Codice Civile art. 1139 - Rinvio alle norme sulla comunione.

Mauro Di Marzio

Rinvio alle norme sulla comunione.

[I]. Per quanto non è espressamente previsto da questo capo [156 trans.] si osservano le norme sulla comunione in generale [1101 ss.; 61-72 att.].

Inquadramento

La norma che chiude il Capo dedicato al condominio stabilisce che, per quanto ivi non espressamente previsto, «si osservano le norme sulla comunione in generale». Ci si interroga, in proposito, sul reale contenuto precettivo della disposizione, giacché, secondo alcuni, essa si risolverebbe nella mera riaffermazione della tesi dell'omogeneità del condominio alla comunione, istituti invece eterogenei per la diversa natura degli interessi disciplinati e recanti come tali regimi giuridici differenti e tra loro scarsamente permeabili (Costantino, 267). Si è da altri evidenziato come sia stato davvero minima l'attenzione dedicata, in generale, alla norma dell'art. 1139 c.c., la quale risulterebbe essere stata trascurata, o per dir meglio, sottovalutata, dalla dottrina e (quasi inconsciamente) dalla giurisprudenza (Viganò, 6). Si è detto che la sua ragion d'essere sarebbe per l'appunto quella di giustificare il condominio quale sottospecie della «comunione». La norma andrebbe intesa «non tanto come una norma di chiusura del sistema» (nel senso che tutte le volte che fosse necessario l'interprete debba ricorrere all'applicazione per analogia delle norme sulla comunione, giacché la disposizione in esame diverrebbe allora una norma di clausura), «quanto un mero rinvio interno fra sistemi laddove sussistano elementi di sufficiente omogeneità»; e ciò si verificherebbe per le ipotesi previste dagli artt. 1101 (circa la presunzione di uguaglianza delle quote dei partecipanti), 1102 (in tema di uso della cosa comune), 1104, ultimo comma (obbligo del cessionario del comunista con questo a pagare i contributi dallo stesso dovuti e non versati), 1105 (diritto di tutti i partecipanti a concorrere nell'amministrazione), 1106 (formazione del regolamento per l'amministrazione), 1108, primi due commi (innovazioni), 1109, n. 3 (impugnazione delle deliberazioni concernenti le innovazioni e gli altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, che siano in contrasto con le norme dei primi due commi dell'art. 1108), 1110 (rimborso delle spese) (Viganò, 6).

Secondo l'opinione prevalente, viceversa, il rinvio alle norme sulla comunione dettato dalla disposizione in commento è espressione della relazione di genere a specie che intercorre tra comunione e condominio – relazione che, a dire il vero, trova indiretta conferma nella stessa circostanza che la riforma del 2012 non sia intervenuta sull'art. 1139 c.c. –, nel quale assume rilievo il tratto distintivo del vincolo di destinazione delle parti comuni rispetto alle proprietà solitarie (Terzago 2015, 6), vincolo che giustifica le principali differenze disciplinari, incentrate sulla tendenziale indivisibilità delle parti comuni (art. 1119 c.c.) e sull'impossibilità di rinunciare alla contitolarità della proprietà (art. 1118, comma 2, c.c.), con conseguente maggior stabilità della situazione di condominio, a fronte della naturale transitorietà della comunione, nonché sul ruolo più marcato dei profili organizzativi (basti pensare alla fisiologica previsione della nomina dell'amministratore, nonché a quella del regolamento),

Nonostante la parziale affinità, dunque, occorre distinguere il condominio dalla comunione ordinaria, giacché nel condominio ciascun condomino è proprietario esclusivo della sua unità immobiliare e nello stesso tempo è comproprietario, in virtù della comunione forzosa di alcune parti dell'edificio. Nella comunione ordinaria, allora, ciascun comproprietario può in ogni momento chiedere lo scioglimento della situazione comune, mentre in condominio i partecipanti non possono chiedere la divisione delle parti comuni, salvo che la divisione non possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa comune a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti. Inoltre, in virtù dell'art. 1111 c.c. , la comunione ordinaria può essere sciolta su istanza dei singoli comunisti; al contrario, il patto di rimanere in comunione non può eccedere i dieci anni. Essendo l' art. 1111 c.c. norma inderogabile e limitante l'autonomia contrattuale delle parti, analoghi patti contenuti in regolamenti condominiali, anche di natura contrattuale, devono essere ritenuti sottoposti al medesimo limite temporale. Infatti se è stata posta tale limitazione inderogabile per la disciplina generale, questa deve considerarsi applicabile a tutte le ipotesi di scioglimento di comunione, anche a quelle speciali quali il condominio negli edifici. Di conseguenza le clausole regolamentari che pongano il divieto di scioglimento del condominio sono valide per una durata massima di dieci anni, scaduti i quali è possibile per i legittimati presentare domanda di scioglimento (Trib. Milano 30 luglio 2021 n. 6590).

Ed ancora, la distinzione tra comunione ordinaria e condominio per rimarcata dal fatto che nella prima la maggioranza è calcolata in base al valore delle quote, mentre nel condominio la maggioranza è calcolata anche in relazione al numero dei partecipanti, combinandosi variamente nell'art. 1136 c.c. il criterio millesimale con quello del numero dei presenti o dei partecipanti al condominio, in funzione del miglior soddisfacimento degli interessi di volta in volta in gioco. In dipendenza del rilievo assunto dall'organizzazione gestionale propria della situazione di condominio, inoltre, la spesa per la conservazione di un bene comune sostenuta dal singolo condomino, è suscettibile di rimborso nei soli casi di interventi urgenti (art. 1134 c.c.) e non nei più ampi limiti stabiliti dall'art. 1110 c.c. («in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell'amministratore»).

Anche in giurisprudenza si descrive il condominio come coesistenza di comunione forzosa e di proprietà esclusive (Cass. II, n.22092/2011; Cass. II, n. 7044/2004).

I caratteri distintivi del condominio devono essere tenuti presenti in quanto il rinvio operato dall'art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione è da circoscriversi nei limiti della compatibilità con le peculiarità del condominio, vale a dire è ammissibile solo per colmare un riscontrato difetto di disciplina in materia condominiale; in tal senso si esclude, ad esempio, l'applicazione dell'art. 1104 c.c., in luogo dell'art. 63 disp. att. c.c., in tema di responsabilità solidale del condomino cessionario di una unità immobiliare, per i pregressi contributi condominiali ancora dovuti (Cass., II, n. 2979/2012).

Uso e modifica del bene comune

Tra le norme sulla comunione in generale che sono state ritenute applicabili alla situazione di condominio assume rilievo centrale l'art. 1102 c.c. in tema di uso e modifica del bene comune da parte dei singoli partecipanti.

Né potrebbe essere diversamente, giacché salta difatti subito all'occhio l'incompletezza, in proposito, della disciplina dettata dal codice civile per il condominio, il quale, pur caratterizzandosi per l'esistenza di cose comuni poste in relazione di strumentalità con il godimento delle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, non reca alcuna disposizione diretta a regolare l'uso di tali cose. Ecco, allora, che detta disposizione deve essere ricercata nella norma appositamente dettata per la comunione, ossia nell'art. 1102 c.c., operante nel campo condominiale per l'appunto in forza del rinvio di cui all'art. 1139 c.c.

Il punto, nella genesi storica della disciplina codicistica, è ben chiaro. Preesisteva difatti al codice civile una norma diretta a regolare l'uso delle cose comuni in ambito condominiale. L'art. 10 del r.d. 15 gennaio 1934, n. 56, stabiliva che: «I singoli condomini possono servirsi delle cose comuni purché non ledano l'interesse della comunione e non impediscano il concorrente esercizio del medesimo diritto da parte degli altri condomini. Essi possono introdurre, a proprie spese, nelle cose comuni, quelle modificazioni che, lasciandone immutata la destinazione, ne rendono più comodo l'uso e il godimento, purché non ostacolino l'uso degli altri compartecipi e ad essi non cagionino danno. Il godimento del condomino che, senza invertire il titolo del suo possesso, abbia ecceduto nell'uso o abbia apportato modificazioni alla cosa comune, potrà essere, in qualunque tempo, limitato, in guisa da non ostacolare il correlativo diritto degli altri e, ove siano state eseguite sulla cosa comune opere od impianti, potrà essere ordinato che la cosa venga rimessa nel pristino stato». Tale norma, però, deliberatamente non è stata riprodotta nel codice civile, sul rilievo che «la relativa regolamentazione è già stata data in tema di comunione e non v'è motivo di modificarla in materia di condominio negli edifici» (Relazione al Re n. 186).

La scelta di non regolare direttamente l'uso delle cose comuni è stata giudicata oculata dalla dottrina, la quale ha posto in evidenza la difficoltà di introdurre una precisa elencazione delle attività di per sé lecite e consentite, oppure illecite o vietate, sicché, non potendo coprire la sterminata casistica delle fattispecie che potrebbero configurarsi, la valutazione della legittimità o meno di un determinato uso, godimento, opera o intervento del singolo deve effettuarsi caso per caso dal giudice, considerando sempre le già evidenziate peculiarità del condominio (Celeste-Scarpa, 37).

L'art. 1102 c.c. è diviso in due commi nei quali si stabilisce, per un verso, che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, con la precisazione che a tal fine egli può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa, e, per altro verso, che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

In generale il principale problema posto dalla norma sta nell'identificazione dell'esatta linea di confine tra l'uso legittimo della cosa, da un lato, e l'uso tale da debordare in alterazione della sua destinazione ovvero in impedimento all'uso della cosa comune da parte degli altri partecipanti alla comunione, identificazione che va effettuata di volta in volta dal giudice e che è ovviamente insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti, oggi peraltro pressoché inesistenti, nel sindacato motivazionale consentito dal n. 5) dell'art. 360 c.p.c. (Cass. II, n. 4195/1984; Cass. II, n. 1336/1981; Cass. II, n. 454/1980).

Àmbito di applicazione

Prima di analizzare la sostanza del tema e le sue ricadute applicative, occorre soffermarsi ad esaminare e delimitare il campo di applicazione della norma, così da sgombrare il discorso da possibili interferenze o equivoci (v. in generale sul tema Boggiano, 273; De Tilla 2001, 248; Balzani 1985, 407).

Ed infatti, discorrere di uso delle cose comuni, richiederebbe la soluzione del quesito in ordine all'individuazione delle «parti comuni dell'edificio» di cui all'art. 1117 c.c. Nel rinviare al commento a tale norma si deve qui anzitutto sottolineare che il riferimento alle «cose comuni» deve essere inteso in senso ampio, giacché, quando si parla di uso o di godimento, la materia riguarda non solo, ad esempio, le scale, i viali di accesso, i lastrici solari, i cortili interni, le strade, ecc., ma anche i servizi condominiali, quantunque sia evidente che di proprietà comune di un servizio si possa parlare solo in senso figurato e non tecnico, dal momento che l'espletamento del servizio consiste per lo più nello svolgimento di un'attività soggettiva (p. es. portierato) o nell'impressione di una funzione a determinati spazi (p. es. lavanderia, riscaldamento, stendimento dei panni, ecc.). L'àmbito di applicazione dell'art. 1102 c.c. è, inoltre, circoscritto alla proprietà comune, sicché ne esulano tutti i casi che attengono all'uso delle cose di proprietà esclusiva, che trovano la loro disciplina in altre norme, quali l'art. 1122 c.c., al cui commento si rinvia, che si occupa delle opere, eseguite nell'unità immobiliare di proprietà esclusiva – o «nelle parti comuni normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale» – che rechino danno alle parti comuni dell'edificio o determinino pregiudizio alla stabilità/sicurezza/decoro dell'edificio, oppure in altre disposizioni, come quelle sulle distanze legali, o sui limiti alle immissioni moleste, o sugli atti emulativi (rispettivamente, artt. 873 ss., 844 e 833 c.c.).

D'altro canto, l'uso della cosa comune, indipendentemente dai limiti «interni» posti dall'art. 1102 c.c. nei rapporti tra i condomini, incontra a fortiori un limite «esterno» determinato dalla stessa estensione della proprietà condominiale, al di fuori del quale non v'è ragione di discorrere di uso della cosa comune; tale limite va inteso nel senso che il rispetto della proprietà esclusiva dei singoli esige che gli altri non possono invaderne la sfera, ledendo il relativo diritto di godimento, né gravare la stessa proprietà di pesi e limitazioni, ove non abbiano al riguardo un particolare diritto (può farsi l'esempio delle tubazioni installate da un condomino su un muro comune che invadono una cantina di proprietà esclusiva; per altre ipotesi concrete, v. Cass. II, n. 2722/1987; Cass. II, n. 4498/1986; Cass. II, n. 4451/1984).

Inoltre, in analoga prospettiva, il limite della condominialità può essere inteso anche sotto un altro angolo di visuale: è, infatti, inconcepibile che l'uso della cosa comune sia a beneficio di proprietà che non facciano parte dell'edificio condominiale, e ciò anche se sia un condomino a servirsi della cosa comune a vantaggio – non della sua proprietà individuale sita nell'edificio stesso, bensì – di altra sua proprietà, sita in immobile separato, risolvendosi tale fatto nell'impossibilità di una servitù sull'immobile condominiale che, invece, per la sua costituzione richiederebbe il consenso di tutti i condomini ex art. 1108, comma 3, c.c. (Cass. II, n. 4501/2015; Cass. II, n. 15024/2013; Cass. II, n. 944/2013; Cass. II, n. 3035/2009; Cass. II, n. 9036/2006; Cass. II, n. 1708/1998).

Ciò vuol dire che il singolo può servirsi, ai sensi dell'art. 1102 c.c., di quelle parti comuni dell'edificio di cui all'art. 1117 c.c. in quanto condomino, e, quindi, come proprietario dell'appartamento cui tali parti comuni servono; in altri termini, ogni condomino ha la comunione di determinate cose comuni, non già come soggetto che può servirsene anche a beneficio di altre cose proprie, ma quale proprietario di un appartamento sito in quell'edificio in condominio.

Altro quesito attiene al se, quando si ragiona di uso delle cose comuni in ambito condominiale, ci si debba riferire non soltanto ai condomini, ma anche ai conduttori. Il responso della giurisprudenza è favorevole, poiché la locazione a terzi dell'unità immobiliare in proprietà esclusiva pone l'inquilino nella stessa posizione del proprietario in nome del quale detiene sicché il primo, da un lato, può liberamente usare la cosa comune e le sue pertinenze (ad esempio, vie di accesso e spazi di parcheggio) nonché eventualmente modificare le parti comuni in funzione del godimento o del miglior godimento dell'unità immobiliare oggetto primario della locazione, e, dall'altro, soggiace in tale uso agli stessi limiti che valgono per il suo dante causa, ossia purché non rimanga alterata la destinazione di dette parti, né pregiudicato il pari uso degli altri condomini (Cass. II, n. 3874/1997; Cass. II, n. 6108/1981; Cass. II, n. 2331/1981).

Nella stessa prospettiva, il conduttore può essere direttamente convenuto in giudizio dall'amministratore (Cass. II, n. 3600/1990), senza che questi sia tenuto ad agire (anche o solo) nei confronti del proprietario (salvo configurare in capo a quest'ultimo una responsabilità per culpa in vigilando), qualora il conduttore abbia fatto delle cose comuni un uso non conforme alla legge o al regolamento, in quest'ultimo caso, alla condizione che si provi l'operatività della clausola regolamentare – ad esempio, divieto di destinare i locali comuni dell'edificio a determinati usi – o, in altri termini, la sua opponibilità nei confronti del condomino-locatore (Cass. II, n. 6397/1984).

Estensione del diritto di usare la cosa comune

Il comma 1 dell'art. 1118 c.c. stabilisce che il diritto di proprietà di ciascun condomino sui beni comuni si estende, e trova il correlativo limite, in funzione della proporzione tra il valore della sua unità immobiliare ed il valore dell'intero edificio (di regola, secondo la tabella millesimale esistente), il che, però, non significa che la sua facoltà di utilizzazione sia ristretta entro i confini della quota di proprietà, poiché il diritto, anche se espresso in quote millesimali, è pur sempre «ideale» e non reale, per cui non è concepibile che il singolo possa usare, ad esempio, il cortile, l'androne, l'ascensore, le scale, la terrazza per un certo numero di millesimi, in proporzione alla sua proprietà solitaria (Baldoni, 73).

Ciò vuol dire che, indipendentemente dall'estensione del suo diritto, il singolo partecipante alla comunione, a norma dell'art. 1102 c.c., può usare la cosa comune a suo piacimento, secondo le proprie convenienze, e nella sua interezza, quale che sia la quota della comproprietà ragguagliata al valore dell'appartamento di sua pertinenza. Viceversa, il criterio della proporzionalità riprende vigore quando si tratti di regolare, dal lato attivo, l'esercizio del diritto di voto in sede assembleare, e, dal lato passivo, la misura della partecipazione all'onere delle spese. È peraltro da rammentare che – secondo la Suprema Corte – l'unità sistematica tra la disposizione dell'art. 1118, comma 1, c.c., a norma del quale il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni dell'edificio è proporzionato al valore di piano o porzione di piano che gli appartiene, e la disposizione del comma 1 dell'art. 1123 c.c., per il quale le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, non impedisce, trattandosi di norme derogabili, che siano convenzionalmente previste discipline diverse e differenziate tra loro dei diritti di ciascun condomino sulle parti comuni – che possono essere attribuiti in proporzione diversa, maggiore o minore, rispetto a quella della sua quota individuale di piano o porzione di piano – e degli oneri di gestione del condominio, che possono farsi gravare sui singoli condomini indipendentemente dalla rispettiva quota di proprietà delle cose comuni o dall'uso; pertanto, va riconosciuta la validità dell'accordo che attribuisce ai condomini, proprietari di unità abitative di diverso valore, un uguale diritto dominicale sulle parti comuni prevedendo la formazione di tabelle millesimali ai soli fini della ripartizione delle spese di manutenzione e pulizia delle stesse (Cass. II, n. 7546/1995).

Applicando questi principi in un'ipotesi di sicura rilevanza pratica, si è concluso nel senso che la regolamentazione dell'uso della cosa comune, in assenza dell'unanimità, deve seguire il principio della parità di godimento tra tutti i condomini stabilito dall'art. 1102 c.c., il quale impedisce che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri (Cass. II, n. 26226/2006, che ha confermato la pronuncia di merito con cui era stata annullata, per violazione dell'art. 1102 c.c., una deliberazione assembleare che aveva attribuito il diritto di scegliere i posti auto nel garage condominiale, tra loro non equivalenti per comodità di accesso, a partire dal condomino titolare del più alto numero di millesimi).

Resta fermo che la cosa comune va destinata soltanto al comune godimento, essendo precluso, di regola, ai singoli condomini l'esercizio del potere di disposizione altrimenti spettante al proprietario: difatti, come si è già accennato, mentre nella comunione ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota (art. 1103 c.c.), nel condominio operano limitazioni ben più incisive che trovano la loro spiegazione nella peculiarità della fattispecie ove le parti comuni sono poste al servizio di quelle di proprietà esclusiva: il condomino, infatti, non può cedere il suo diritto sulle parti comuni indipendentemente da quello sulla porzione immobiliare di proprietà esclusiva, così come il trasferimento di quest'ultima comporta necessariamente anche quello delle parti comuni per la quota di spettanza del dante causa (si rinvia in proposito al commento dell'art. 1119 c.c.).

Ciò ha indotto a dubitare che al condomino possa attribuirsi la qualità di vero e proprio proprietario, assumendo piuttosto una posizione peculiare riguardo soprattutto al coesistere dei diritti degli altri partecipanti al sodalizio; la problematica risente, a monte, della scelta – di cui si è dato conto più volte, ad esempio nel commento all'art. 1120 c.c. – tra la visione del condominio come un insieme di comproprietari, ciascuno con il suo diritto e le problematiche ad esso consequenziali, o come una comunità di conviventi chiamati ad accettare le rispettive limitazioni al loro diritto di proprietà in vista del raggiungimento di un tenore elevato di serena coabitazione. Comunque, tale peculiarità spiega, sotto il profilo applicativo, le incertezze interpretative e le conseguenti oscillanti soluzioni offerte della giurisprudenza nel tentativo di delineare compiutamente, al fine di sindacare la legittimità o meno dell'uso del bene comune ad opera del singolo condomino, il concetto di alterazione della destinazione e la salvaguardia del pari uso dello stesso bene da parte degli altri partecipanti al condominio.

