o futuro: essa è anzi una situazione attiva attualmente presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, che viene pregiudicata da una condotta del danneggiante (cfr. per tutti Bona, op. cit., 41 ss. In giurisprudenza cfr. il leading case deciso da Cass., Sez. Un., 5 marzo 1993, n. 2667; e più di recente Cass., 1 aprile 2017, n. 9571; Id., 1 marzo 2016, n. 4014; Id., 14 giugno 2011, n. 12961 Id., 13 aprile 2007, n. 8826) e dunque poco si attaglia apparentemente al caso dell'azione revocatoria (fallimentare), che non esiste neanche in forma potenziale nel patrimonio del debitore prima del fallimento.

Soprattutto, l'azione revocatoria non costituisce una utilità del debitore, posto che quest'ultimo mai potrà beneficiarne, al fine di accrescere il suo patrimonio (a questi specifici fini peraltro la natura fallimentare o “pauliana” dell'azione non rileva), non a caso le revocatorie non sono esperibili nel concordato preventivo (ove non c'è spossessamento se non in forma “attenuata”), e non possono essere cedute nel concordato fallimentare proposto dal debitore; anzi, in caso di chiusura del fallimento per qualsiasi causa il debitore resta vincolato verso il terzo all'adempimento dell'atto revocato; perché in nessun caso di essa il debitore può beneficiare.

Siamo dunque lontanissimi dall'idea del danno al patrimonio sociale.

Eppure, a prescindere dalla possibilità di richiamare talune dissertazioni, care alla civilistica, sul danno subito dal “nascituro”, nemmeno questa risposta sembra del tutto tranquillizzante.

Per i creditori sociali infatti, a differenza che per il debitore, la esperibilità degli strumenti giuridici di conservazione e di reintegrazione della garanzia patrimoniale, costituisce molto di più di una legittima aspettativa: tali rimedi (artt. 2740 ss., 2901 ss. c.c.) costituiscono infatti degli specifici poteri di azione, strumentali all'attuazione del loro diritto.

Non è eccessivo ipotizzare che ad ogni diritto di credito, avente ad oggetto una prestazione pecuniaria come di fare, corrisponda un fascio di situazioni giuridiche attive strumentali, commisurate al “valore” della garanzia patrimoniale corrispondente.

Dunque quando il debitore compromette l'esercizio di quelle azioni, ad es. svilendo il valore di una società da lui partecipata attraverso l'esercizio dei propri poteri di gestione, e così rendendo infruttuosa qualsiasi azione, conservativa o reintegrativa, nei confronti della stessa quota societaria, compie un atto illecito, che pregiudica una posizione giuridica attiva non propria, bensì del creditore.

Se di chance lesa si può parlare, quindi, è di chance del creditore, non del debitore. Il che priva di efficacia qualsiasi riflessione imperniata sul fatto che la situazione giuridica lesa sarebbe estranea al patrimonio del debitore.

Si tratta inoltre di una conseguenza pregiudizievole che tutti i creditori riportano allo stesso modo, atteso che il prodotto della revocatoria avrebbe profittato, come noto, tutti i creditori allo stesso modo.

Ed anche la convinta asserzione, da parte di Cass., Sez. Un., n. 1641/2017, circa l'esigenza di tutelare con il rimedio risarcitorio la lesione della sfera della garanzia patrimoniale dei creditori (art. 2740 c.c.), conseguito al pagamento “preferenziale”, conduce dritto in tale direzione.

Resta il fatto però che ai sensi dell'art. 2394 c.c. i creditori (e dunque il curatore in loro sostituzione dopo il fallimento) possono agire quando il patrimonio sociale sia insufficiente, e nei confronti degli amministratori che abbiano omesso di “conservarlo” nel loro interesse. Nel nostro caso invece più che di omessa conservazione sembrerebbe doversi parlare di omesso accrescimento. Se così fosse, allora l'azione risarcitoria non potrebbe comunque essere intrapresa dalla curatela, ma al limite soltanto dai creditori lesi.

Ma a prescindere dal fatto che, nonostante quello che spesso si pensa, anche il danno ex art. 2394 c.c. può consistere nel lucro cessante, rectius nei guadagni che siano stati persi in forza di un contegno inerte degli amministratori, così dimidiando il patrimonio potenziale e così indebolendo ulteriormente la garanzia, forse l'osservazione è ancora sbagliata sotto il profilo dell'angolo di osservazione.

La condotta ascrivibile agli amministratori è infatti sempre quella di aver proseguito l'attività sociale in modo non “conservativo”; da questo comportamento può scaturire, come ulteriore danno-conseguenza (nel frangente difficilmente discernibile dal danno-evento) per i soli creditori, e non già per il patrimonio sociale, la sottrazione delle utilità (sia pur esercitabili solo tramite la mediazione del curatore, ma sicuramente nel loro interesse, come massa indistinta) insite nell'esercizio delle azioni revocatorie.

Il danno da perdita di revocatoria è perciò un danno-conseguenza collegato alla prosecuzione illegittima dell'attività e patito dalla Massa creditoria, ristorabile dunque attraverso l'art. 2394 c.c.

La sua stima potrà poi risiedere nella entità delle somme che si sarebbero potute recuperare alla Massa tramite l'esercizio delle azioni decadute, beninteso qualora si provi che ne sussistessero i presupposti tipici (ad es. che i destinatari fossero consci dello stato di insolvenza), se si crede (ma francamente non pare che ve ne sia bisogno) anche attraverso la “tecnica” della lesione della chance un cenno in tale direzione nello scritto di R. Campione, op. cit., 120)

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