Uso della cosa comune e regolamento condominiale

I limiti generali al godimento del bene comune sanciti dall'art. 1102 c.c. operano ove il regolamento di condominio non si sia occupato specificatamente di tale aspetto della vita condominiale: infatti, l'art. 1138, comma 1, c.c. prevede che, quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, debba essere formato un regolamento, con i quorum di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., il quale contenga tra l'altro «le norme circa l'uso delle cose comuni». Il regolamento potrebbe fissare limiti più rigorosi di quelli previsti dall'art. 1102 c.c., di solito, per tutelare gli interessi generali del condominio, stante, peraltro, la derogabilità di quest'ultimo disposto (Cass. II, n. 27233/2013; Cass. II, n. 1600/1975), o potrebbe stabilire particolari modalità di godimento del bene comune, o addirittura potrebbe giungere ad attribuire ad uno o più condomini l'uso esclusivo di determinate parti comuni (Cass. II, n. 3169/1978; altro discorso è che il regolamento rinvii, sul punto, alla disciplina codicistica, o richiamando espressamente la norma in esame o adottando formule di stile tali da parafrasare la stessa, nel qual caso l'analisi dell'art. 1102 c.c., da carattere «residuale», riprende tutta la sua valenza ed attualità.

Ci è chiesti se il regolamento condominiale (con le debite maggioranze di cui sopra) può operare senza limiti, o è possibile un sindacato delle relative clausole sotto il profilo della meritevolezza da parte del magistrato. La seconda soluzione è preferibile, specie alla luce delle emergenti spinte solidaristiche presenti nell'àmbito condominiale, tese a tutelare nella sua pienezza la personalità umana nelle sue molteplici sfaccettature, purché il controllo giudiziale tenga conto di tutte le realtà interne (ossia, connesse alla situazione dei partecipanti) ed esterne (ossia, relative al contesto ambientale) in cui si inserisce il condominio oggetto di specifica valutazione.

Chiarendo tale concetto con alcuni esempi, si può rilevare come una clausola di un regolamento che vieti l'uso dell'ascensore in discesa, da un lato, potrebbe realizzare un risparmio delle spese di esercizio di tale impianto, ma, dall'altro, potrebbe rendere difficoltoso o addirittura precludere l'uso delle scale da parte di alcuni condomini non deambulanti o semplicemente molto anziani; ed ancora, una clausola del regolamento che vieti l'uso del cortile ai giochi dei bambini sarebbe giustificata in un ambiente circostante caratterizzato dalla presenza di aree attrezzate per tale scopo, mentre lo sarebbe meno se l'edificio fosse posto in un quartiere sprovvisto del tutto di tali strutture essenziali per lo sviluppo psico-fisico dell'infanzia. Orbene, la giurisprudenza ritiene che solo il regolamento avente valore contrattuale – ossia quello predisposto dal costruttore o dall'unico originario proprietario dell'edificio e richiamato o accettato negli atti di vendita dagli acquirenti delle singole porzioni, oppure quello approvato dalla totalità dei partecipanti al condominio – e non quello approvato a maggioranza, possa contenere limitazioni ai poteri di godimento spettanti a ciascun condomino iure proprietatis sulle parti comuni, traendo validità ed efficacia dal consenso unanime degli interessati e vertendosi in materia di diritti disponibili (Cass. II, n. 1830/2000; Cass. II, n. 11268/1998; Cass. II, n. 854/1997; Cass. II, n. 9311/1993; Cass. II, n. 4905/1990).

Così, ad esempio, il regolamento può: vietare l'apposizione di insegne e targhe sui muri perimetrali dell'edificio, imporre la preventiva autorizzazione degli organi condominiali (amministratore o assemblea) per l'esecuzione di date opere sul bene comune, inibire il lavaggio delle auto nel giardino, o prevedere l'uso esclusivo di una parte comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva.

Si è concordi, comunque, nel ritenere che le pattuizioni che comportino restrizioni delle facoltà dei singoli relativamente alle parti comuni debbano essere enunciate espressamente e chiaramente, e non in forma generica o ambigua (Cass. II, n. 10895/1992).

Tuttavia, la stessa giurisprudenza tende a ritenere modificabili a mera maggioranza le norme regolamentari, ossia quelle che disciplinano le modalità di uso delle cose nonché l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi comuni, anche se contenute in un regolamento contrattuale, e ciò al fine di adattare le stesse alle mutevoli esigenze della collettività condominiale, ad esempio, l'utilizzo di un cortile prima a stenditoio e poi per il parcheggio delle auto (Cass. II, n. 5626/2002; Cass. II, n. 943/1999; Cass. II, n. 208/1985).

In realtà, anche la clausola di un regolamento condominiale che disciplina le modalità di uso della cosa comune detta una disposizione di natura tipicamente negoziale, posto che essa, limitando il diritto di godimento delle parti comuni spettante ai condomini in quanto tali, investe direttamente i poteri e le facoltà che ai condomini competono, iure domini, sulle parti medesime; invero, la norma regolamentare può frapporre un vero ostacolo all'esercizio di facoltà spettanti ai condomini, che si risolve in una compressione dello stesso diritto di proprietà, che non può essere leso dal collegio che delibera a mera maggioranza, occorrendo, invece, l'unanimità dei consensi. Anche l'assemblea di condominio a maggioranza ha il potere di disciplinare e, eventualmente, nel concorso di giustificate ragioni ed interessi comuni, ridurre l'uso della cosa comune da parte dei singoli partecipanti, ma non anche quello di sopprimere totalmente l'uso medesimo, pure se per determinati periodi di tempo, né di limitare tale godimento ad una soltanto delle forme di uso di cui la cosa comune sia suscettibile secondo la sua destinazione (Cass. II, n. 1791/1977), a meno che deliberi all'unanimità dei partecipanti al condominio (Cass. II, n. 9311/1973).

In altri termini, rientra nella competenza dell'assemblea tutto ciò che non altera l'attuale ed oggettiva destinazione del bene, quale può desumersi dal regolamento condominiale, dai singoli atti di acquisto, dalle caratteristiche intrinseche del bene e dall'uso cui questo è stato assoggettato in precedenza, e sempre che ciò risponda a scopi di utilità generale (Cass. II, n. 6915/2007).

Per completezza, occorre infine rammentare che, in difetto di apposite disposizioni del regolamento o dell'assemblea, spetta all'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c., «disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini».

Il duplice limite all'uso della cosa comune

Alla stregua del comma 1, prima parte, della disposizione in commento, come si è visto, «ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto»: formula mediante la quale il legislatore ha dunque sottoposto il diritto di ciascun condomino di usare la cosa comune ad un duplice ordine di limitazioni, oltre il quale l'uso sconfina nell'abuso, entrambe collegate alla situazione di coesistenza dei loro diritti in proposito. Per un verso l'uso incontra un limite di ordine oggettivo o qualitativo, concernente cioè la res, il cui scopo sta nell'impedire che la cosa comune sia distolta dall'uso suo proprio, a tutela sia della collettività dei condomini, sia del singolo che dal mutamento di destinazione potrebbe subire un pregiudizio. Per altro verso l'uso incontra un limite di ordine soggettivo o quantitativo, dipendente dal potere degli altri comproprietari di usare ugualmente la cosa in conformità del diritto di comproprietà del quale anche essi sono titolari, in vista di un giusto equilibrio tra il diritto di ciascun partecipante e quello della compagine condominiale nel suo complesso.

Entrambi i menzionati limiti sono connotati in negativo e, cioè, impongono a ciascun condomino un non facere, non alterare la cosa e di non impedire agli altri di farne parimenti uso. I due divieti rilevano inoltre singolarmente, sicché a rendere illecito l'uso della cosa comune basta la violazione di uno dei due (Cass. II, n. 10013/1991; Cass. II, n. 247/1976).

Per converso, osservati i limiti indicati, ogni singolo partecipante può trarre dalla cosa comune tutte le utilità che la stessa è in grado di fornire ed apportarvi, a sue spese, tutte quelle modificazioni suscettibili del miglior godimento di essa; in quanto esplicazione del diritto di comproprietà di cui al richiamato art. 1102 c.c., per queste iniziative non è richiesta la preventiva autorizzazione assembleare (Fichera, 19; Rinaldi, 260).

Il concetto di «destinazione»

L'art. 1102 c.c. impone al ciascun condomino di non alterare la destinazione della cosa comune. Nel codice civile del 1865 si discorreva invece di «destinazione fissata dall'uso», il che suscitava il dubbio se si dovesse aver riguardo all'uso cui la cosa era astrattamente destinata o all'uso reale, e, poi, se si dovesse fare riferimento all'uso originario, o a quello successivo, espressamente o tacitamente, modificato (Celeste, 2004, 529; Sottosanti, 475; Fusaro, 425).

È stato affermato che, per sindacare l'uso fattone dal singolo partecipante, la predetta destinazione va vista non astrattamente – il che, peraltro, porterebbe a non agevoli e sempre controverse individuazioni – ma in base all'uso concreto, avendo riguardo, innanzitutto, alla specifica funzione che la cosa comune ha avuto sin dall'inizio; invero, al momento della costituzione del condominio, i partecipanti acquisiscono il diritto di esercitare un certo tipo di godimento conforme alla natura e alla funzione delle cose/servizi/impianti; a causa del mutamento di destinazione si modifica l'utilità che ciascun condomino ha diritto di ricavare ed il valore oggettivamente apprezzabile del bene subisce una trasformazione, conseguendone che il singolo non può alterare di sua iniziativa la destinazione del bene comune, perché la modifica impedirebbe agli altri partecipanti di continuare a godere del bene stesso secondo il loro diritto (Celeste-Scarpa, 42, i quali fanno l'esempio di un cortile destinato a far giocare i bambini, che il singolo non può trasformare in deposito di materiali vari).

Occorre, altresì, aver riguardo alla diversa destinazione che i condomini hanno effettivamente dato o impresso alla cosa comune in un secondo tempo, perché non più consona alla realtà del momento – oppure addirittura imposta dalla legge, come è il caso delle antenne satellitari collocate nelle terrazze condominiali – rispettivamente, con una deliberazione o con la pratica costante, senza contrasti ed osservata di fatto (si pensi all'uso dei locali della portineria una volta soppresso il relativo servizio); in altri termini, una destinazione risultante da una volontà espressa o tacita dei condomini, purché, in quest'ultimo caso, univoca (ad esempio, desumibile da opere visibili), non essendo all'evidenza sufficiente una semplice tolleranza)

Dunque, un concetto di destinazione visto nella sua visione dinamica, inquadrato nella potenzialità del bene comune – non immobilizzato, ma – idoneo ad apportare un qualche vantaggio alla collettività condominiale; del resto, come recita l'art. 1102, comma 1, seconda parte, c.c., il singolo può affrontare, a proprie spese, «le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa» comune.

È importante verificare come debba essere inteso il concetto di destinazione rispetto ad un utilizzo effettuato in precedenza.

Non è, tuttavia, indispensabile che la cosa comune sia attualmente in funzione, in relazione alla sua destinazione, qualora permanga la possibilità di ripristinarne l'originaria funzionalità, perché il mutamento di destinazione lederebbe la facoltà, spettante agli altri condomini, di ritrarre dalla cosa l'utilità pratica per la quale è stata creata e che la stessa, se debitamente restaurata, sarebbe in grado di fornire; al contempo, però, non appare corretto vincolare la destinazione del bene all'uso attuato in passato, ancorando la stessa ad una situazione magari negletta, come nel caso dei locali sotterranei adibiti a rifugio antiaereo (Cass. II, n. 7711/2007).

In quest'ordine di principi, per stabilire quale sia la destinazione della cosa comune, deve farsi riferimento o a quella intrinseca (oggettiva) al particolare tipo di bene – si pensi al cortile, al lastrico solare, al muro, alle scale, all'androne, al cavedio – oppure, quando l'utilizzazione possa essere molteplice, a quella (soggettiva) espressamente riconosciuta dai condomini (mediante il regolamento o una deliberazione assembleare) o tacitamente impressa, tenendo conto anche tutti quegli elementi – ad esempio, signorilità dell'edificio, uso abitativo dei singoli appartamenti facenti parte dello stabile, ecc. – da cui possa desumersi che sia stata data una piuttosto che un'altra tra le possibili destinazioni della cosa comune (Cass. II, n. 17556/2014; Cass. II, n. 14107/2012; Cass. II, n. 1062/2011; Cass. II, n. 7143/2008; Cass. II, n. 17099/2006,).

L'utilizzazione della cosa comune può, inoltre, avvenire non solo secondo la destinazione usuale, ma anche in modo particolare e diverso da quello praticato dai condomini, purché tale specifica utilizzazione rientri tra le destinazioni normali della cosa e non alteri l'utilizzazione praticata da altri – ossia il rapporto di equilibrio tra le utilizzazioni concorrenti (attualmente e anche potenzialmente) di tutti i comproprietari – né escluda per questi ultimi la possibilità di ampliare eventualmente il loro uso in modo e misure analoghe (Cass. II, n. 7704/1990; Cass. II, n. 3376/1988; Cass. II, n. 5954/1981).

Si parla, in questi casi, di una destinazione «principale», cui si affianca una «secondaria», così, per quanto concerne il muro di facciata, lo stesso serve a sostenere l'edificio, ma può essere utilizzato anche per sostenere le tubature, i fili, le insegne, le targhe, ecc.

Va, però, precisato che, qualora un appartamento in un fabbricato condominiale venga destinato ad un uso diverso da quello consentito dalla licenza edilizia, deve negarsi che il condominio possa allegare tale violazione a sostegno di una pretesa di ripristino dell'originaria destinazione, o di risarcimento del danno; in altri termini, come l'iniziativa di un condomino non potrebbe ritenersi lecita solo perché autorizzata dalla Pubblica Amministrazione, così la violazione di norme amministrative non legittima simili pretese fondate sull'abuso della cosa comune, trattandosi, all'evidenza, di misure che operano su diversi livelli giuridici in ordine ai quali è preclusa ogni commistione (soprattutto, Cass. II, n. 3625/1989).

Sempre con riferimento al concetto di destinazione, la giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 14607/2012; Cass. II, n. 12343/2003; Cass. II, n. 3084/1994) tende a richiamare sempre più spesso le espressioni contenute nell'art. 1120, comma 4, c.c. disciplinante le innovazioni – e ciò in via analogica, essendo entrambi i casi informati alla medesima ratio legis – e, quindi, a far operare limiti derivanti più da vicino dal rapporto (non di comunione, ma) di condominio, nel senso di considerare illegittimi quegli usi della cosa comune, da parte del singolo condomino, che «possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino».

Il concetto di «alterazione»

Quanto al concetto di «alterazione» (Balzani 1987, 359), essa ricorre allorquando le modificazioni apportate alla cosa comune rendano impossibile, o comunque pregiudichino apprezzabilmente, la sua funzione originaria, e non qualora l'utilità tratta dal condomino si aggiunga a quella originaria, senza interessare l'efficienza in pregiudizio del condominio o di altro condomino, ossia qualora il godimento del singolo, pur potenziato o reso più comodo, lasci immutata la consistenza e la destinazione originaria.

Non sembra, invece, modificare la destinazione quell'uso diverso che, non producendo alterazioni permanenti, consenta il mantenimento dell'uso normale, per lo più discontinuo, da parte degli altri condomini (si pensi all'utilizzazione del giardino comune anche per far giocare i bambini a pallone).

È stato, infine, precisato (Cass. II, n. 7752/1995; Cass. II, n. 10013/1991) che l'alterazione della cosa comune, che ne rende illecito l'uso da parte del singolo condomino, sussiste non solo quando viene mutata la sua funzione, ma anche quando si produca uno scadimento ad una condizione deteriore.

L'impedimento a fare «parimenti uso»

L'art. 1102 c.c. intende far sì che il godimento della cosa comune da parte del condomino si esplichi in maniera tale che non sia impedito agli altri un godimento del medesimo contenuto sulla cosa stessa. Il termine «impedire, che compare nell'art. 1102 c.c., può essere inteso in due modi: in senso lato, come porre impedimento, ossia limitare, diminuire e, sebbene impropriamente, pregiudicare, e in senso stretto e rigoroso, come proibire, rendere impossibile con degli ostacoli, che è qualcosa di più del semplice limitare o diminuire (se è vero che impedire implica necessariamente limitare o pregiudicare, non è vero l'inverso, perché si può limitare e pregiudicare senza tuttavia impedire).

Dall'accoglimento dell'una o dell'altra interpretazione derivano rilevanti conseguenze pratiche: la prima porta ad una notevole restrizione dei poteri del condomino, vietando l'uso che semplicemente limita il godimento altrui, mentre la seconda permette di aumentare i suoi poteri, vietando solo l'uso che rende impossibile il godimento altrui.

Secondo la tesi prevalente – che, aderendo alla seconda suesposta interpretazione, appare preferibile – il «pari uso» non deve essere inteso nel senso di uso «identico» e contemporaneo a quello realizzato dal condomino che sta facendo uso della cosa, in quanto, altrimenti, le modificazioni lecite non sarebbero concepibili né praticamente attuabili, potendo l'eventuale pretesa dell'altro condomino importare addirittura l'abolizione delle opere eseguite; il codice, infatti, ha voluto conferire a ciascun partecipante al condominio la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, per cui, qualora sia ragionevolmente prevedibile che gli altri condomini non debbano fare un «pari uso» della cosa comune, la modifica apportata dal singolo partecipante deve considerarsi legittima (Cass. II, n. 24295/2014; Cass. II, n. 10453/2001; Cass. II, n. 1499/1998; Cass. II, n. 3368/1995).

Ragionando diversamente, l'identità nello spazio, o addirittura nel tempo, potrebbe importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare o addirittura un uso a proprio esclusivo vantaggio, soprattutto nel caso di modificazioni apportate alla cosa; il pari uso va individuato facendo riferimento, con una valutazione di tipo astratto, al rapporto di equilibrio che deve essere potenzialmente mantenuto fra tutte le possibili concorrenti utilizzazioni da parte dei partecipanti al condominio (Cass. II, n. 12344/1997; Cass. II, n. 4601/1981).

Non è da condividere, invece, la tesi minoritaria, secondo la quale l'art. 1102 c.c. vieta al condomino la realizzazione delle opere che non consentano agli altri partecipanti quel qualsiasi «altro uso» che avrebbero potuto fare della cosa stessa e non gli permette neppure di adoperare la stessa in modo da impedire agli altri condomini di farne il suo stesso uso (Cass. II, n. 3963/1980).

In quest'ordine di concetti, non si può opinare nemmeno che al singolo sia consentito servirsi del bene comune anche se ciò può rendere impossibile agli altri di fare altrettanto, purché sia certo che essi non abbiano motivo o interesse di fare il medesimo uso: infatti, è difficile raggiungere tale «certezza», poiché si dovrebbe presupporre una richiesta di preventivo consenso agli altri partecipanti o una loro mancata manifestazione di assenso, il che porterebbe a possibili contenziosi, attesa la probabile presenza del condomino (litigioso o con intenti meramente emulativi) che si opporrà a qualsiasi altrui iniziativa.

Sembra, quindi, corretta un'interpretazione che, sebbene il dato testuale parli di «parimenti», alludendo ad un uso identico, tenda ad evitare di menomare le concrete possibilità per i singoli condomini di beneficiare del bene comune, soltanto perché l'uso preteso da uno sarebbe paralizzato da quello vantato dall'altro, e ciò anche in un'ottica solidaristica dei rapporti condominiali, che richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti al condominio; così, nell'ipotesi del parcheggio di auto in uno spazio comune insufficiente ad accogliere tutte le macchine dei condomini, oggetto di indagine non è tanto l'uso concreto fatto in un determinato momento storico, ma quello potenziale in relazione alla possibilità di utilizzo analogo in momenti temporali diversi o in spazi diversi destinati al medesimo scopo.

Il contemperamento degli interessi

Resta fermo che l'utilizzo, da parte del singolo, della cosa comune può avvenire tanto secondo il suo normale uso quanto in modo particolare e diverso, ritraendo dalla stessa una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali ridondanti a vantaggio di tutti gli altri partecipanti, senza sconfinare in abuso, sempre che ciò non comporti alterazione dell'equilibrio tra le concorrenti utilizzazioni degli altri, e non determini, quindi, pregiudizievoli invadenze nell'àmbito dei coesistenti diritti degli altri comproprietari (Cass. II, n. 172/1993; Cass. II, n. 2722/1987; Cass. II, n. 2117/1982).

D'altronde, il fondamento «politico» del precetto in esame è costituito dalla tutela dell'equilibrio della comunione, e da tale premessa si evince la definizione della misura del correlativo limite; questo è il significato di un passaggio di una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. II, n. 9649/1998), secondo la quale l'uso delle cose comuni da parte di un condomino può dirsi consentito ed aderente alla norma quando è salvaguardato il rapporto di equilibrio giuridico ed economico della comunione, e fino a quando perdura l'armonica coesistenza dei diritti che, in relazione a determinate entità immobiliari, la legge presume di pari entità e contenuto (Cass. II, n. 5753/2007).

Comunque, l'indagine sull'illiceità o meno dell'uso della cosa comune da parte del singolo va condotta alla stregua degli oggettivi criteri legali concernenti la lesione del diritto di godimento spettante agli altri partecipanti, rimanendo irrilevante, a tal fine, ogni valutazione sulla concreta idoneità di quell'uso ad arrecare utilità al suo autore, salva la configurabilità di atti emulativi ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 833 c.c. (Cass. II, n. 2749/1978).

Nel caso di conflitto o concorso al miglior godimento della cosa comune, va operato un equo contemperamento dei contrapposti interessi individuali (Cass. II, n. 8808/2003), senza che possa applicarsi il principio della priorità dell'uso, dovendosi preservare il rapporto di equilibrio giuridico ed economico della comunione sopra evidenziato, restando altrimenti fatalmente sconvolta la stessa armonica coesistenza dei diritti di tutti i comunisti; la «priorità dell'uso», che compare nell'art. 844 c.c., nella disciplina delle immissioni nel fondo altrui, non si applica nell'art. 1102 c.c., in cui tutti i condomini godono della cosa comune in una situazione di par condicio.

In altri termini, qualora l'utilizzazione della cosa comune che vorrebbe fare uno dei condomini venga ad interferire nella modificazione già praticata, nel medesimo bene, da altro condomino, nel legittimo esercizio della propria facoltà di godimento, va raggiunta la migliore utilizzazione del bene da parte di tutti i partecipanti, sempre che trattasi di interessi materialmente conciliabili, in modo da realizzare la precipua finalità della cosa comune e la sua migliore utilizzazione a profitto di tutti i condomini.

La «prevenzione» dell'usoprior in tempore potior in iure, ossia chi arriva prima, acquista un maggiore diritto di uso – potrebbe spiegare effetti soltanto nel senso che, attesa la possibilità di ogni utilizzazione futura della cosa comune (ovviamente nei limiti di cui all'art. 1102 c.c.), l'opera, lecita nel momento in cui viene eseguita da un condomino, non potrà essere frustrata da un'utilizzazione successiva pretesa dagli altri, ossia non potrà divenire illecita in vista di un uso, da altri preteso e oggettivamente possibile, che, se fosse stato esercitato prima, avrebbe impedito la realizzazione dell'opera che gli è di ostacolo; così, ad esempio, l'apertura di una porta nella tromba delle scale non può essere rimossa, in virtù di una pretesa illiceità a cagione dell'utilizzazione, successivamente deliberata dagli altri condomini, di realizzare un ascensore nella stessa tromba (Cass. II, n. 570/1966).

Nel contempo, però, il giudice del merito, per accertare se l'uso più intenso della cosa comune da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio tra i vari partecipanti e debba perciò ritenersi non consentito ex art. 1102 c.c., non deve considerare solo l'uso fatto in concreto di tale cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; in quest'ottica, l'apposizione di un maxi cartellone pubblicitario sul muro comune – fenomeno che va diffondendosi nelle grandi città – va ritenuto illegittimo, oltre che nei casi in cui alteri la naturale destinazione del muro a sostegno dell'edificio, qualora possa impedire agli altri condomini ogni eventuale uso che, in avvenire, essi avrebbero voluto fare, secondo una ragionevole previsione, di detto muro, per collocarvi targhe professionali o insegne commerciali al servizio delle unità immobiliari esclusive.

In senso coerente con queste ultime affermazioni, si è affermato che è legittimo, ai sensi dell'art. 1102 c.c., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali e potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine, avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (Cass. II, n. 14245/2014; Cass. II, n. 22341/2010; Cass. II, n. 972/2006; appare, invece, ambigua Cass. II, n. 4617/2007, la quale, per un verso, impone di valutare l'uso paritetico della cosa comune in funzione della «ragionevole previsione» dell'utilizzazione che in concreto ne faranno gli altri condomini, e, per altro verso, esclude di prendere in considerazione quella identica e contemporanea che, «in via meramente ipotetica ed astratta», ne potrebbero fare).

Le modalità di godimento

Venendo più da vicino ad esaminare le concrete modalità di godimento, va premesso che, con riferimento alle parti comuni dell'edificio, il contenuto del relativo diritto in capo ai condomini si configura diversamente, secondo le funzioni che ciascuna delle predette parti svolge nell'àmbito condominiale.

Al riguardo, i giudici di legittimità (Cass. II, n. 2255/2000) hanno avuto modo di precisare che il termine «godimento» designa due differenti realtà: quella dell'utilizzazione oggettiva della res e quella del suo godimento soggettivo in senso proprio; con la prima intendendosi l'utilità prodotta (indipendentemente da qualsiasi attività umana) in favore delle unità immobiliari dall'unione materiale o dalla destinazione funzionale delle cose/servizi/impianti (suolo, fondazioni, muri maestri, tetti, lastrici solari, cortili), la seconda concretantesi nell'uso delle parti comuni quale effetto dell'attività personale dei titolari delle unità immobiliari esclusive (utilizzazione di anditi, stenditoi, ascensori, impianti centralizzati di riscaldamento e condizionamento); nondimeno, talune delle parti comuni elencate nell'art. 1117 c.c. (solitamente destinate a fornire utilità oggettiva ai condomini) sono, talora, suscettibili anche di un uso soggettivo, particolare ed anomalo, diverso cioè da quello connesso con la funzione peculiare di tali parti ed indipendente dalla relativa funzione strumentale (i muri maestri utilizzati, ad esempio, per l'applicazione di vetrine o insegne luminose), con la conseguenza che – ad esempio – i cortili, funzionalmente destinati a fornire aria e luce al fabbricato (destinazione «oggettiva»), ben possono essere destinati (anche) ad un uso soggettivo (sistemazione di serbatoi, deposito merci, parcheggio auto), di talché, pur costituendo «normalmente» oggetto di trasferimento consequenziale al trasferimento della proprietà del piano o porzione di piano, purtuttavia possono, ex titulo, formare, quanto al relativo godimento soggettivo, oggetto di diversa pattuizione, quale, ad esempio, l'esclusione dal trasferimento della relativa quota di comproprietà dell'uso (soggettivo) come parcheggio auto, specie qualora il cortile stesso non risulti sufficiente ad ospitare le autovetture di tutti i condomini.

Esistono, pertanto, cose comuni che presuppongono l'uso (di solito, paritario) da parte dei condomini – come i portoni di ingresso – ed altre la cui funzione può esercitarsi prescindendo da tale uso – come il tetto, che assolve una funzione di protezione – cui si possono aggiungere quelle che possono utilizzarsi esclusivamente da alcuni condomini, i quali si trovano in una particolare situazione di fatto per poterne godere; così, ognuno può usare da solo i muri maestri nel perimetro che delimita il suo appartamento relativamente sia alle pareti interne sia alle parti esterne, purché non alteri la funzione di sostegno e di decoro né impedisca il pari uso degli altri, aprendo finestre, apponendo tubazioni, costruendo manufatti, ecc.

Orbene, la realtà condominiale offre numerosi esempi di uso della cosa comune, che possiamo distinguere, in base alle anzidette premesse, in uso normale, uso più intenso e uso abusivo.

L'uso normale consiste nell'utilità che il condomino trae dalla parte comune in condizioni di parità con gli altri partecipanti, senza l'esecuzione di alcun intervento modificativo del bene e tramite facoltà conformi alla sua destinazione attuale, imposta per caratteri naturali, per tipologia costruttiva, per deliberazione assembleare o per regolamento (si pensi al transito nell'androne condominiale, all'uso delle scale per accedere ai piani alti dell'edificio, all'utilizzo del giardino per far giocare i bambini, e quant'altro).

L'uso più intenso si attua allorché si ottengono dal bene comune utilità maggiori ed aggiuntive, anche differenti, rispetto ai benefici che, in via generale, possono derivare a tutti gli altri condomini, ferma restando la duplice condizione della mancata alterazione della destinazione e del rispetto del pari uso degli altri partecipanti, come estrinsecazione del generico dovere del neminem laedere (Gentili, 617).

In concreto, l'intensificazione del godimento del bene comune può avvenire o mediante l'estrinsecazione di facoltà più ampie nel contenuto o con un loro esercizio più frequente rispetto al godimento degli altri condomini – si pensi al parcheggio di due auto anziché una nel cortile o all'apposizione di tubazioni di più ampia portata – oppure mediante una modificazione della consistenza del bene (Cass. II, n. 7652/1994).

L'uso abusivo consiste nel godimento che permetta a chi lo esercita di trarre utilità in violazione dei limiti sopra accennati per l'uso più esteso o intenso, tale, quindi, da alterare, trasformare o distruggere (in tutto o in parte) la consistenza fisica della cosa comune o da sottrarla alla sua normale destinazione (Carbone, 253).

Si pensi al deposito di materiali vari in area verde che ne impedisca l'uso e deturpi l'aspetto dell'edificio, o all'inclusione di un pianerottolo in un appartamento privato che escluda la funzione di raccordo tra le rampe delle scale, oppure all'interramento nel sottosuolo di una centrale termica del proprio impianto di riscaldamento (Cass. II, n. 4386/2007).

Le modalità di godimento della cosa comune – con le premesse di cui sopra e nei limiti prima analizzati – possono, dunque, consistere in un uso diretto o indiretto; nel primo caso, l'uso può essere promiscuo o frazionato (nello spazio o nel tempo), e può realizzarsi anche mediante opere sulle parti comuni; di regola, non è ammesso l'uso esclusivo, salva l'ipotesi dell'usucapione.

L'uso promiscuo o frazionato

Per quanto riguarda l'uso collettivo, la cosa comune, se le caratteristiche lo consentano, può essere goduta contemporaneamente dalla collettività dei condomini (c.d. uso promiscuo): si pensi al giardino comune, che può essere utilizzato indiscriminatamente da ciascuno, poiché difficilmente si creeranno questioni di sovraffollamento, e ciò a prescindere dalla caratura millesimale di appartenenza (Terzago 2007, 31).

Altrettanto non può dirsi, ad esempio, per l'uso del cortile comune per il parcheggio di autovetture e motorini, nel qual caso, verificata l'impossibilità di utilizzo contemporaneo da parte della collettività condominiale, per soddisfare le esigenze di tutti i partecipanti, occorre frazionare l'uso (Cass. II, n. 15203/2011).

Tale frazionamento può avvenire sotto il profilo dello spazio, nel senso che, ferma restando la comproprietà da parte del singolo su tutto il bene comune, quest'ultimo viene diviso materialmente assegnando a ciascuno il godimento di una parte soltanto, ad esempio, delimitando con apposite strisce le aree di parcheggio del cortile (Cass. II, n. 6673/1988); il godimento c.d. spaziale, o a zone, può verificarsi, altresì, allorché vi siano dei vani cantina predisposti in modo che ciascun appartamento dello stabile condominiale ne abbia uno per uso proprio, tuttavia l'uso della cosa comune, da parte del singolo condomino, non può estendersi all'occupazione permanente di una parte del bene comune, tale che, nel concorso degli altri requisiti di legge, possa portare all'usucapione della parte occupata (Cass. II, n. 663/1982).

Non si tratta, però, di un'assegnazione definitiva che, in buona sostanza, si traduce in una divisione del bene comune: non si passerebbe da una communio pro indiviso ad una communio pro diviso, altrimenti, la comunione cesserebbe ed ognuno sarebbe proprietario esclusivo della porzione assegnatagli; i condomini continuano ad essere titolari di tutto il bene, solo che si sono accordati (o è stato loro imposto) di rinunciare al godimento delle zone assegnate agli altri partecipanti: se un partecipante non si serve della porzione assegnata, gli altri possono sempre farlo in sua vece, appunto perché ne sono ancora titolari.

In quest'ordine di principi, appare pienamente condivisibile quanto di recente affermato dalla Suprema Corte (Cass. II, n. 6573/2015), secondo i quali la delibera assembleare che adibisce l'area cortilizia a parcheggio ed assegna i singoli posti auto non determina la divisione del bene comune, limitandosi a renderne più ordinato e razionale l'uso paritario, sicché essa non richiede il consenso di tutti i condomini, né attribuisce agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata.

Una peculiare modalità di ripartizione spaziale della cosa comune è attualmente contemplata dall'art. 1122-bis, comma 3, c.c. – così come introdotto dalla legge n. 220/2012 – il quale, ai fini dell'installazione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio delle singole unità immobiliari, ha previsto che, a richiesta degli interessati, l'assemblea, con il quorum di cui all'art. 1136, comma 5, c.c., «provvede a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto».

Sempre che la natura del bene comune non consenta un simultaneo godimento di tutti i condomini, tale frazionamento può avvenire anche sotto il profilo del tempo, nel senso che il godimento si estende su tutta la cosa comune ma è limitato ad una determinata turnazione – fissata dal regolamento, dall'assemblea o dall'amministratore o praticata di fatto dai condomini – ad esempio, con l'avvicendamento di uno o un gruppo di condomini nell'uso del lastrico solare per stendere i panni a giorni prefissati per ciascuna unità immobiliare (non escludendo, in caso di incapienza, eventuali assegnazioni periodiche mediante una graduatoria formata per sorteggio); anche qui, come nella divisione c.d. topografica, non succede nulla se un condomino utilizza la cosa comune in un turno diverso qualora il partecipante assegnatario non ne approfitti (il patto di godimento frazionato nel tempo è, invece, il connotato precipuo del fenomeno della multiproprietà, accennato nell'incipit del nuovo art. 1117 c.c., dove si parla appunto di «diritto a godimento periodico»).

Fino a quando, però, non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere l'idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, salvo che risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l'uso esclusivo del bene, ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. II, n. 12485/2012; Cass. II, n. 13036/1991; Cass. II, n. 243/1981, in materia di comunione in generale, ma con principi «esportabili» anche a quella edilizia).

Comunque, nessuna norma impone di ragguagliare la «porzione» di cosa comune o la «durata» dei periodi di godimento all'entità delle quote di comproprietà dei condomini nel senso che, stando agli esempi di cui sopra, il proprietario di un'unità immobiliare con tanti millesimi debba avere necessariamente diritto a più posti auto o più giorni alla settimana per stendere i panni (a meno che non sussista un accordo unanime tra tutti partecipanti al condominio).

In ordine alla maggioranza richiesta per stabilire queste ultime modalità di godimento, si ritiene sufficiente il quorum dell'art. 1136, commi 2 e 3, c.c. – salva l'ipotesi di cui all'art. 1122-bis, comma 3, c.c. di cui sopra – non essendo necessaria l'unanimità sul mero presupposto che tali modalità incidono in qualche misura sui diritti del singolo, specie con riferimento alla diminuzione del quantum di godimento rispetto a quello previsto nell'atto di acquisto (in senso diverso v. però Cass. II, n. 139/1985); invero, si tratta solo di determinare il miglior godimento della cosa comune, per cui, accertato che l'uso promiscuo e diretto di tutti e di ciascuno non è materialmente possibile, l'assemblea (a maggioranza) interviene scegliendo la soluzione più adeguata e ragionevole al caso de quo (divisione spaziale o temporale), così realizzando la conciliazione dei vari interessi in una situazione idonea a provocare contrasti tra i partecipanti al condominio.

L'uso indiretto

La Suprema Corte è ferma nel sostenere che, ove non sia possibile o ragionevole l'uso promiscuo della cosa comune, e questa non sia tale da permettere una ancorché approssimativa divisione (nel tempo o nello spazio) del suo godimento tra i vari partecipanti alla comunione, sorge l'esigenza di ricorrere al c.d. godimento indiretto, che tende appunto a sopperire all'impossibilità di procedere ad una conveniente utilizzazione diretta da parte dei vari comproprietari.

Il godimento indiretto postula, peraltro, non solo che sia impossibile, non ragionevole, dannoso, in forma promiscua o frazionata, ma anche che esso sia stato deliberato, o consensualmente sia pure con il sistema maggioritario, oppure mediante un provvedimento del giudice; l'obbligo, da parte dei vari partecipanti, di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell'art. 1102 c.c., sorge, quindi, solo se sia stato deciso e solo dal momento della deliberazione, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione con il sistema del godimento indiretto (Cass. II, n. 2902/1974).

L'ipotesi tipica dell'uso indiretto – che si esplica anche attraverso l'acquisto dei frutti che la cosa stessa produce (Cass. II, n. 20394/2013) – è quella della locazione che, pertanto, presuppone che la cosa comune non sia suscettibile di godimento diretto di tutti i partecipanti, promiscuamente oppure con il sistema dei turni temporali o del frazionamento degli spazi, pena, altrimenti, trattandosi di incidere sull'estensione del diritto reale che ciascun condomino possiede sull'intero bene indiviso, l'invalidità della relativa deliberazione assembleare (Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 8528/1994; Cass. II, n. 6010/1984; Cass. II, n. 312/1982), salvo il caso in cui la decisione sia adottata all'unanimità.

Incidentalmente, si evidenzia che la riforma del 2012 ha contemplato un'ipotesi particolare di locazione della cosa comune nell'art. 1120, comma 2, n. 2), c.c., laddove ha previsto che l'assemblea, con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. possa realizzare interventi «per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte ... di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto ... personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune».

Per fare un esempio, non si potrebbe tout court concedere in locazione (ad alcuni condomini o a terzi) lo spazio di parcheggio condominiale sulla semplice constatazione che lo stesso sia insufficiente per la sosta di tutte le autovetture dei condomini, essendo irrilevante che al condomino non utente derivi pur sempre un'utilità dalla diminuzione degli oneri condominiali in relazione a quanto percepito a titolo di canoni di locazione dal predetto parcheggio (Capponi, 611).

Qualora, invece, la locazione sia legittima – ad avviso della Suprema Corte (Cass. II, n. 4131/2001 – non sussiste violazione dell'art. 1102 c.c. se al condomino aspirante ad essere conduttore della cosa comune sia preferito un terzo, perché la predetta norma tutela l'uso diretto di ciascun condomino sulla medesima e non quello indiretto, come nel caso della maggioranza dei condomini decida di locare la cosa comune ad un terzo, ancorché a condizioni meno vantaggiose per il condominio rispetto a quelle offerte dal condomino, non essendovi il limite del pregiudizio agli interessi dei condomini, come invece, per le innovazioni, al potere di scelta della maggioranza (secondo Cass. II, n. 8622/1998, non è innovazione ma solo diversa utilizzazione che l'assemblea può deliberare, la locazione ad uso abitativo di un locale condominiale, in precedenza concesso ad un condomino per uso deposito).

A questo punto, è legittimo interrogarsi cosa succeda nell'ipotesi del locale adibito originariamente all'alloggio del portiere e rimasto inutilizzato a seguito della soppressione del relativo servizio.

Abbiamo visto che, a ciascun condomino, compete il diritto al godimento diretto ma promiscuo (cioè non esclusivo) della cosa comune, ma non essendo un obbligo, l'assemblea non può imporlo quando sia impossibile, dannoso o irragionevole, mentre ogni diversa modalità di utilizzazione o godimento (ad esempio, divisione nello spazio, nel tempo, o godimento indiretto) va deliberata dai condomini secondo il sistema organizzativo interno stabilito dall'art. 1136 c.c., escludendo, quindi, la legittimità di iniziative in tal senso da parte del singolo condomino o dell'amministratore; si ammette soltanto la possibilità di questi ultimi, in caso di locazione in atto, di dare la disdetta o agire per il rilascio, anche senza deliberazione assembleare, sulla base di un mandato tacito ricevuto dagli altri partecipanti.

La possibilità della locazione del bene comune evidenzia così quella nota peculiare che caratterizza la posizione relativa al diritto del condomino sullo stesso, che incontra tutti i limiti imposti dal godimento solidale, spingendosi talvolta fino ad una vera e propria impossibilità di utilizzo del bene comune, sostituito soltanto dalla percezione degli eventuali frutti che lo stesso è idoneo a conferire (nel caso di specie, il ricevimento, pro quota, del corrispettivo all'altrui godimento sotto la forma di canone di locazione).

Orbene, la decisione di locare l'immobile già destinato ad abitazione del portiere deve essere presa dalla maggioranza dei condomini – sembra prevalere il quorum semplice trattandosi di atto di ordinaria amministrazione, se di durata non eccedente i nove anni, come è dato desumere a contrario dagli artt. 374, n. 4), e 1108, comma 3, c.c. (Cass. II, n. 4131/2001; contra, Cass. II, n. 385/1977) – ma potrebbe darsi che «non si forma una maggioranza» al riguardo, sicché soccorre l'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. che prevede in tal caso la possibilità di un ricorso all'autorità giudiziaria.

In altri termini, nulla quaestio se vi sia un bene comune suscettibile di godimento diretto, spazialmente circoscritto, di una pluralità dei condomini, poiché lo stesso è tale da consentire un uso collettivo, oppure una materiale divisione approssimativamente corrispondente alla consistenza delle quote o un uso turnario; qualora, invece, vi sia un solo locale comune, che non può essere oggetto di godimento della collettività o dell'uso esclusivo di uno di essi – l'uso promiscuo richiederebbe la necessaria coabitazione delle rispettive famiglie dell'edificio o il diritto dell'uno di abitare l'unità immobiliare potrebbe essere paralizzato dal pari diritto dell'altro condomino – oppure qualora la cosa comune, per le sue caratteristiche strutturali, non sia tale da consentire una materiale divisione – l'appartamento è formato da due camere, cucina ed un solo bagno – oppure un uso temporalmente limitato, essendoci disaccordo tra i condomini, appare legittimo, per porre fine alla situazione di stallo, il ricorso al magistrato ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., affinché individui, anche con la nomina di un amministratore, una diversa modalità (indiretta) di godimento del bene, appunto attraverso la locazione dell'immobile (in favore di uno degli stessi condomini o di un terzo).

I casi finora esaminati presuppongono che un'assemblea sia stata convocata, ma che non si pervenga (per i motivi più disparati) ad una valida maggioranza per deliberare la diversa utilizzazione del bene comune che non può formare oggetto di godimento promiscuo; nulla esclude, però, che, se non si possano adottare tali provvedimenti, stante, a monte, la mancata partecipazione di uno o più condomini, rappresentanti quorum che precludono la costituzione dell'assemblea, o comunque nel pieno disinteresse dai primi manifestato nella gestione della parte dell'edificio, si proceda sùbito alla nomina di un amministratore ex art. 1105, ultimo comma, c.c., al fine di «adottare i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune», tra i quali si può annoverare l'uso indiretto, mediante la locazione, della predetta parte trascurata.

Le opere sulle parti comuni

Continuando nell'esame delle modalità di godimento della cosa comune, il singolo partecipante può servirsi della stessa, sempre con i due limiti oggettivi e soggettivi di cui sopra – ma soprattutto quello della non alterazione della destinazione – anche modificando la cosa comune, per il miglior godimento della stessa, fino a sostituirla con altra che offra maggiore funzionalità, e ciò ai sensi dell'art. 1102, comma 1, ultima parte, c.c.

Va inoltre ricordato che, in forza dell'art. 1134 c.c., il condomino non può fare spese, anche migliorative, per le cose comuni con diritto alla ripetizione delle stesse, qualora non abbia avuto l'autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, a meno che non si tratti di spese urgenti.

Ciò avviene soprattutto mediante opere (di solito, di carattere permanente) sulla cosa comune – in passato rigorosamente vietate (art. 675 del codice civile abrogato) – che, però, si differenziano dalle innovazioni deliberate dalla maggioranza dei condomini (contemplate dal vigente art. 1120 c.c.), che può anche alterare la destinazione della stessa cosa, il che è precluso al singolo (Pellicani, 87).

In questa prospettiva, nella prima ipotesi, all'eventuale autorizzazione ad apportare tali modifiche concessa dall'assemblea – spesso richiesta dal condomino alla luce dei rilevanti lavori da eseguire ed al conseguente rischio di vanificare l'impegno economico intrapreso – può attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell'inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri partecipanti a questo tipo di utilizzazione della cosa comune (Cass. II, n. 1554/1997; Cass. II, n. 6608/1982; Cass. II, n. 5843/1980).

Pertanto, nell'uso della cosa comune, va considerata vietata ogni modificazione che si risolva nell'esclusione del concorrente diritto degli altri condomini sulla cosa stessa e, a fortiori, nella definitiva destinazione della cosa al godimento del singolo (in quest'ottica, risulta irrilevante l'accertamento in concreto della buona o mala fede del condomino che ha assunto l'iniziativa); al contempo, se la modificazione che il singolo intende apportare alla cosa comune è diretta al miglior godimento della stessa, lasciando inalterata la situazione di fatto degli altri partecipanti, in quanto non ne turba l'equilibrio dei concorrenti interessi, nessun limite pone la legge al diritto di tale condomino, purché tali opere siano eseguite a sue spese.

In ordine all'occupazione di parti comuni da parte del singolo con opere permanenti, non è condivisibile quella giurisprudenza (Cass. II, n. 2774/1992), che, riguardo all'inserimento, ad opera di un condomino, di una canna fumaria nel lastrico solare incorporandone stabilmente una porzione al servizio esclusivo del proprio appartamento, ha ritenuto sussistere un atto di utilizzazione particolare della cosa comune, che non comprometteva necessariamente la destinazione di calpestio del lastrico e, trattandosi di un'occupazione di una zona periferica trascurabile rispetto alla complessiva superficie dello stesso lastrico, non menomava la possibilità di uso degli altri condomini: è vero che questi ultimi non avrebbero motivo di dolersi, considerando la posizione dei relativi appartamenti, dell'impossibilità di pari uso del lastrico solare nel suo complesso, ma è altrettanto vero che una parte di tale lastrico, indipendentemente dalla sua estensione (ridotta o rilevante), perdeva definitivamente la sua funzione precedente di copertura, diventando parte integrante dell'appartamento sottostante.

La questione inerente la liceità di tali occupazioni si pone, quindi, qualora sia configurabile sul bene comune occupato un conflitto (reale o potenziale) circa il pari uso da parte degli altri condomini, e si connette a quell'altro limite, richiamato dalla giurisprudenza mutuando le considerazioni fatte a proposito dell'art. 1120, comma 4, c.c., relativo all'inservibilità «all'uso o al godimento anche di un solo condomino», anche se qui non si tratta di innovazioni deliberate dalla maggioranza ma di atti di utilizzazione della cosa comune ad opera del singolo partecipante ai sensi dell'art. 1102 c.c.

Vale osservare, nella materia, che l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, comma 2, legge 9 gennaio 1989 n. 13, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale (Cass. II, n. 14096/2012).

Comunque, non può ritenersi che, rispetto a tali modificazioni, una limitazione sia costituita dall'esigenza che esse rivestano carattere di assoluta necessità, giacché l'art. 1102 c.c. mira a sottolineare non già l'indefettibilità delle trasformazioni, ma il loro carattere strumentale in rapporto al fine della più proficua, più comoda o più razionale utilizzazione della cosa comune (Cass. II, n. 2134/1962); in quest'ordine di concetti, la «necessità» di cui fa parola la predetta norma non è un elemento che qualifichi in sé la modifica, nel senso che se la cosa comune non ha necessità di modifiche, al singolo debba essere fatto divieto di apportarle, ma nel senso che le medesime modifiche devono servire al «miglior godimento» della cosa comune e, quindi, da ritenersi vietate sia qualora, dopo averle introdotte, il condomino non ne trae nessun miglior godimento, che nel caso in cui tale miglior godimento sia possibile senza modificare la cosa.

Dubbi, invece, sussistono in ordine alla titolarità delle modificazioni poste in essere sulla cosa comune dal singolo, se cioè debbano ritenersi migliorie che, per il principio di accessione, divengono di proprietà di tutti i comproprietari del bene cui ineriscono, o se gli altri partecipanti possono solo avvantaggiarsi dell'opera (contribuendo alle future spese di manutenzione), ma non rivendicarne la proprietà, oppure se l'opera è di utilità collettiva ed insuscettibile di utilizzazione separata, per cui è di comproprietà di tutti ed il suo autore non possa vantare il diritto di rimborso nemmeno pro-quota.

Resta inteso che, indipendentemente dalla predetta titolarità, le modificazioni introdotte dal condomino nel proprio interesse sono a suo carico, come è certo che dovrà anche accollarsi le maggiori spese di manutenzione o di gestione di tutta la cosa comune cagionate dalla sua iniziativa (ad esempio, tinteggiatura delle ringhiere del cancello realizzato sul muro comune per accedere all'appartamento di sua proprietà).

Il rispetto delle distanze legali

Occorre, però, fare attenzione a che le modificazioni operate sul bene comune dal singolo possono anche pregiudicare il diritto di pieno ed incondizionato godimento dell'altrui proprietà esclusiva: è il caso della costruzione di una veranda che, occupando la colonna d'aria sovrapposta al cortile, sebbene lecita sotto il profilo della statica e del decoro architettonico, potrebbe privare l'appartamento sovrastante della veduta in appiombo esercitata sul medesimo cortile nonché togliere aria e luce all'appartamento sottostante (Cass. II, n. 13874/2010; Cass. II, n. 12491/2007).

Ci si chiede, a questo proposito, se vanno rispettate le distanze legali, in quanto eventuali opere eseguite dal singolo sulla cosa comune potrebbero violare le disposizioni vigenti in tale materia.

Si afferma, sul punto, che la normativa sulle distanze legali deve essere sempre subordinata alla sua «compatibilità» con i principi che regolano specificatamente la materia condominiale; d'altronde, i contrasti che quotidianamente nascono dalla sovrapposizione verticale o dalla contiguità orizzontale di tali unità non possono risolversi facendo esclusivo riferimento alla normativa codicistica in tema di rapporti di vicinato (si pensi all'apertura di una finestra sul cortile comune o all'appoggio di un'insegna sul muro).

Nella giurisprudenza di legittimità (Cass. II, n. 2741/2012; Cass. II, n. 6546/2010; Cass. II, n. 22838/2005; Cass. II, n. 8978/2003; Cass. II, n. 15394/2000; Cass. II, n. 724/1995), costituisce oramai ius receptum che le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare i rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo qualora esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè nel caso in cui l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile un'applicazione complementare; nel caso di contrasto, invece, prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni, conseguendone l'inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime. In tale prospettiva è stato di recente ad esempio affermato che le norme sulle distanze volte a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue e separate, sono applicabili anche tra i condomini, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, quando l'applicazione di quest'ultime non sia in contrasto con le prime. Nell'ipotesi di contrasto la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condominio secondo i parametri previsti dall'art. 1102 c.c., atteso che, in considerazione del rapporto strumentale fra l'uso del bene comune e la proprietà esclusiva, non sembra ragionevole individuare, nell'utilizzazione delle parti in comune, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione o al contemperamento degli interessi in comune (Cass. II, n. 5140/2012, con cui è stata cassata la decisone del merito che non si era attenuta al principio suesposto, nella vicenda relativa alla realizzazione di due balconi avvenuta su una parte comune del fabbricato). Allo stesso modo, qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, forno di pizzeria) (Cass., II, n. 2741/2012).

In buona sostanza, occorre avere presente la concreta struttura dell'edificio, le caratteristiche dello stato dei luoghi nonché il particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, per cui, qualora le norme sulle distanze legali vengano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette norme sia o no, nel singolo caso, irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento di vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza.

Infatti, non può dubitarsi che vi siano distanze legali che devono certamente essere osservate, ma tale obbligo di rispetto per le opere compiute, a condominio già costruito, non va applicato in senso assoluto ed inderogabile, in quanto potrebbe condurre a conseguenze inaccettabili, come quella di impedire, in concreto, di dotare gli appartamenti di proprietà esclusiva, che ne siano privi, di attrezzature e di impianti indispensabili, essenziali per la loro concreta confortevole abitabilità e rispondenti ad imprescindibili esigenze di carattere igienico (Cass. II, n. 16958/2006; Cass. II, n. 7752/1995; Cass. II, n. 6885/1991; Cass. II, n. 11695/1990; Cass. II, n. 3105/1981).

Si pensi agli impianti di riscaldamento ed ai bagni che, tenuto conto dello stato dei luoghi e della struttura topografica dell'edificio, non sia in alcun modo possibile collocare altrove, sì da essere costretti a violare le norme sul rapporto di vicinato, salvo ovviamente l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui.

Si tratta di operare un equo contemperamento dei contrapposti interessi valutando la natura indispensabile o meno dell'intervento del singolo: una cosa sono le tubazioni di un bagno, altro quelle di un impianto di condizionamento d'aria che servono ad incrementare la comodità o l'amenità dell'alloggio, anche se attualmente, a seguito del caldo torrido delle ultime stagioni, l'aria condizionata nelle case adibite ad abitazione sta diventando (come nelle autovetture) un elemento di serie e non più un optional.

Il tutto va, però, visto in un'ottica che tende a dare un valore preminente alla tutela della persona e delle sue possibilità di espletare una vita libera e dignitosa rispetto al contenuto reale della proprietà sul bene, sicché vanno sempre rapportati alle esigenze attuali (mutevoli nel tempo) i rilievi secondo cui, ai fini dell'applicabilità delle norme sulle distanze legali alle costruzioni eseguite sulle parti comuni di un edificio in condominio, occorre distinguere tra le funzioni «primarie» e fondamentali attribuite a tali parti in relazione al fine per cui il condominio è stato costituito e le eventuali utilizzazioni «secondarie» di cui le stesse parti sono suscettibili al di fuori di un rapporto di connessione inscindibile con la struttura e la funzionalità del condominio; infatti, nel mentre deve affermarsi la prevalenza del perseguimento delle funzioni primarie delle parti comuni rispetto all'osservanza delle norme sulle distanze legali, queste norme devono, invece, essere applicate riguardo alle utilizzazioni secondarie delle menzionate parti, quali le costruzioni eseguite da un condomino sul muro comune per scopi estranei alla sua funzione tipica (Cass. II, n. 1941/1981).

Del resto, è sotto gli occhi di tutti che il condominio si presenta come una complessa situazione giuridica, in cui interagiscono diritti reali, diritti di credito e diritti personali, ma il trend è sicuramente nel senso di una tutela sempre più intensa della primaria funzione abitativa rispetto alla quale dovrebbero fare i conti e, se del caso, cedere il passo, tutte quelle posizioni strettamente connesse a logiche proprietarie.

L'uso esclusivo

Il comma 2 dell'art. 1102 c.c. prevede che: «Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso».

La norma contempla l'ipotesi che il singolo possa usucapire – ossia acquistare il diritto di proprietà per il possesso reiterato nel tempo – l'intero diritto, o una quota superiore a quella spettantegli, sul bene comune.

Non c'è dubbio che il semplice godimento esclusivo, da parte di uno dei comproprietari, fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri partecipanti, in via di principio, non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di questi ultimi e, ancor meno, per coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, conseguendone che colui il quale utilizza in via esclusiva il bene comune non è tenuto a corrispondere alcunché al comproprietario pro indiviso che rimanga inerte o, a maggior ragione, se abbia consentito, in modo certo ed inequivoco, tale uso esclusivo (Cass. II, n. 2423/2015; Cass. II, n. 24647/2010). Nondimeno, occorre tener presente che, in tema di uso della cosa comune secondo i criteri stabiliti nel comma 1 dell'art. 1102 c.c., lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri e non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione (Cass. II, n. 17208/2008, che ha escluso la legittimità dell'installazione e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone).

Tuttavia, il condomino, anche se usa la cosa comune in modo più intenso rispetto agli altri partecipanti, non estende il suo dominio su di essa, neppure sotto il profilo dell'acquisto di maggiori poteri, essendo all'uopo necessario il compimento di atti idonei a mutare il titolo del suo possesso (ad esempio, il proprietario dell'ultimo piano che ha, per titolo, l'uso esclusivo del lastrico solare, non può, per il solo fatto di utilizzare lo stesso, far venir meno l'indefettibile funzione di protezione dell'edificio).

Ma anche nel caso particolare in cui, in forza di una convenzione privata o di una deliberazione presa all'unanimità (Cass. II, n. 5709/1987; Cass. S.U. , n. 5990/1984), si conferisca l'uso di un bene comune ad uno soltanto dei condomini, non viene meno la contitolarità sul bene stesso, sicché la facoltà di utilizzazione della cosa trova un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri, nel senso che sono consentite le opere necessarie al miglior godimento, mentre potrebbe ravvisarsi una lesione del diritto di comproprietà dei condomini quando la cosa sia alterata (in tutto o in parte) sottraendola alla possibilità dell'attuale sfruttamento collettivo nelle modalità funzionali originariamente praticate.

Si rivela interessante, al riguardo, la precisazione offerta dai giudici di legittimità in ordine alla peculiare qualificazione del possesso in àmbito condominiale (Cass. II, n. 16496/2005; Cass. II, n. 855/2000): le parti comuni di un edificio formano oggetto di un compossesso pro indiviso che si esercita diversamente a seconda che le cose/servizi/impianti siano oggettivamente utili alle singole unità immobiliari, a cui sono collegati materialmente o per destinazione funzionale (come ad esempio per suolo, fondazioni, muri maestri, facciata, tetti, lastrici solari oggettivamente utili per la statica), oppure siano utili soggettivamente, sicché la loro unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipenda dall'attività dei rispettivi proprietari (come ad esempio per scale, portoni, anditi, portici, stenditoi, ascensore, impianti centralizzati per l'acqua calda o per aria condizionata); pertanto, nel primo caso, l'esercizio del possesso consiste nel beneficio che l'appartamento singolo – e solo per traslato il proprietario – trae da tali utilità, nel secondo caso, nell'espletamento della predetta attività da parte del proprietario.

L'usucapione della cosa comune

Occorre ora verificare quali sono i requisiti affinché il singolo condomino possa usucapire la cosa comune.

In generale, il possesso ad usucapionem si caratterizza per il prolungato esercizio del potere di fatto sulla cosa da parte del possessore (Cass. II, n. 16497/2005). Costituiscono cioè elementi costitutivi dell'usucapione il possesso non viziato, e quindi palese (nec clam) e non violento (nec vi), ex art. 1163 c.c., ed il tempo stabilito dalla legge per il quale il possesso medesimo deve prolungarsi. L'apprezzamento della pienezza, non equivocità ed esclusività del possesso utile ad usucapionem sono rimessi all'apprezzamento del giudice di merito. Non occorre invece verificare la buona fede dell'usucapiente, né, all'infuori dell'ipotesi dell'usucapione abbreviata, l'esistenza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà.

Il fenomeno dell'usucapione della cosa comune in ambito condominiale si risolve nell'acquisto della proprietà piena sulla cosa da parte del comproprietario, titolare di una quota del bene in comunione, attraverso l'esercizio di un potere di fatto esclusivo ed incompatibile con il godimento degli altri comproprietari (Cass. S.U., n. 5087/2015). Si deve in proposito considerare che ciascun comproprietario è titolare, quanto alle cose comuni, di una posizione sia attiva che passiva. E, cioè, può godere della cosa comune entro i limiti in generale segnati dall'art. 1102 c.c., senza impedire agli altri condomini di farne parimenti uso; ma, ai sensi dell'art. 1122 c.c., non può eseguire nell'unità immobiliare di sua proprietà, ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino un pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.

Ciò detto, vale rammentare che l'art. 1102, comma 2, c.c., norma come si è visto dettata per la comunione, ma applicabile al condominio in applicazione del rinvio di cui all'art. 1139 c.c., stabilisce che: «Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso». La norma regola dunque per l'appunto l'estensione del diritto sulla cosa comune mediante usucapione per una quota maggiore, ovvero mediante usucapione di tutta la cosa da parte del singolo comunista (Visco, 203). Con tale previsione il legislatore ha inteso rispondere alla vexata quaestio concernente la possibilità del condomino di usucapire la cosa comune e delle condizioni che devono concorrere perché tale possibilità abbia luogo. È viceversa da ritenere ormai superata la tesi tradizionale secondo cui il singolo condomino non potrebbe usucapire una parte comune in condominio, in ragione dell'indivisibilità sancita dall'art. 1119 c.c., tanto più che lo stesso art. 1119 c.c., anche dopo la novella di cui alla legge n. 220 del 2012, prevede un'indivisibilità solo relativa delle parti comuni dell'edificio. Mentre non è configurabile una rinuncia da parte dei condomini ai loro diritti sulle parti comuni, ex art. art. 1118 c.c., sicché non assume rilievo sotto tale profilo il non uso di esse, è d'altro canto possibile che il singolo condomino estenda la propria posizione giuridica, acquistando la proprietà esclusiva di una parte comune mediante il possesso continuato per il tempo normativamente previsto, senza che gli altri condomini si oppongano all'esercizio del possesso ad usucapionem da parte sua.

Nell'esaminare le peculiarità dell'usucapione in ambito condominiale si deve ricordare che le parti comuni di un edificio formano oggetto di un compossesso pro indiviso che si esercita diversamente a seconda che esse siano oggettivamente o soggettivamente utili, ossia a seconda che siano collegate strutturalmente o funzionalmente alle singole unità immobiliari ovvero che, al contrario, diventino utili a seguito di una particolare attività posta in essere dai proprietari, come ad esempio l'uso dell'ascensore o dell'impianto centralizzato.

Nel primo caso, e cioè nell'ipotesi della sussistenza di un nesso di oggettiva strumentalità che lega le parti comuni alle proprietà solitarie, l'usucapione non può aver luogo. Alle parti comuni è dedicato l'art. 1117 c.c., il quale stabilisce una presunzione legale di comunione di talune parti dell'edificio, presunzione che può essere esclusa da un titolo contrario, da cui può invece risultare che la cosa è di proprietà esclusiva di un singolo. Ebbene, anche l'usucapione può costituire contrario titolo tale da superare la presunzione di comproprietà di cui all'art. 1117 c.c. (Celeste 2016, 148). La presunzione di comproprietà è allora superata dall'acquisto della proprietà esclusiva della cosa da parte di uno dei condomini, che abbia esercitato su una parte comune il possesso ad usucapionem per il tempo prescritto. E tuttavia l'esercizio del possesso uti dominus, tale da dar luogo all'acquisto della proprietà per effetto dell'usucapione, non sempre è possibile. Una volta ribadito che il condomino è come tale comproprietario delle cose comuni, e così è abilitato a goderne nomine proprio (Visco, 68), occorre per l'integrazione del possesso utile ai fini dell'usucapione non solo che l'esercizio del potere di fatto sulla cosa si manifesti in modo pieno ed esclusivo, ma anche che tale esercizio risulti incompatibile con quello degli altri condomini (Celeste 2016, 146). Ma vi sono delle parti comuni, basti pensare al tetto, la cui oggettiva strumentalità rispetto al godimento delle proprietà solitarie non può essere recisa: e cioè, quale che sia il modo in cui l'esercizio del potere di fatto da parte del singolo condomino si manifesti, resta il fatto che il tetto – ovvero altre parti comuni con analoghe caratteristiche – continua a svolgere la sua funzione di copertura di tutte le sottostanti unità immobiliari, e dunque è necessariamente utilizzato da tutti i condomini interessati. In definitiva «non è ... ipotizzabile l'usucapione con riferimento ad alcune parti comuni dell'edificio (come il tetto), atteso che non possono essere soppresse le utilità tratte dagli altri partecipanti al condominio per effetto della connaturata destinazione di tali cose» (Celeste 2016, 146).

Nella giurisprudenza della Suprema Corte, sono stati individuati gli atti idonei ad espandere il possesso del condomino in modo tale da renderlo esorbitante rispetto alla nozione di «uso più intenso» e così idoneo all'acquisto della proprietà per usucapione.

Viene affermato che il singolo comunista che intende espandere in via esclusiva il possesso sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli specifici atti di interversio possessionis previsti dagli artt. 1141 e 1164 c.c., rispettivamente per il mutamento della detenzione in possesso e di un diritto reale su cosa altrui in possesso corrispondente all'esercizio della proprietà, deve tuttavia porre in essere un comportamento durevole ed idoneo ad evidenziare il possesso esclusivo ed animo domini sulla cosa, incompatibile con il permanere di quello altrui (Cass.II, n. 11903/2015). Si afferma dunque che il condomino può usucapire la cosa comune senza la necessità di una formale interversione del possesso, dal momento che il condomino esercita già su quel dato bene un potere di fatto corrispondente all'esercizio di un diritto di proprietà, sicché è sufficiente soltanto un ampliamento di quel diritto in termini di esclusività ed assolutezza. È stato esaminato il caso della realizzazione di costruzioni da parte del singolo condomino su parti comuni, con l'affermazione che tale atto rileva quale interversione del possesso qualora il condomino faccia venir meno l'uso comune della cosa in questione e la renda inconciliabile con l'uso degli altri condomini (Cass. II, n. 17462/2009). La recinzione degli spazi è la modalità tipica di manifestare l'intenzione di volersi appropriare del bene. In una pronuncia in cui si prende atto dell'accertamento secondo cui «recintando l'area, costruendovi sopra e piantandovi alberi, escludendone stabilmente i comproprietari, gli appellanti si sono comportati come proprietari per oltre venti anni», si trova affermato il principio in forza del quale i beni condominiali possono essere acquistati in proprietà esclusiva per usucapione. A tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, né che essi siano stati tolleranti per amore del buon vicinato, bensì occorre dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus per il tempo utile ad usucapire (Cass. II, n. 26061/2016). Non occorre in definitiva che il condomino faccia opposizione al diritto degli altri partecipanti alla comunione, ai sensi degli artt. 1141 e 1164 c.c., ma deve provare in giudizio, ai fini dell'usucapione, che il proprio possesso animo domini si è esplicato nel compimento di atti tali da escludere il godimento della residua compagine condominiale. Rimane ferma la regola per la quale il possesso ad usucapionem richiede non solo il corpus possessionis ma anche l'animus possidendi, ossia l'elemento soggettivo che consistente nella volontà del soggetto di tenere la cosa presso di sé e di utilizzarla come propria.

Viceversa, l'utilizzo più intenso della cosa comune da parte di un condomino rispetto agli altri partecipanti, non estende il suo dominio su di essa, neanche riconoscendogli maggiori poteri. Il partecipante alla comunione può infatti usare la cosa comune per un suo fine particolare, con la conseguente possibilità di trarre dal bene un'utilità specifica aggiuntiva rispetto a quelle che vengono ricavate dagli altri e con il limite di non alterare la consistenza e la destinazione di esso, o di non impedire l'altrui pari uso (Cass. II, n. 21256/2009). La nozione di pari uso della cosa comune deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare. Essa non deve essere intesa quindi nel senso di uso identico e simultaneo, dovendo semplicemente ritenersi fisiologico nei rapporti condominiali, improntati sul principio di solidarietà, la facoltà per uno di trarre dalla cosa comune una più intensa utilizzazione, senza ovviamente mutare la destinazione originaria del bene (Cass. II, n. 1499/1998). Ne consegue che qualora si ipotizzi che gli altri partecipanti non faranno un uso paritetico della cosa comune, la massima espansione dell'uso di ciascun condomino è da ritenersi legittima. Sicché, ai fini dell'usucapione, è necessaria la manifestazione del dominio esclusivo da parte dell'interessato attraverso un'attività apertamente contrastante e incompatibile con il possesso altrui.

Tale attività deve esplicare l'inequivoca volontà del condomino di possedere uti dominus e non più uti condominus e deve quindi contrastare in modo palese con la possibilità di godimento degli altri partecipanti. In definitiva il comproprietario può usucapire la cosa comune estendendo la propria signoria e rafforzando la propria relazione di fatto con la res communis attraverso il godimento, per il tempo utile ad usucapire, in modo inconciliabile con il godimento altrui, non essendo sufficiente che gli altri condomini si siano limitati ad astenersi dal godimento (Celeste 2016, 149, il quale precisa che non è sufficiente, affinché il condomino-compossessore possa estendere il suo possesso in via esclusiva sul bene comune, che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso comune, stante l'imprescrittibilità del diritto di comproprietà).

L'onere probatorio concernente i requisiti del possesso grava su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cass. II, n. 17462/2009, che ha ritenuto che i lavori di ristrutturazione e di riparazione realizzati a proprie spese da uno dei condomini, non provassero in modo univoco e preciso che il partecipante avesse avuto l'autonomo ed esclusivo godimento dei beni comuni di cui pretendeva essere divenuto proprietario per usucapione: la Suprema Corte ha ritenuto l'irrilevanza delle circostanze addotte da parte del ricorrente principale, ai fini della prova dell'usucapione, posto che il godimento esclusivo dei beni in questione o i lavori eseguiti dal condomino non comportano di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con il permanere del possesso altrui), non essendo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo partecipante, atti meramente tollerati per rapporti di buon vicinato o singoli atti che si concretizzino soltanto nel soddisfacimento di obblighi o nel miglioramento della cosa comune.

Il condomino che deduce di aver usucapito la parte comune non deve limitarsi a provare il proprio uso esclusivo, seppur continuato e protratto nel tempo, ma deve provare una condotta tale da evidenziare un avvenuto mutamento di fatto nel titolo del possesso, idonea a rendere evidente agli altri compossessori la propria intenzione di non possedere più come semplice compossessore (Visco, 255).

Insomma, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso; a tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza opposizione, per il tempo utile a usucapire. Il condomino che deduce di aver usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all'usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti unicamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà (Cass. II, n. 20039/2016).

Occorre quindi soffermarsi sulla relazione che intercorre tra possesso e tolleranza, a partire dall'interpretazione dell'art. 1144 c.c. che vede gli atti tollerati come fattori impeditivi all'acquisto del possesso. Il fenomeno della tolleranza ricorre per lo più in dipendenza dei rapporti tra il proprietario e l'utilizzatore, come nel caso di amicizia, parentela o vicinato. Orbene la mera permissio da parte del proprietario, a favore di amici o vicini, esclude ogni tipo di pretesa possessoria sottesa al godimento che questi ultimi ne abbiano tratto, implicando generalmente un rapporto di transitorietà ed occasionalità e non un esercizio sistematico e reiterato del potere di fatto sulla cosa (Cass. II, n. 3404/2009).

Affinché si abbia possesso ad usucapionem, insomma, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto che dimostri inequivocabilmente l'intenzione di esercitare il potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena, e, quindi, una signoria sulla cosa che permanga per tutto il tempo indispensabile per usucapire, senza interruzione, sia per quanto riguarda l'animus che il corpus, e che non sia dovuta a mera tolleranza, la quale è da ravvisarsi tutte le volte che il godimento della cosa, lungi dal rivelare l'intenzione del soggetto di svolgere un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale, tragga origine da spirito di condiscendenza (Cass. II, n. 3898/2017).

In particolare, in tema di usucapione, per stabilire se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e sia quindi inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell'esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (Cass. II, n. 11277/2015). E cioè, gli atti di tolleranza, che secondo l'art. 1144 c.c. non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità, i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissivo, conducono per converso a escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone. Pertanto nell'indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza, e quindi sia inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia e di buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo (Cass. II, n. 4327/2008).

In definitiva, riassumendo, compiere «atti idonei a mutare il titolo del suo possesso» significa comportarsi da padrone sulla cosa comune (o su una porzione di essa), ma per il condomino risulta più difficile usucapire, poiché non è sufficiente allo scopo quel comportamento che gioverebbe ad un estraneo (Colonna, 677; Natali, 83); a differenza di questi, il condomino già possiede, in quanto tale, nomine proprio, sicché è necessaria – non tanto un'interversione del possesso, ma – un quid pluris che sia incompatibile con il permanere del compossesso degli altri (compossesso che potrebbe essere esercitato mediante lo stesso condomino che voglia usucapire, come qualora il singolo conceda in comodato un locale comune ad uno dei condomini).

Pertanto, affinché il condomino-compossessore possa estendere il suo possesso in via esclusiva sul bene comune, e quindi comportare – se protratto per il relativo tempo utile stabilito dalla legge – l'acquisto della proprietà dell'altrui quota indivisa per usucapione, non è sufficiente: a) che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso della cosa, stante l'imprescrittibilità del diritto di comproprietà (Cass. II, n. 12260/2002; Cass. II, n. 2622/1984); b) un'utilizzazione di detto bene più intensa e diversa da quella praticata dagli altri condomini, potendo ben rientrare nei canoni contemplati dall'art. 1102 c.c. (Cass. II, n. 3226/1984), c) singoli atti di utilizzazione della cosa comune aldilà della misura del potere del singolo partecipante (si pensi al mero deposito saltuario di alcuni mobili), i quali sono da presumersi compiuti per mera tolleranza degli altri partecipanti (v., in una fattispecie di prolungato uso, quale parcheggio, di un'area di proprietà condominiale, Cass., II, n. 1384/1998).

Occorrono, invece, atti integranti un comportamento durevole, tale da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini su tutta la cosa (Cass. II, n. 5085/2006; Cass. II, n. 9106/2000; Cass. II, n. 6382/1999; Cass. II, n. 5127/1999; Cass. II, n. 2261/1998; Cass. II, n. 319/1985), con condotte continuative incompatibili con il permanere del compossesso altrui, oppure un godimento tale da mettere in luce un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus (Cass. II, n. 23539/2011; Cass. II, n. 17322/2010; Cass. II, n. 12775/2008; Cass. II, n. 11696/1999; Cass. II, n. 5687/1996; Cass. II, n. 6669/1981), unitamente al cambiamento della destinazione funzionale del bene (da comune ad esclusiva) con mutamento della situazione oggettiva (ad esempio, incorporazione di un pianerottolo, od occupazione di parte del cortile).

In tale linea, è stato ribadito che, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso; a tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza opposizione, per il tempo utile a usucapire. Il condomino che deduce di aver usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all'usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti unicamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà (Cass. II, n. 20039/2006).

Anche di recente è stato ribadito che, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva (Cass. II, n. 11903/2015, che ha ritenuto che il giudice di merito avesse, correttamente, escluso l'avvenuto acquisto per usucapione, da parte di un condomino, della porzione del condotto di scarico della spazzatura adiacente al suo appartamento per non essersi palesata in forme inequivoche per gli altri condomini l'intenzione di possedere attesa l'impossibilità, per loro, di ispezionare il condotto a causa del blocco degli sportelli di accesso – presenti su tutti i ballatoi – dovuto a ragioni pratiche e di sicurezza).

Vale infine rammentare, in argomento, che, In tema di condominio negli edifici, ove un condomino, convenuto con azione di riduzione in pristino di uno spazio di proprietà comune, proponga un'eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, non si configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario in relazione ai restanti condomini, sussistente, invece, in caso di domanda riconvenzionale di riconoscimento della proprietà esclusiva del bene, risolvendosi detta eccezione, che pur amplia il thema decidendum, in un accertamento incidenter tantum, destinato ad esplicare efficacia soltanto fra le parti (Cass. II, n. 14765/2012).

Il condominio minimo

Nel discorrere della norma di rinvio contenuta nell'art. 1139 c.c. occorre soffermarsi sulla figura del c.d. condominio minimo, dal momento che ad esso sono strutturalmente inapplicabili talune disposizioni pensate per compagine condominiale di maggiori dimensioni: di guisa che, non potendosi applicare in tal caso le norme contenute nel capo dedicato al condominio, occorre far ricorso a quelle concernenti la comunione. Difatti, il sistema legislativo vigente presuppone necessariamente una pluralità di partecipanti al condominio, in numero superiore a due, giacché, in caso contrario, non può realizzarsi il congegno, che innerva la disciplina, di funzionamento dell'assemblea, sia per quanto attiene alla sua costituzione, sia per quanto concerne la formazione delle maggioranze contemplate dal codice (Terzago 2007, 829).

Sulla materia è stata pronunciata una importante decisione delle Sezioni Unite (Cass.  S.U., n. 2046/2006), la quale ha affermato che la diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 c.c. in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell'altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell'urgenza, trova fondamento nella considerazione che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. Ne discende che, istaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, poiché tale situazione si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell'urgenza, ai sensi dell'art. 1134 c.c. È stato inoltre aggiunto che la disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l'impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell'assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all'unanimità, quanto, a fortiori, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni.

Con tale decisione, le Sezioni Unite hanno composto un contrasto di giurisprudenza, aderendo alla soluzione maggioritaria (Cass. II, n. 13371/2005; Cass. II, n. 5914/1993; Cass. II, n. 7181/1997; Cass. II, n. 4364/2001), che aveva parimenti ritenuto che il diritto al rimborso della spesa sostenuta per la conservazione del bene comune da parte del partecipante al condominio composto da due soli condomini fosse disciplinato dall'art. 1134 c.c., che lo riconosce in presenza del presupposto dell'urgenza, e non dall'art. 1110 c.c., secondo cui è invece sufficiente il requisito della trascuranza (tesi, quest'ultima, sostenuta da Cass. II, n. 5664/1998). La decisione si segnala per l'articolato svolgimento della motivazione. Per un verso, la pronuncia si sofferma sul fondamento della diversità di disciplina, tra comunione e condominio, in materia di rimborsabilità delle spese necessarie di conservazione, identificata nella relazione, in termini di interesse sostanziale e di utilità, tra la posizione soggettiva dei partecipanti ed i beni comuni nelle due fattispecie. Per altro verso, la decisione pone in rilievo l'assenza di ostacoli, giuridici o tecnici, alla applicabilità al condominio minimo della disciplina dettata dal codice in materia di condominio, anche con riguardo alle norme di organizzazione e funzionamento interno. 

Sulla scia di detta pronuncia, la Suprema Corte ha anche di recente ribadito che, nel condominio c.d. minimo (formato, cioè, da due partecipanti con diritti di comproprietà paritari sui beni comuni), le regole codicistiche sul funzionamento dell'assemblea si applicano allorché quest'ultima si costituisca regolarmente con la partecipazione di entrambi i condomini e deliberi validamente con decisione «unanime», tale dovendosi intendere quella che sia frutto della partecipazione di ambedue i comproprietari; ove, invece, non si raggiunga l'unanimità, o perché l'assemblea, in presenza di entrambi i condomini, decida in modo contrastante, oppure perché, come nella specie, alla riunione benché regolarmente convocata – si presenti uno solo dei partecipanti e l'altro resti assente, è necessario adire l'autorità giudiziaria, ai sensi degli artt. 1105 e 1139 c.c., non potendosi ricorrere al criterio maggioritario (Cass. II, n. 16901/2017; Cass. II, n. 5329/2017). Anche da ultimo è stato ribadito che, laddove i condomini legittimati a partecipare all'assemblea siano solo due e manchi l'unanimità, essi sono costretti a ricorrere all'autorità giudiziaria come sostenuto anche dagli artt. 1105 e 1139 c.c. . Il voto di ciascun condomino deve infatti essere conteggiato singolarmente e non deve essere conteggiato secondo il numero di diritti vantati sugli immobili dell'edificio (Cass. II, n. 25558/2020).

In tale frangente nulla esclude che i componenti del condominio «minimo», provvedano alla nomina dell'amministratore ovvero all'approvazione del regolamento condominiale, a condizione che, come si è appena visto, si raggiunga un consenso totalitario dei due componenti del condominio. È stato difatti stabilito che, Instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali e riscontrandosi la medesima situazione nel condominio cd. «minimo», ne discende che anche rispetto a quest'ultimo trova applicazione, sia per l'organizzazione interna dell'assemblea che per le situazioni soggettive dei partecipanti, la disciplina di cui agli artt. 1117 ss. c.c., potendo pertanto in tal caso i condomini, in applicazione del principio maggioritario ed anche se in numero inferiore, rispettivamente, a quattro e dieci, nominare un amministratore ed approvare un regolamento (Cass. VI/II, n. 20071/2017).

Va ancora rammentato che, in tema di condominio negli edifici, la comunicazione, da parte di un condominio, del riparto delle spese non può sostituire l'atto presupposto, ossia la delibera di approvazione, che è necessaria anche in presenza di un condominio composto di due soli condomini, cui è applicabile l'art. 1136 c.c.; mentre il pagamento di acconti non può costituire prova di una delibera di approvazione delle spese inesistente. Resta, peraltro, possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del combinato disposto degli art. 1105 e 1139 c.c. (Cass. VI/II, n. 5288/2012).

Atti di alienazione del fondo comune

Ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. (applicabile al condominio in virtù del rinvio operato dall'art. 1139 c.c.), è richiesto il consenso di tutti i comunisti – e, quindi, della totalità dei condomini – per gli atti di alienazione del fondo comune, o di costituzione su di esso di diritti reali, o per le locazioni ultranovennali, con la conseguenza che tale consenso è necessario anche per la transazione che abbia ad oggetto i beni comuni, potendo essa annoverarsi, in forza dei suoi elementi costitutivi (e, in particolare, delle reciproche concessioni), fra i negozi a carattere dispositivo. Pertanto, non rientra nei poteri dell'assemblea condominiale – che decide con il criterio delle maggioranze – autorizzare l'amministratore del condominio a concludere transazioni che abbiano ad oggetto diritti comuni. Conseguentemente, ove – come nella fattispecie – non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 1108, comma 3, c.c., perché la transazione inerisce un mero diritto obbligatorio (compenso spettante ad un professionista per prestazione resa nell'interesse del condominio), è valida la delibera adottata a maggioranza (Cass. VI/II, n. 7201/2016).

Nella stessa prospettiva, ai sensi dell'art. 1135 c.c., l'assemblea può deliberare a maggioranza su tutto ciò che riguarda le spese d'interesse comune e, quindi, anche sulle transazioni che a tali spese afferiscano, essendo necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c., solo quando la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni (Cass. II, n. 821/2014). Ed ancora, ai sensi della stessa disposizione, per la costituzione di diritti reali sulle parti comuni è necessario il consenso di tutti i condòmini, che non può essere sostituito da una deliberazione assembleare a maggioranza e dal decorso del tempo necessario a consolidarla (Cass. II, n. 15024/2013).

Obbligazioni gravanti sul cessionario

L'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. limita al biennio precedente all'acquisto l'obbligo del successore nei diritti di un condomino di versare, in solido col dante causa, i contributi da costui dovuti al condominio. Trattasi di norma speciale rispetto a quella posta, in tema di comunione in generale, dall'art. 1104, ultimo comma, c.c., che rende il cessionario obbligato, senza alcun limite di tempo, in solido col cedente, a pagare i contributi dovuti dal cedente e non versati. Pertanto, in tema di contributi condominiali va fatta applicazione dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., poiché, il rinvio operato dall'art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione in generale vale, per espressa previsione dello stesso articolo, solo per quanto non sia espressamente previsto dalle norme sul condominio (Cass. II, n. 16975/2005; Trib. Parma 11 ottobre 2017).

Si osserva nella pronuncia di legittimità citata che l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c. costituisce norma speciale rispetto a quella posta, in tema di comunione in generale, dall'art. 1104, ultimo comma, c.c., che rende il cessionario obbligato, senza alcun limite di tempo, in solido col cedente, a pagare i contributi dovuti dal cedente e non versati. Pertanto, in tema di contributi condominiali va fatta applicazione dell'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., poiché, il rinvio operato dall'art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione in generale vale, per espressa previsione dello stesso articolo, solo per quanto non sia espressamente previsto dalle norme sul condominio. Nè può aderirsi alla tesi che collega alla natura di disposizione di attuazione dell'art. 63 citato l'impossibilità di derogare alle norme previste dal capo II del titolo VII del codice civile, cui l'art. 1139 c.c. fa letteralmente rinvio, sia perché un'interpretazione logica di quest'ultima norma induce a ritenere il rinvio esteso a tutte le norme specificamente dettate in tema di condominio e, quindi, anche a quelle poste in materia da disposizioni di attuazione del codice civile, sia perché non esiste una gerarchia tra le norme del codice civile e quelle di attuazione di esso sia perché, comunque, non è ravvisabile alcun contrasto tra la disposizione dell'art. 1123 c.c., posta in via generale con riferimento al contenuto dell'obbligo contributivo previsto a carico dei condomini e l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., che prevede l'obbligo solidale dal cessionario circoscrivendolo nel tempo. Da ultimo, non ha pregio l'argomento del favor verso il condominio, espresso dall'art. 63 e valorizzato anche al fine di interpretare la disposizione dettata dal 2 comma, poiché tale favor, indubbiamente presente in tutte le disposizioni dell'articolo, con riferimento alla previsione del secondo comma si manifesta con l'istituire la responsabilità solidale del cessionario accanto a quella del cedente, limitandola, però, all'esercizio in corso al tempo della cessione ed a quello precedente, in deroga alla illimitata previsione dell'art. 1104, ultimo comma, c.c. in tema di comunione generale.

La Suprema Corte si è inoltre espressa sulla materia affermando che la responsabilità solidale dell'acquirente di una porzione di proprietà esclusiva per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63, comma 2, disp. att. c.c., e non già l'art. 1104 c.c., atteso che, ai sensi dell'art. 1139 c.c., le norme sulla comunione in generale si estendono al condominio soltanto in mancanza di apposita disciplina (Cass. II, n. 2979/2012, che, in applicazione dell'enunciato principio, ha cassato la sentenza di merito la quale, nell'interpretare la clausola di un contratto preliminare, che prevedeva l'obbligo della promittente venditrice di estinguere ogni debito nei confronti del condominio prima della stipula del definitivo, aveva ritenuto che l'impegno così assunto riguardasse i contributi dovuti dal venditore, già cessionario a sua volta dell'alloggio, non nei limiti dell'art. 63, disp. att. c.c., ma per intero, sostanzialmente affermando l'applicabilità dell'art. 1104 c.c.).

Eccesso di potere nelle delibere condominiali

La disciplina condominiale non contiene un'espressa disposizione in tema di invalidità delle delibere assembleari perché viziata da eccesso di potere, nozione che viene viceversa integrata dalla giurisprudenza nei riguardi di deliberazioni che, quantunque formalmente corrette, perseguono un interesse diverso da quello della compagine condominiale considerata nel suo complesso, col risultato della lesione da parte della maggioranza dei diritti della minoranza.

Nell'elaborazione della nozione di eccesso di potere, quale vizio delle delibere condominiali, possiede un rilievo centrale l'art. 1109 c.c., applicabile al condominio ex art. 1139 c.c., in forza del quale il potere d'impugnazione di dette delibere si estende anche alla decisione approvata dalla maggioranza che rechi grave pregiudizio alla cosa comune ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante (Cass. II, n. 25128/2008, la quale ha cassato la sentenza della corte territoriale per avere questa rigettato, sull'assunto della non sindacabilità per eccesso di potere delle delibere condominiali, l'impugnazione della delibera con cui un condominio aveva respinto la proposta di licenziamento del custode perché assente nell'orario di lavoro in quanto impegnato in servizi a pagamento a condomini richiedenti).

Nel soffermarsi sui termini della questione, occorre rammentare che è prerogativa dell'assemblea la gestione dei beni e servizi condominiali, mediante l'adozione di deliberazioni alle quali, poi, l'amministratore darà esecuzione. Spetta a ciascun condomino l'impugnazione delle deliberazioni adottate, entro i limiti di cui agli artt. 1137 e 1133 c.c. quanto, rispettivamente, ai provvedimenti assunti dall'assemblea ovvero dall'amministratore. L'intervento del giudice, al riguardo, è limitato al caso di difformità dai canoni legali e/o regolamentari applicabili, nonché di inerzia dell'assemblea o dell'amministratore. Nel primo caso il condomino dissenziente può impugnare la delibera assembleare o il provvedimento dell'amministratore ritenuto illegittimo; nel secondo caso può sollecitare gli interventi suppletivi previsti dalla legge, ossia la designazione giudiziale dell'amministratore ex art. 1129 c.c. ovvero i provvedimenti di cui all'art. 1105, comma 4, c.c. Il controllo giudiziale, alla luce del dato normativo, è in ogni caso limitato alla verifica della sola legittimità delle deliberazioni prese, escluso ogni apprezzamento sul merito delle soluzioni adottate, sotto il profilo della loro opportunità, convenienza ed effettiva rispondenza e idoneità a soddisfare le esigenze condominiali.

Opera al riguardo l'art. 1137, comma 2, c.c., che consente l'impugnazione delle sole delibere assembleari «contrarie alla legge o al regolamento di condominio», così escludendo l'iniziativa giudiziale da parte del condomino che ritenga le scelte fatte inopportune o inadeguate. In altre parole la discrezionalità dell'assemblea, purché vengano rispettate le regole prescritte dalla legge, non può essere oggetto di valutazione da parte del giudice. Vengono così armonizzate, sul piano normativo, esigenze contrapposte, da un lato quelle individuali al controllo dell'operato degli organi gestori del condominio, dall'altro quelle concernenti la stessa funzionalità dell'attività di gestione, la quale rischierebbe di rimanere compromessa in caso di dilatazione del controllo giurisdizionale sino all'apprezzamento l'adeguatezza ed appropriatezza delle decisioni adottate dalla maggioranza dei condomini. In linea di principio, dunque, non è consentito al giudice intervenire sull'attività gestionale del condominio, condizionandone nel merito le relative opzioni. All'opposto, l'interesse del singolo condomino a rimettere in discussione le scelte operate dalla maggioranza ha natura di interesse di mero fatto, che non riceve come tale tutela giurisdizionale (Cass.II,n. 10199/2012; Cass.II,n. 5889/2001; Cass.II,n. 1165/1999).

Una troppo rigida applicazione del principio di insindacabilità delle scelte gestionali condominiali, tuttavia, potrebbe talora legittimare la perpetrazione di abusi da parte della maggioranza in pregiudizio della minoranza. Di qui la facoltà, riconosciuta per via pretoria, di ammettere il condomino dissenziente a far valere l'eccesso di potere della delibera assembleare.

Si tratta di una figura, costruita sulla falsariga del corrispondente vizio del provvedimento amministrativo, elaborata allo scopo di rendere in una certa misura elastici i limiti del controllo di mera legittimità sulle manifestazioni di volontà degli enti collettivi, a tutela di possibili prevaricazioni della maggioranza nei confronti del singolo.

Il banco di prova per l'applicazione della figura dell'eccesso di potere in materia di delibere assembleari si è avuto in ambito societario. È stato detto che ricorre l'eccesso di potere quale causa di annullamento della deliberazione assembleare di società di capitali, sotto il profilo del perseguimento di un interesse diverso da quello sociale od esclusivo di un gruppo di soci, qualora tale deliberazione costituisca il frutto di una fraudolenta attività della maggioranza, diretta a pregiudicare la società o ledere i diritti sociali degli altri partecipanti, mentre non rilevano le mere considerazioni di opportunità, con riguardo alle quali non è consentito un controllo giudiziario sulle libere scelte degli organi sociali (Cass. I, n. 818/1979). La deliberazione di scioglimento di una società, adottata dai soci nelle forme legali e con le maggioranze prescritte a tal fine, può essere invalidata, pur in mancanza delle ragioni tipiche previste dagli artt. 2377-2379 c.c., sotto il profilo dell'abuso o dell'eccesso di potere, nel caso in cui essa risulti preordinata in modo arbitrario e fraudolento dai soci maggioritari per perseguire interessi divergenti da quelli societari (e, quindi, nell'ipotesi delle società cooperative, dal fine mutualistico) oppure per ledere i diritti del singolo partecipante, come avviene nel caso in cui lo scioglimento sia indirizzato soltanto all'esclusione del socio (Cass. I, n. 3628/1986). Ed ancora, alle deliberazioni dell'assemblea di una società aventi ad oggetto l'aumento del capitale, qualora siano il frutto di un accordo di maggioranza diretto a realizzare non l'interesse sociale, ma quello personale dei partecipanti all'accordo medesimo, consistente nell'accentramento nelle proprie mani della disponibilità del capitale azionario con conseguente riduzione della partecipazione percentuale di soci impossibilitati ad esercitare il diritto di opzione, si devono considerare viziate da eccesso di potere e, pertanto, sono annullabili ai sensi dell'art. 2377 c.c., mentre la distinta ipotesi di nullità ai sensi dell'art. 2379 c.c. resta limitata ai casi di deliberazioni che si caratterizzino per impossibilità o illiceità dell'oggetto, identificato nel contenuto della deliberazione (Cass. I,n. 4323/1994).

Più in generale è stato affermato che «la delibera di una assemblea, sia essa di soci, di condomini o di associati ... può essere annullata per abuso o eccesso di potere solo quando, anche se adottata nelle forme legali e con le maggioranze prescritte, risulti arbitraria e fraudolentemente preordinata al solo perseguimento, da parte della maggioranza, di interessi diversi da quelli della compagine associativa oppure volutamente lesivi degli interessi degli altri soci, e sia priva di una propria autonoma giustificazione causale sulla base dei legittimi interessi dei soci di maggioranza» (Cass. II, n. 6361/2003).

In detta prospettiva, e con specifico riguardo alla materia condominiale, è stato così stabilito che il sindacato dell'autorità giurisdizionale sulle decisioni condominiali – che di norma non può estendersi al controllo del potere discrezionale che l'assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini – deve limitarsi al riscontro della legittimità, la quale, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, comprende anche l'eccesso di potere, che va ravvisato nel caso in cui la decisione sia deviata dal suo modo di essere; infatti in tal caso il giudice non è chiamato a controllare l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire soltanto se essa costituisca o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'organo deliberante (Cass. II, n. 28734/2008). In particolare, secondo quanto è stato già accennato, il potere d'impugnazione delle delibere condominiali per eccesso di potere è stato riconosciuto per effetto del rinvio ex art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione ed in particolare all'art. 1109 c.c., così da estenderlo alla decisione approvata dalla maggioranza che rechi grave pregiudizio alla cosa comune ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante, potendo solo entro questo limite essere valutato il merito, sotto il profilo dell'eccesso di potere, della decisione dell'assemblea condominiale» (Cass. II, n. 25128/2008).

Nello stesso senso, si è espressa la giurisprudenza di merito (v. Trib. Perugia 29 marzo 2014; Trib. Milano 25 marzo 2014; Trib. Roma 2 maggio 2012; Trib. Salerno 12 aprile 2011; Trib. Roma 18 maggio 2006). In definitiva, in tema di impugnazione delle delibere condominiali, l'autorità giudiziaria può esercitare il proprio sindacato sul cosiddetto eccesso di potere delle delibere condominiali sotto il profilo dell'eventuale sviamento dell'atto collettivo dalla funzione cui esso è preordinato (Trib. Milano 1° aprile 2015).

In una recente decisione, la Suprema Corte si è specificamente cimentata con gli aspetti caratteristici dell'eccesso di potere nel diritto amministrativo (Cass. II, n. 4216/2014, richiamata da Cass. II, n. 1187/2015). La pronuncia è stata resa in un caso in cui alcuni condomini lamentavano che l'assemblea, nella scelta del conduttore di locali condominiali, non si fosse pronunciata a favore dell'offerta più elevata, ma avesse invece preferito le qualità della persona prescelta rispetto all'entità del canone che la stessa offriva; in proposito la Corte ha affermato che va escluso che la preferenza accordata ad una proposta contrattuale di minore importo concretizzi per questo solo fatto quella forma di prevaricazione della maggioranza sulla minoranza – la quale, qualora costituisca la sola ragione per cui è stata adottata la delibera, può costituire un indice della sussistenza di un eccesso di potere assembleare (figura che peraltro la Corte ha espressamente qualificato come «incerta») – dal momento che, per pervenire ad una simile conclusione si dovrebbe, quanto meno, verificare che tale motivazione dell'agire dell'ente collettivo sia finalizzata ad incidere sulla posizione del condomino nell'ambito del condominio e quindi sul suo status e non già su un singolo rapporto tra il singolo e l'ente di gestione. La Suprema Corte ha poi aggiunto che, mentre la figura dell'eccesso di potere nel diritto amministrativo fornisce uno strumento di impugnazione diretto a superare la posizione di tendenziale sperequazione tra la parte pubblica e quella privata, invece nel diritto privato essa esercita la funzione di superare i limiti di un controllo di mera legittimità di espressioni di volontà riferibili ad enti collettivi (come le società o gli edifici condominiali) che potrebbero lasciare prive di tutela situazioni di non consentito grave pregiudizio alla cosa ed ai servizi comuni. Il potere d'impugnazione delle delibere condominiali, dunque, per effetto del rinvio disposto dall'art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione ed in particolare all'art. 1109 c.c., si estende anche alla decisione approvata dalla maggioranza che rechi grave pregiudizio alla cosa comune ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante: e solo entro questo limite il giudice può valutare il merito, sotto il profilo dell'eccesso di potere, della decisione dell'assemblea condominiale (Cass. II, n. 25128/2008).

Anche da ultimo è stato ribadito che in tema di condominio negli edifici, il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere assembleari non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo della discrezionalità di cui dispone l'assemblea, quale organo sovrano della volontà dei condomini, ma deve limitarsi ad un riscontro di legittimità che, oltre ad avere riguardo alle norme di legge o del regolamento condominiale, può abbracciare anche l'eccesso di potere, purché la causa della deliberazione risulti – sulla base di un apprezzamento di fatto del relativo contenuto, che spetta al giudice di merito – falsamente deviata dal suo modo di essere, in quanto anche in tal caso lo strumento di cui all'art. 1137 c.c. non è finalizzato a controllare l'opportunità o convenienza della soluzione adottata dall'impugnata delibera, ma solo a stabilire se la decisione collegiale sia, o meno, il risultato del legittimo esercizio del potere dell'assemblea. Ne consegue che esulano dall'ambito del sindacato giudiziale sulle deliberazioni condominiali le censure inerenti la vantaggiosità della scelta operata dall'assemblea sui costi da sostenere nella gestione delle spese relative alle cose e ai servizi comuni (Cass. VI/II, n. 20135/2017, concernente l'erogazione del compenso all'amministratore, la stipulazione di un contratto di assicurazione, la predisposizione di un fondo cassa per le spese legali).

Ne discende che il sindacato dell'autorità giudiziaria sulle delibere delle assemblee condominiali è limitato al riscontro della legittimità, che però, oltre a riferirsi alle norme di legge o del regolamento condominiale, comprende anche l'eccesso di potere, che si presenta quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, in quanto in tal caso il giudice non controlla l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma deve stabilire soltanto se essa sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'organo deliberante (Cass. II, n. 5889/2001).

Qualora la contestazione del condomino investa, prima ancora della quantificazione dell'obbligo di contribuzione, la questione se la contribuzione sia in effetti da quello dovuta, è tale ultima deliberazione che deve essere impugnata entro il termine di decadenza di trenta giorni fissato dall'art. 1137, comma 3, c.c., se si assume che la deliberazione sia affetta da vizi formali (in quanto adottata in violazione di prescrizioni legali, convenzionali o regolamentari relative al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea) o da eccesso di potere o da incompetenza, mentre resta svincolata da tale termine la delibera che invece è radicalmente nulla in quanto esorbita dai limiti delle attribuzioni dell'assemblea o concerne innovazioni lesive dei diritti di ciascun condominio sulle cose o servizi comuni o su quelle di proprietà esclusiva di ciascuno di loro (Cass.II,n. 1890/1995).

In analogia a quanto stabilito per le deliberazioni societarie, dunque, appartengono alla categoria della nullità soltanto i vizi gravi concernenti l'impossibilità giuridica o l'illiceità dell'oggetto, mentre tutti gli altri vizi, compreso quello costituito dall'eccesso di potere, danno origine a semplice annullabilità della delibera sottoposta al termine decadenziale di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c. (Trib. Genova 21 novembre 2014; Trib. Genova 12 febbraio 2000).

L'annullabilità in sede giudiziaria di una delibera della assemblea dei condomini per ragioni di merito attinenti alla opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio è configurabile soltanto nel caso di decisione viziata da eccesso di potere che arrechi grave pregiudizio alla cosa comune, secondo la previsione dell'art. 1109 c.c. (Cass. II, n. 10611/1990).

Fattispecie

Possono nella materia richiamarsi alcune decisioni.

Stipulazione di appalto per manutenzione straordinaria. Occorre l'autorizzazione dell'assemblea (o, comunque, l'approvazione, mediante sua successiva ratifica), ai sensi dell'art. 1135, comma 1, n. 4, c.c. e con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 4, c.c., per l'approvazione di un appalto relativo a riparazioni straordinarie dell'edificio condominiale. La delibera assembleare in ordine alla manutenzione straordinaria deve determinare l'oggetto del contratto di appalto da stipulare con l'impresa prescelta, ovvero le opere da compiersi e il prezzo dei lavori, non necessariamente specificando tutti i particolari dell'opera ma comunque fissandone gli elementi costruttivi fondamentali, nella loro consistenza qualitativa e quantitativa. Sono, peraltro, ammissibili successive integrazioni della delibera di approvazione dei lavori, pure inizialmente indeterminata, sulla base di accertamenti tecnici da compiersi. In ogni caso l'autorizzazione assembleare di un'opera può reputarsi comprensiva di ogni altro lavoro intrinsecamente connesso nel preventivo approvato. I condomini non possono, però, sollecitare il sindacato dell'autorità giudiziaria sulla delibera di approvazione dei lavori straordinari, censurando l'utilità dei lavori, l'adeguatezza tecnica dell'intervento stabilito o la scelta di un preventivo di spese meno vantaggioso di quello contenuto in altra offerta. Il controllo del giudice sulle delibere delle assemblee condominiali – infatti – è limitato al riscontro della legittimità, in base alle norme di legge o del regolamento condominiale e giunge fino alla soglia dell'eccesso di potere, mentre non può mai estendersi alla valutazione del merito e alla verifica delle modalità di esercizio del potere discrezionale spettante all'assemblea (Cass. II, n. 4430/2017).

Servizio di portierato e di custodia. Il potere d'impugnazione delle delibere condominiali, per effetto del rinvio disposto dall'art. 1139 c.c. alle norme sulla comunione ed in particolare all'art. 1109 c.c., si estende anche alla decisione approvata dalla maggioranza che rechi grave pregiudizio alla cosa comune ed ai servizi che ne costituiscono parte integrante e solo entro questo limite il giudice può valutare il merito, sotto il profilo dell'eccesso di potere, della decisione dell'assemblea condominiale, anche nel caso di impugnazione della delibera con cui un condominio ha respinto la proposta di licenziamento del custode perché assente nell'orario di lavoro in quanto impegnato in servizi a pagamento a condomini richiedenti (Cass. II, n. 25128/2008).

Non può mai essere dedotto come motivo di annullamento di una deliberazione dell'assemblea dei condomini l'apprezzamento di fatto, da parte della maggioranza, delle questioni trattate in assemblea, tranne che nel caso in cui la conseguente decisione maggioritaria sia viziata da eccesso di potere, nel senso che la causa del provvedimento adottato sia falsamente deviata dal suo normale modo di essere; nel caso deciso non era stato riscontrato vizio di eccesso di potere nella deliberazione dell'assemblea dei condomini che, a maggioranza, aveva deliberato di mantenere al suo posto un portiere che invece una precedente delibera assembleare aveva conferito mandato all'amministratore di licenziare, perché colpevole di appropriazione di fondi di spettanza di alcuni condomini e del condominio (Cass. II, n. 3177/1978).

Approvazione rendiconto non veritiero. Deve essere annullata per eccesso di potere la delibera dell'assemblea condominiale di approvazione di un rendiconto non veritiero, al riguardo di debiti del condominio (Cass. II, n. 731/1988).

Orario di accensione del riscaldamento. È annullabile per eccesso di potere, ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c., la delibera assembleare che abbia disposto l'accensione dell'impianto centralizzato di riscaldamento dalle ore 16,00 alle ore 22,00, con esclusione delle ore mattutine, in quanto costituisce regola generale che il riscaldamento venga erogato soprattutto nelle ore più fredde della giornata, che sono quelle di prima mattina e di sera, nelle quali vi è maggior pericolo che le condizioni climatiche possano procurare danni alla salute di coloro che vivono nell'edificio e quindi nell'interesse della comunione (Giud. Concil. Bari 10 ottobre 1989).

Delibera di non agire contro l'amministratore per mala gestio. È nulla per eccesso di potere la deliberazione dell'assemblea condominiale che abbia escluso a maggioranza di promuovere azione legale contro l'amministratore del condominio che si sia reso responsabile di atti di cattiva gestione che abbiano arrecato danni ai condomini (Trib. Milano 24 giugno 1991).

Approvazione di un preventivo di spesa meno vantaggioso. Va respinta l'impugnativa con la quale veniva contestata l'opportunità della scelta fatta dall'assemblea condominiale per aver approvato un preventivo di spesa per lavori straordinari in luogo di altro preventivo asseritamente più vantaggioso (Trib. Busto Arsizio 16 ottobre 2000).

Verifica contabile preventiva. Dal momento che destinatario del rendiconto di gestione è l'assemblea quale tipica espressione della collettività condominiale mandante, l'approvazione del rendiconto stesso in sede assembleare rappresenta di per sé fatto impeditivo dell'ulteriore esercizio di poteri di controllo sulla gestione economica da parte del singolo condomino, tranne che nell'ipotesi di invalidità della deliberazione assembleare per eccesso di potere sotto i profili procedimentali e/o sostanziali, che ricorrono qualora l'assemblea abbia fatto cattivo uso della propria discrezionalità in danno della posizione del singolo condomino esprimendo il proprio benestare nei confronti dell'operato dell'amministratore che abbia in concreto impedito al singolo una verifica documentale preventiva ovvero che abbia esposto costi non corrispondenti ad esborsi di effettiva competenza della collettività (Trib. Milano 30 novembre 1995).

Compenso abnorme dell'amministratore. Con riferimento alla delibera con cui l'assemblea condominiale aveva fissato il compenso dell'amministratore in misura abnorme ed irragionevole rispetto al compenso medio corrente nella città in cui si trovava l'edificio, ne è stata dichiarata la nullità, in quanto viziata da eccesso di potere, dal momento che mediante una simile delibera dell'assemblea condominiale si perviene al risultato di assumere statuizioni abnormi, irragionevoli e gravemente ed ingiustificatamente lesive dell'interesse comune (Pret. Catania 27 ottobre 1997).

Ratifica operato dell'amministratore. Non è viziata da eccesso di potere la delibera assembleare con la quale i condomini ratificano l'operato dell'amministratore, che, previa informazione da parte loro, abbia ordinato e fatto eseguire lavori di manutenzione aventi carattere d'urgenza al fine di eliminare il pericolo di ulteriori distacchi dalla facciata principale di pezzi di cornicione e di intonaco fatiscente, nonostante a tale scopo – di fronte dell'iniziale inerzia dell'assemblea medesima – fosse già stato nominato un amministratore ad acta (Trib. Napoli 10 febbraio 2000).

Delibera adottata su argomento non indicato nell'ordine del giorno. Integra il vizio di eccesso di potere la delibera che viene adottata senza la doverosa informazione dell'oggetto della decisione, vale a dire nei casi in cui la decisione viene adottata su un argomento che non era stato indicato nell'ordine del giorno (Trib. Padova 12 ottobre 2005).

Sede dell'assemblea. Dal momento che nessuna disposizione di legge prevede quale sia il luogo in cui deve tenersi l'assemblea, in assenza di una norma regolamentare che imponga particolari vincoli in proposito, non è illegittima neppure sotto l'aspetto dell'eccesso di potere la delibera adottata dall'assemblea di un condominio in multiproprietà, che si è svolta non nel comune in cui è ubicato l'immobile, bensì, in conformità ad una prassi consolidata, in una altra città facilmente raggiungibile da tutti i condomini (Trib. Tempio Pausania 22 maggio 2006).

Nomina del nuovo amministratore. Il giudice può valutare l'opportunità e la convenienza della gestione di un condominio soltanto nel caso di decisione viziata da eccesso di potere e idonea ad arrecare grave pregiudizio alla cosa comune, dovendo di regola limitarsi a stabilire se la delibera costituisca o meno il risultato di un legittimo esercizio dei poteri discrezionali dell'assemblea; e con la sola eccezione delle ipotesi di applicabilità dell'artt. 1129 c.c. e dell'art. 64 disp. att. c.c., la decisione del giudice, in sede di annullamento di una delibera assembleare, non può sostituirsi alla volontà del condominio e contenere la nomina di un nuovo amministratore (Trib. Larino 4 febbraio 2008).

Indennità del custode. Non è affetta da alcuna invalidità la delibera assunta dall'assemblea, regolarmente costituita e con le maggioranze richieste, che riconosca al custode dello stabile una indennità superiore a quanto espressamente previsto come minimo dal CCNL di categoria, dal momento che rientra tra i poteri demandati all'organo deliberativo condominiale quello di assumere decisioni di merito, come quella relativa all'aumento della retribuzione spettante ai dipendenti, senza che il giudice possa sindacarne il contenuto e senza che venga a integrarsi un'ipotesi di eccesso di potere (Trib. Genova 8 ottobre 2010).

Targa nell'atrio. È stata dichiarata legittima e non illecita la condotta dell'amministratore di condominio che, in applicazione del regolamento condominiale, invia ad un condomino una lettera contenente l'ordine di rimozione di una targa appesa nell'atrio condominiale, perché in una simile condotta non si riscontra nessun eccesso di potere, dal momento che è compito dell'amministratore, facendo ragionevolmente rinvio delle disposizioni regolamentari o di legge, richiamare il singolo condomino all'osservanza dei medesimi (Cass. II,n. 13689/2011).

Uso alberghiero. Non è viziata per eccesso di potere la delibera con cui il condominio conferisce mandato all'amministratore di diffidare un condomino dal destinare il suo immobile ad uso alberghiero, in violazione delle prescrizioni contenute nel regolamento condominiale (Trib. Salerno 8 luglio 2014).

Realizzazione di deposito dei rifiuti. Non configura una ipotesi di eccesso di potere il caso di una delibera assembleare con cui viene rinviata ogni decisione relativa all'esecuzione di una opera consistente nella realizzazione nel cortile condominiale di un locale per il deposito dei rifiuti – anche in considerazione dell'entità della spesa concreta da affrontare pari a circa settanta/ottamila euro – fino alla conclusione di un giudizio pendente davanti al T.A.R. relativo all'annullamento dell'ordinanza comunale avente per oggetto l'obbligo per il condominio di dotare lo stabile di un idoneo locale destinato alla raccolta rifiuti solidi urbani; infatti una simile delibera non rientra nel sindacato dell'autorità giudiziaria dato che non contrasta con disposizioni di legge e non comporta un eccesso di potere da parte dell'assemblea, essendo fondata su ragioni di opportunità dettate, oltre che dalla rilevanza della spesa preventivata per la realizzazione del manufatto, anche dalla considerazione che la realizzazione del locale rifiuti nel cortile condominiale comporta una modificazione in senso peggiorativo di tale spazio comune (Trib. Milano 17 febbraio 2014).

Coniugi . In tema di condominio negli edifici, in presenza di unità immobiliari in regime di comunione legale tra coniugi, la legittimazione ad impugnare le delibere assembleari spetta a ciascun coniuge separatamente, trovando applicazione l'art. 180, comma 1, c.c., secondo cui la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all'amministrazione dei beni della comunione spetta ad entrambi; ne consegue che, in caso di partecipazione all'assemblea di uno solo dei coniugi, ove vengano deliberati argomenti non inseriti all'ordine del giorno, il coniuge non presente può impugnare la delibera ai sensi dell'art. 1137, comma 2, c.c. (Cass. n. 27772/2023, che ha affermato l'irrilevanza, ai fini dell'ammissibilità e della fondatezza dell'impugnazione proposta da un coniuge, della presenza all'assemblea dell'altro coniuge comproprietario).

Movendo dal dato giurisprudenziale, si è affermato in dottrina che l'eccesso di potere ricorra qualora la deliberazione assembleare, sebbene formalmente rispondente al paradigma normativo e regolamentare, persegua obiettivi oggettivamente non riconducibili al governo delle parti e dei servizi comuni, alla conservazione e salvaguardia delle prime e alla prestazione e fruizione dei secondi, determinando nocumento agli interessi sia collettivi che individuali del singolo condomino che esprima la propria doglianza. Sotto alternativo e differente inquadramento dogmatico, proprio della materia negoziale privatistica, la delibera affetta da eccesso di potere può ritenersi carente di propria causa in senso concreto, perché diretta al conseguimento di risultati divergenti da quelli ad essa propri e ciò, pertanto, ne esclude la possibilità di tutela giuridica, ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c. Il riferimento alla causa concreta quale momento individuante l'eccesso di potere può essere, poi, utile per evitare che il relativo sindacato giudiziale possa interferire e interessare il merito della scelta assunta con il deliberato (Tedeschi).

Gli interventi giudiziali in sede di giurisdizione volontaria

Possiede un rilievo centrale, tra le norme sulla cui applicabilità in ambito condominiale occorre interrogarsi, attraverso il rinvio contenuto nell'art. 1139 c.c., il precetto dettato dall'art. 1105 c.c., il quale prescrive al comma 1 che «tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere all'amministrazione della cosa comune», intendendo tale norma attribuire un potere di amministrare – se i partecipanti sono da considerare proprietari pro parte della cosa, nessuno può essere escluso dagli atti che riguardano la stessa – e non già un obbligo, nel senso che anche se il diritto è in comunione, esso non importa mai l'obbligo di esercitare le facoltà che lo compongono, rimanendo i titolari perfettamente liberi di farlo o meno.

I commi 2 e 3 della norma in esame sono dedicati alla regolamentazione delle modalità di formazione delle determinazioni dei partecipanti alla comunione relativamente agli «atti di ordinaria amministrazione» (può dirsi in generale che sono tali gli atti che mirano alla conservazione, riparazione, manutenzione, alla normale utilizzazione o godimento della cosa, mentre gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione esigono ex art. 1108 c.c. o una maggioranza qualificata, come per le innovazioni, o il consenso unanime, come per le alienazioni); in particolare, si stabilisce che le deliberazioni della maggioranza dei predetti partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote – non tenendo conto, quindi, del numero dei partecipanti alla comunione, ma solo della misura del diritto di ciascuno – sono «obbligatorie» per la minoranza dissenziente, richiedendosi, per la validità di tali deliberazioni, che tutti i partecipanti siano stati preventivamente «informati dell'oggetto» delle stesse (c.d. ordine del giorno).

Il comma 4 dell'art. 1105 c.c. prevede che, «se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria», precisando che «questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore»; per un verso, la cosa deve essere amministrata, per l'altro, ciascuno ha interesse, nel nome della sua facoltà di godimento e come membro della collettività, a che l'amministrazione si svolga, sicché la legge gli conferisce, a questo fine, il potere di provocare l'intervento del giudice.

Tale norma è stata giustamente considerata inderogabile (quale eccezione al principio della disponibilità delle norme che regolano la comunione, v. art. 1100 c.c.), in quanto essenziale per la gestione: devono, pertanto, ritenersi nulli e di nessun effetto i patti preventivi intervenuti tra tutti i partecipanti alla comunione, in base ai quali è escluso l'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria (il ricorso al giudice contro le disfunzioni o le inerzie amministrative, in quanto mezzo di tutela della minoranza contro gli abusi della maggioranza e come mezzo di esecuzione specifica degli obblighi dell'assemblea è ritenuto irrinunciabile in via preventiva da Fragali, 196).

Detta disciplina contempla, quindi, un mezzo integrativo a tutela dell'interesse comune, che potrebbe risultare pregiudicato dal disinteresse di alcuni partecipanti, in quanto si conferisce a ciascuno di essi il potere di sollecitare l'intervento dell'autorità giudiziaria «se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune», pur essendovene la necessità, oppure «non si forma una maggioranza» secondo la natura del provvedimento da adottare per assenteismo dei partecipanti, o per contrasti, o per l'astensione dei vari intervenuti, o perché vi sia un'uguaglianza tra voti favorevoli e contrari, oppure «se la deliberazione adottata non viene eseguita», per incuria o per negligenza dell'amministratore o per resistenza di qualche partecipante alla comunione.

La norma opera dunque in tal senso in una situazione di incuria o di resistenza: «per vincere questa non si può ricorrere alla forza, mentre contro quella non sempre il comunista può provvedere da solo, onde la necessità di far intervenire il giudice, salvo, in seguito, il ritorno alla normalità» (Branca, 197).

Il giudice può anche procedere alla nomina di un amministratore, quando ne ravvisi la necessità, determinandone i poteri; presupposto per tale norma è sempre la carenza di amministrazione sopra delineata, nel senso che tale provvedimento è contemplato in via alternativa e come ulteriore rispetto a quelli che il magistrato può adottare quando venga denunciata alcuna delle situazioni elencate nell'art. 1105, ultimo comma, c.c.; ma trattasi di situazione di particolare gravità, in quanto la nomina dell'amministratore comporta la sospensione temporanea dei normali organi di amministrazione fino a quando non vengano ricostituiti i normali meccanismi prescritti per adottare le deliberazioni.

Merita rammentare che il codice civile del 1865, all'art. 678, ultimo comma, adottava una formula più sintetica: «se non si forma una maggioranza o se le deliberazioni di essa risultano gravemente pregiudizievoli alla cosa comune, l'autorità giudiziaria può dare gli opportuni provvedimenti e può nominare un amministratore»; pertanto, l'intervento del giudice – che, peraltro, in mancanza di disposizione espressa, doveva essere richiesto in sede contenziosa – era possibile solo nelle predette ipotesi in cui una deliberazione non venisse adottata perché non si era formata la maggioranza o venisse adottata una deliberazione gravemente pregiudizievole alla cosa comune, per cui se sussisteva una deliberazione della maggioranza, ma la stessa non era pregiudizievole, l'azione giudiziaria non era consentita.

Per quanto concerne il vigente codice civile, occorre rammentare dichiaro contenuto della Relazione del Guardasigilli al Re (n. 520), ove, in commento all'art. 1105 c.c. (richiamato dall'art. 1139 c.c.), è detto: «prevedendo il caso che non si prendano i provvedimenti necessari per l'amministrazione, l'art. 1105 consente a ciascun partecipante di ricorrere al giudice, il quale provvede in camera di consiglio, e può anche nominare un amministratore; si è ritenuto inopportuno stabilire per queste ipotesi che sia proposta istanza in sede contenziosa, poiché è profondamente diversa la portata dei provvedimenti che l'autorità giudiziaria è chiamata ad emettere nei casi previsti dall'art. 1109 (impugnazione delle deliberazioni), e in quelli previsti dall'ultimo comma dell'art. 1105 (casi di sostituzione dell'assemblea); nei primi vi è una deliberazione della maggioranza impugnabile dalla minoranza dissenziente, onde sorge una controversia che non può altrimenti essere decisa che nelle forme contenziose; nei secondi si ha invece inerzia per non essere presi o attuati provvedimenti necessari per la conservazione della cosa comune, e si invoca l'autorità giudiziaria perché supplisca a tale inerzia: il provvedimento che il giudice emette ha carattere essenzialmente amministrativo».

In effetti, tutte e tre le ipotesi previste dall'art. 1105, ultimo comma, c.c. costituiscono aspetti di una medesima esigenza: quella appunto di assicurare l'amministrazione della cosa comune nel caso di inerzia degli interessati, deliberativa o attuativa che sia, ed il giudice è chiamato a provvedere in camera di consiglio perché con il suo decreto deve in sostanza deliberare o eseguire un atto di amministrazione, quando l'inerzia dell'assemblea o dell'amministratore non sia altrimenti superabile (v., tra le altre, App. Venezia 31 marzo 1949).

Volendo ricorrere ad una esemplificazione si può dire che in un caso, vi è omissione delle deliberazioni «necessarie» per l'amministrazione del bene, a cui può porsi rimedio con un provvedimento sostitutivo dell'autorità giudiziaria; in un altro caso, vi è omissione dell'esecuzione di una deliberazione presa, che comporta la possibilità della nomina di una persona incaricata di attuare la volontà della comunione; in un altro caso ancora, vi è una permanente impossibilità di gestione ordinaria, alla quale può conseguire la nomina di un amministratore con poteri di carattere generale.

Va ancora segnalato che la norma di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c. è stata spesso invocata (e talvolta non a proposito) anche fuori dell'ambito della comunione (e del condominio); pur senza pretesa di completezza, si può fornire un sommario elenco delle fattispecie in cui, nella giurisprudenza (sia di legittimità che di merito), il disposto in questione è stato chiamato in gioco, adottando le soluzioni tra le più disparate: nella società di persone ai fini della nomina di un amministratore giudiziario (Cass. I, n. 134/1987; Cass. I, n. 1113/1963; Trib. Lecce 29 novembre 1989; Trib. Napoli 18 dicembre 1987; App. Napoli 31 marzo 1987; Trib. Ascoli Piceno 23 ottobre 1986; Trib. Ascoli Piceno 5 luglio 1986; Trib. Vigevano 21 luglio 1966); nel consorzio al fine di sopperire all'ingovernabilità per impossibilità di funzionamento del consiglio direttivo (Pret. Caserta 25 novembre 1992); nella coesistenza di una pluralità di servitù di passaggio costituite su di un complesso di viali a favore delle diverse unità immobiliari cui queste hanno accesso (Trib. S. Maria Capua Vetere 5 settembre 1994); nello ius sepulchri familiare che dà luogo ad una particolare forma di comunione tra i contitolari, in caso di disaccordo sulle modalità di utilizzazione del sepolcro (Trib. Perugia 14 novembre 1995); nel marchio quando all'unica azienda familiare sia sostituita una pluralità di imprese collegate (App. Milano 20 giugno 1995, e Trib. Milano 11 giugno 1992); nella comunione legale tra i coniugi per ovviare alla cattiva gestione dei beni da parte di uno di essi (Trib. Catania 31 marzo 1990; Trib. Napoli 6 aprile 1990; Trib. Milano 28 luglio 1989; Trib. Verona 29 settembre 1987); nella nomina giudiziale del rappresentante comune dei comproprietari delle azioni (App. Roma 24 febbraio 1987, e Trib. Roma 18 febbraio 1987; App. Trieste 22 novembre 1957).

I limiti dell'ingerenza giudiziaria nel condominio.

Si tratta dunque di chiarire se la menzionata disposizione sia o meno applicabile nell'ambito del condominio, giacché essa si presta, in svariati frangenti, a superare situazioni di «stallo» altrimenti difficili da affrontare. Ciò, in particolare, nell'ambito dei condomini con un numero di condomini inferiore a quello previsto per l'obbligatorietà della nomina dell'amministratore, nel qual caso è possibile ricorrere alla nomina giudiziale ex art. 1129 c.c. Si può pensare ad ipotesi quali l'esecuzione di lavori di manutenzione che non vengono attuati, attraverso atteggiamenti – per così dire – di «resistenza passiva», giustificati dal relativo costo e dalla circostanza che l'interesse di alcuni (si immagini il caso di interventi diretti all'impermeabilizzazione del lastrico solare) può essere sensibilmente minore di quello di altri. Si tratta allora di stabilire è se in casi come questo si possa fare ricorso al comma 4 dell'art. 1105 c.c.

Come si sa, per l'applicazione di questa norma occorre anzitutto che la questione sia già stata sollevata in sede assembleare, ove non sia stata tuttavia adottata alcuna decisione, ovvero non sia stata raggiunta la maggioranza di volta in volta richiesta dalla legge, oppure, ancora, che sia stata adottata una delibera assembleare volta all'esecuzione dei necessari interventi, ma che l'amministratore non vi abbia dato esecuzione.

È stato in tal senso ad esempio affermato che l'intervento giudiziario previsto dall'art. 1105 c.c., comma 4, è ammesso quando, tra l'altro, si forma un insanabile contrasto tra i partecipanti alla comunione in ordine all'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune. L'applicazione della norma è quindi legata a due presupposti: l'esistenza di un contrasto insanabile tra i comunisti, non superabile con la formazione di una maggioranza adeguata, e la necessità di adottare provvedimenti per la gestione del bene comune (Cass. II, n. 4616/2012). Ed è stato parimenti affermato che il ricorso all'autorità giudiziaria ex art. 1105 c.c. presuppone ipotesi tutte riconducibili ad una situazione di assoluta inerzia in ordine alla concreta amministrazione della cosa comune per mancata assunzione dei provvedimenti necessari o per assenza di una maggioranza o per difetto di esecuzione della deliberazione adottata; detta norma non è, invece, applicabile quando l'assemblea condominiale abbia approvato dei lavori considerati necessari per la manutenzione delle parti comuni dell'edificio, contestati da taluni compartecipanti, in quanto l'intervento del giudice in tal caso si risolverebbe in un'ingerenza nella gestione condominiale ed in una sovrapposizione della volontà assembleare (Cass. II, n. 5889/2001). In altri termini, il giudice può cimentarsi con l'inerzia dell'assemblea o dell'amministratore solo in seconda battuta, ossia quando l'assemblea è già stata investita del problema.

Nella giurisprudenza, per la verità, si rinvengono alcuni responsi secondo cui l'applicazione della disposizione in discorso sarebbe limitata ai soli casi di condominio c.d. minimo, ovvero di condominio formato da due soli condomini. La Suprema Corte ha in un'occasione affermato che «se l'assemblea non può deliberare soccorre la disposizione contenuta nell'art. 1105, comma 4, c.c., applicabile al condominio in virtù del rinvio fissato dall'art. 1139 c.c., secondo cui, quando non si formano le maggioranze, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria» (Cass. II, n. 4721/2001). La decisione, dunque, non limita espressamente l'affermazione che precede al caso del condominio minimo, e, tuttavia, risulta dalla lettura della sentenza che la fattispecie era per l'appunto tale. In seguito è stato affermato che: «La decisione in tal senso adottata dalla Corte di merito si ispira ad una corretta applicazione della norma ex art. 1105 c.c. applicabile al c.d. piccolo condominio composto di due soli partecipanti per effetto del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c.» (Cass. II, n. 5298/2002), senza, tuttavia, che dalla motivazione della decisione risulti escluso esplicitamente o implicitamente l'inapplicabilità della norma al condominio non minimo. Successivamente, come si è già rammentato nel paragrafo dedicato all'argomento, le Sezioni Unite hanno espressamente preso posizione sul fenomeno del condominio minimo, affermando, tra l'altro, che: «L'ipotesi del condominio minimo è del tutto simile ad altre, nelle quali la maggioranza in concreto non si forma. Si pensi al caso del condominio composto da più partecipanti, in cui gli schieramenti opposti si equivalgono e non si determinano maggioranza e minoranza; oppure al caso di un condominio, del pari composto da più partecipanti, in cui un impianto risulti destinato al servizio di due soli condomini, i quali da soli sono chiamati a deliberare sulla gestione. In entrambi i casi, se in concreto la maggioranza non si forma si ricorre all'autorità giudiziaria ex art. 1105 c.c. cit.» (Cass.S.U., n. 2046/2006).

Nella pronuncia che precede, dunque, la Suprema Corte sembra aver preso nettamente posizione per l'equiparazione, ai fini dell'applicazione dell'art. 1105, comma 4, c.c., del c.d. condominio minimo a quello composto da più di due partecipanti.

Nondimeno, pronunciando in un caso di lavori straordinari necessari alla conservazione della cosa comune, la Suprema Corte è pervenuta in epoca successiva all'affermazione del principio secondo cui: «La disposizione dell'art. 1105 c.c., in vero, relativa all'amministrazione della comunione in generale, è sì applicabile al condominio di edifici, in forza della norma di rinvio, di cui all'art. 1139 c.c., ma nel solo caso – diverso da quello in esame – di condominio c.d. minimo, costituito da due soli condomini, per il quale non è obiettivamente applicabile l'apposita disciplina dell'art. 1136 c.c., che richiede maggioranze qualificate anche con riferimento al numero dei condomini» (Cass. II, n. 16075/2007). Sicché, in questo caso l'applicazione del comma 4 dell'art. 1105 c.c. è stata espressamente negata per i condominii con più di due partecipanti. A dire il vero la pronuncia non spiega con chiarezza le ragioni della soluzione adottata e, cioè, non chiarisce per quale causa il congegno previsto dall'art. 1105, comma 4, non sarebbe applicabile al condominio, all'infuori dell'ipotesi del condominio minimo. Sembra da credere che la distinzione tra l'uno nell'altro caso – quella del condominio minimo e quello del condominio con almeno tre condomini – risiede in ciò, nell'iter motivazionale seguito dalla Suprema Corte, che solo nel condominio minimo può verificarsi un oggettivo impedimento all'adozione della deliberazione condominiale, in ipotesi di dissenso tra l'uno e l'altro condomino, mentre, nel caso di condominio con almeno tre condomini la deliberazione è in astratto sempre possibile, sicché non riveste mai natura oggettiva.

Successivamente, in un caso in cui non essendo l'impianto condominiale conforme alle norme di sicurezza, alcuni dei condomini avevano sollecitato un adeguamento dell'impianto alla normativa in materia, senza tuttavia che la richiesta avesse sortito esito positivo alcuno, un giudice di merito ha osservato che «non risulta tuttavia che sia stata indetta un'assemblea con specifico ordine del giorno, né che le parti si siano riunite informalmente; in tale situazione non ricorrono i presupposti di cui all'art. 1105, comma 4, c.c., sotto il profilo della mancata formazione di una maggioranza, o della mancata esecuzione di una decisione assunta, in quanto nessuna ulteriore riunione è stata, appunto, tenuta per deliberare sulle risultanze dell'ultimo sopralluogo; può ravvisarsi, tuttavia, la ricorrenza del presupposto dell'inerzia nell'amministrazione della cosa comune, e a tal fine è possibile un intervento giudiziario che, tuttavia, nel caso di specie, non si esplica necessariamente nella nomina di un amministratore giudiziario; nel caso di specie, infatti, è più opportuno costringere i condomini a dar corso all'ulteriore attività deliberativa interrottasi dopo il sopralluogo ..., per poter portare successivamente a termine il già avviato percorso di sistemazione dell'impianto elettrico sulla base delle soluzioni tecniche che l'assemblea riterrà di adottare; attesa la descrizione della natura delle opere oggetto di intervento, ed avuto riguardo in particolare ad impianti elettrici di uso comune ed all'esistenza di condutture elettriche insistenti nelle parti comuni ed all'interno di porzioni di proprietà esclusiva (mansarde), a tale assemblea devono partecipare tutti i comproprietari delle due porzioni immobiliari, benché per altri versi autonome. La convocazione dell'assemblea avverrà ad opera del condomino più diligente e la comunicazione di convocazione dovrà contenere nell'ordine del giorno quanto meno, come oggetto, quanto indicato in dispositivo. In caso di mancata formazione di una maggioranza assembleare secondo i criteri dell'art. 1105 c.c., o di successiva mancata esecuzione, la situazione sarà nuovamente suscettibile di valutazione in sede di ricorso ai sensi dell'art. 1105, comma 4, c.c., altrimenti l'inerzia avrà trovato soluzione concreta (Trib. Modena 24 febbraio 2009).

In effetti, anche nell'ipotesi di condominio con più di due condomini può accadere che, occorrendo eseguire lavori necessari per la conservazione della cosa comune, l'assemblea non prenda provvedimenti ovvero non venga raggiunta la maggioranza prevista dalla legge, ovvero l'amministratore non dia esecuzione alla delibera già approvata. Ciò detto, l'applicazione dell'art. 1105, comma 4, c.c. in materia condominiale, per il tramite dell'art. 1139 c.c., sembra dover muovere dalla verifica se, in materia condominiale, il codice civile disciplini l'ipotesi dello stallo nell'adozione ed esecuzione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune. In effetti non sembra esservi una norma in tal senso: né l'art. 1130, comma 1, n. 4), c.c., che si riferisce ai soli atti conservativi; né l'art. 1134 c.c., che si limita a riconoscere al condomino una facoltà di intervenire in presenza di interventi urgenti e non soltanto necessari: né l'art. 1135, comma 2, c.c., che prende in considerazione anche esso interventi urgenti di manutenzione straordinaria ed inoltre non pare imporre un obbligo all'amministratore, tanto più che la stessa disposizione, al n. 4 contempla la costituzione obbligatoria di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori.

D'altro canto, l'art. 1105, comma 4, non solo non menziona, almeno espressamente, un'ipotesi di impossibilità oggettiva, ma pare adottare una formulazione letterale di segno diverso, giacché il ricorso al giudice diviene consentito «se ... non si forma una maggioranza», e non se vi è un ostacolo oggettivo alla sua formazione. Ed inoltre le ulteriori due situazioni contemplate dalla norma (la mancata adozione dei provvedimenti necessari ovvero la mancata esecuzione della deliberazione adottata dall'assemblea) si collocano al di fuori della tematica della formazione della maggioranza, che marca la distinzione fondamentale del condominio minimo dal condominio in generale.

Difatti, nel senso dell'applicabilità del ricorso ai sensi del comma 4 dell'art. 1105 c.c., può leggersi la recente pronuncia con la quale è stato chiarito come il singolo condomino non sia titolare verso il condominio di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali, che possa essere esercitato mediante un'azione di condanna della stessa gestione condominiale all'adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l'uso dell'impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 ss. c.c. Ne consegue che il condomino non ha comunque azione per richiedere la condanna del condominio ad un facere, consistente nella messa a norma dell'impianto elettrico comune, potendo al più avanzare verso il condominio una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione dello stesso nel provvedere alla riparazione o all'adeguamento dell'impianto, ovvero sperimentare altri strumenti di reazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., i ricorsi contro i provvedimenti dell'amministratore ex art. 1133 c.c., la domanda di revoca giudiziale dell'amministratore ex art. 1129, comma 11, c.c., o il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell'art. 1105, comma 4, c.c. (Cass. VI/II, n. 16608/2017).

Nella stessa prospettiva può altresì ricordarsi la decisione in cui si legge che: «Dispone l'art. 1134 c.c., nella versione anteriore alla modifica operata dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, art. 13: “Il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spese urgenti”. Dispone, altresì, l'art. 1105, comma 4, c.c.: “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”. Dal coordinamento delle due disposizioni si ricava piuttosto agevolmente che l'intervento sostitutivo del singolo condomino è ammesso nei casi in cui, in presenza di un'esigenza che richiede un urgente intervento, non dilazionabile nel tempo, non appaia ragionevolmente prevedibile investire dell'attività l'amministratore, senza porre in concreto pericolo il bene condominiale. Per contro, ove il condominio versi in una situazione di stasi patologica, cioè in una inerzia operativa stabilizzata, non è consentito al singolo condomino sostituirsi, salvo i casi urgenti di cui s'è detto, agli organi condominiali in via generalizzata. Che si tratti di un intervento sostitutivo eccezionale, imposto dalla necessità d'urgentemente provvedere, non è dubbio ove si passi in rassegna la giurisprudenza di questa Corte, la quale, in più occasioni, ha chiarito che un tale intervento è giustificato solo ove, per impedire un possibile nocumento a sè, a terzi od alla cosa comune, le opere debbano essere eseguite senza ritardo e senza possibilità di avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini» (Cass. II, n. 9177/2017).

Anche nella giurisprudenza di merito è stato ribadito che nell'ipotesi di progressivo peggioramento della struttura dell'edificio, ciascun partecipante alla comunione ha la possibilità di convocare l'assemblea condominiale per l'adozione delle misure necessarie; solo successivamente, nell'evenienza di paralisi o di inerzia dell'assemblea medesima ovvero di mancato raggiungimento di un accordo, il condomino può rivolgersi all'organo giudiziario competente con le forme della procedura camerale di volontaria giurisdizione a norma dell'art. 1105 c.c. (App. Palermo 16 febbraio 2017). Sempre nella giurisprudenza di merito è stato detto che in tema di danni da infiltrazione di acqua in un condominio a causa della vetustà della guaina di copertura dell'edificio vi è un concorso di colpa del condomino-danneggiato posto che, anziché nell'inerzia dell'assemblea poteva sia attivarsi diligentemente ex art. 1134 c.c. per la sua riparazione onde evitare con le piogge l'aggravarsi del danno che si è verificato (anche perché la spesa era stata autorizzata dall'assemblea) che agire ex art. 1105 c.c. per la nomina di un amministratore (Trib. Nocera Inferiore 7 giugno 2013).

In una fattispecie particolare si è precisato che in tema di spese per lavori di ristrutturazione del condominio, l'onere di provare l'eccedenza delle opere rispetto ai limiti delle attribuzioni conferite all'amministratore con l'incarico giudiziale ex art. 1105 c.c. non può che spettare all'opponente, alla stregua del costante e generale principio giurisprudenziale che individua, nei giudizi oppositivi ex art. 615 c.p.c., nell'opponente la qualità di attore, con la conseguenza che, presumendosi legittimo il titolo posto a base dell'esecuzione, è tale parte, che lo confuta, gravata del compito di provare le circostanze impeditive, ostative o estintive all'attuazione coercitiva dello stesso (Cass. II, n. 4361/2015).

È in definitiva da credere, quindi, che l'art. 1105 c.c. citato possa operare, nell'ambito del condominio, in quei casi in cui si verifichino situazioni di paralisi gestionale, conseguenti all'inerzia dei partecipanti o ad impedimenti di carattere oggettivo di un tale tipo di comunione (vedremo in seguito che l'operatività di tale disposizione trova compiuta applicazione in ordine a tutte e tre le ipotesi in esso contemplate). L'intervento del magistrato, in questi casi, risponde essenzialmente a finalità suppletive, in quanto si riconnette ad una situazione di inerzia dei partecipanti al condominio, che viene a determinarsi o nella fase deliberativa o in quella meramente attuativa di una statuizione già presa, ed è strettamente correlato al determinarsi di una necessità rispetto alla quale l'organo gestorio non possa o non voglia adottare gli opportuni provvedimenti.

Con riguardo a tale situazione di impasse gestionale, a proposito dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., si deve evidenziare che il procedimento camerale non può essere azionato allorché tra i partecipanti alla comunione si controverta sull'esistenza e l'estensione di diritti soggettivi. Occorre difatti osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'oggetto dei provvedimenti invocati, mediante i quali il giudice si sostituisce all'attività manchevole delle parti nella gestione dell'interesse comune, segna nel contempo il limite dei poteri a lui attribuiti (sull'appartenenza del procedimento in esame al campo della giurisdizione volontaria v., da ultimo, Cass. VI/II, n. 15548/2017; in precedenza tra le tante Cass. II, n. 697/1980; Cass. II, n. 1765/1974; Cass. II, n. 1512/1966; Cass. II, n. 2121/1964; Cass. II, n. 3246/1963; Cass. II, n. 1477/1954, secondo cui il procedimento è diretto ad evitare un pregiudizio e non a risolvere una controversia relativa all'efficacia del titolo esecutivo ed alla validità di un contratto). Risulta inammissibile – si è dunque osservato nella giurisprudenza di merito – il ricorso all'autorità giudiziaria ai fini della decisione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 1105 c.c. qualora si controverta non sull'amministrazione di cosa comune, quanto piuttosto sull'esistenza e sull'estensione di diritti soggettivi dei singoli, ed in specie sull'esistenza del diritto di sopraelevazione spettante ai proprietari esclusivi del lastrico solare, nonché sull'estensione delle facoltà di godimento della stessa porzione individuale, materie queste che riguardano unicamente la sede giudiziaria contenziosa (Trib. Salerno 20 giugno 2006).

In particolare, non sono proponibili azioni giudiziarie relative alle spese ed all'amministrazione delle cose comuni – in questa comprese gli atti di conservazione – prima che sia sollecitata una deliberazione dell'assemblea condominiale, alla quale spetta ogni determinazione sul punto, sia che si tratti di spese voluttuarie o utili, che di spese necessarie, distinguendo la legge (ai fini della prescrizione della deliberazione a maggioranza, rispettivamente, semplice e qualificata) unicamente tra spese di ordinaria amministrazione (v. art. 1105 c.c.) e spese concernenti innovazioni o atti di straordinaria amministrazione (v. art. 1108 c.c.); ne consegue che, mentre la statuizione della maggioranza è impugnabile davanti al giudice in via contenziosa ove lesiva dei diritti individuali dei partecipanti dissenzienti, o, comunque, sia stata assunta in violazione della legge o del regolamento condominiale, resta salva la possibilità, una volta convocata l'assemblea, di rivolgersi al giudice in sede di volontaria giurisdizione ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., nel caso di omessa iniziativa della medesima o di mancata formazione di una volontà di maggioranza o di omessa esecuzione della deliberazione (Cass.S.U., n. 4213/1982; nello stesso senso Cass. II, n. 7613/1997).

Il necessario iter prescritto dalla legge, diretto all'espressione di una volontà assembleare in ordine all'amministrazione della cosa comune, non mortifica, in alcun modo, i diritti individuali di ciascuno dei partecipanti, sino a quando non siano lesi da una deliberazione di maggioranza; solo in tal caso diviene attuale l'interesse dei singoli, i cui diritti individuali siano stati pregiudicati, ad adire il giudice in via contenziosa, giacché dei diritti individuali dei comproprietari l'assemblea non ha, in nessun caso, il potere di disporre.

I menzionati principi, poi, non possono ritenersi contraddetti dalla possibilità, prevista dall'art. 1133 c.c., di ricorrere direttamente all'autorità giudiziaria, oltre che all'assemblea, contro i provvedimenti dell'amministratore, poiché è la stessa norma, limitando la possibilità di esercizio di tale facoltà ai casi previsti dall'art. 1137 c.c. – che, come è noto, non consente all'autorità giudiziaria di esercitare il sindacato di merito sulle deliberazioni assembleari, ma riguarda soltanto la loro legittimità (v., tra le tante, Cass. II, n. 5254 /2011; Trib. Milano 25 luglio 1996) – ad escludere che il giudice in sede contenziosa possa sopperire all'inerzia dell'amministratore nel compiere gli atti di ordinaria amministrazione, perché implicante la valutazione della necessità o dell'opportunità di compiere l'atto, anche in rapporto all'entità della spesa da sostenere (Cass. II, n. 7613/1997).

Si è, ad esempio, precisato che la previsione, da parte dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. per il caso in cui non si formi una maggioranza ai fini dell'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante, all'autorità giudiziaria perché adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione, preclude al singolo partecipante di rivolgersi al giudice in sede contenziosa, ma tale preclusione concerne solo la gestione della cosa comune, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti, e non opera, per converso, in relazione ad iniziative giudiziarie promosse dal comunista in qualità di terzo, come avviene nel caso in cui il comunista faccia valere in giudizio la posizione di proprietario di cose estranee alla comunione, che dalla rovina della cosa di cui è comproprietario abbia subito pregiudizio (Cass. II, n. 8876/1998).

Anche la giurisprudenza di merito si è mostrata attenta a circoscrivere l'intervento giudiziale in sede di volontaria giurisdizione, mettendo in luce che i provvedimenti demandati al magistrato ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., in ordine all'amministrazione della cosa comune, sono atti di natura intrinsecamente amministrativa, nell'esercizio cioè di quella funzione che ha come scopo di sostituirsi o integrare, con l'intervento attivo dell'attività giudiziaria, l'omessa attività delle parti nell'amministrazione dei propri interessi.

Pertanto, il giudice, nell'esercizio di tale funzione, può bensì intervenire per supplire ad un difetto di funzionamento degli organi del condominio che paralizzano la gestione della cosa comune, ma non può essere chiamato a dirimere una controversia giudiziaria (Trib. Firenze 29 maggio 1961, in una fattispecie in cui il comproprietario manteneva abusivamente il possesso di un immobile comune e l'amministratore, incaricato dall'assemblea di promuovere azione contro l'occupante per far cessare l'abuso, chiedeva al giudice in sede di volontaria giurisdizione, l'emissione di un provvedimento di condanna dello stesso al rilascio, sul presupposto però del contrasto sulla sussistenza o meno del diritto a godere in via esclusiva di quella porzione).

Intervenendo in una funzione sostitutiva od integratrice delle funzioni proprie degli organi condominiali, e soprattutto della maggioranza assembleare, il magistrato è tenuto ad esercitare un potere che si esplica sullo stesso piano, nel senso che può fare solo quanto avrebbe potuto fare il soggetto sostituito, se regolarmente funzionante, mentre in sede contenziosa lo stesso giudice può esercitare la iurisdictio sui diritti controversi, pronunciare provvedimenti suscettibili di esecuzione forzata, e valutare il comportamento dei singoli partecipanti anche circa le relative conseguenze patrimoniali, come il risarcimento danni (sull'ammissibilità di ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c. nel caso di sottrazione all'adempimento di un obbligo contrattuale scaturente da un regolamento stipulato da tutti i comproprietari, v., in senso contrastante, App. Roma 9 febbraio 1965, e Trib. Roma 28 ottobre 1964).

Di diverso avviso una pronuncia di merito, in una fattispecie in cui era stata tempestivamente convocata l'assemblea dei comproprietari, che, a maggioranza, avevano deliberato il rilascio dell'immobile comune detenuto esclusivamente da uno di essi, preferendo una diversa gestione della cosa; in tale caso, si è ritenuto che, trattandosi di amministrazione della cosa comune, e non involgendo statuizioni su altri diritti soggettivi inerenti la cosa stessa, occorreva promuovere il procedimento camerale di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c., conseguendone l'inammissibilità della domanda in sede contenziosa (Pret. Verona 6 marzo 1990).

In materia, la dottrina ha evidenziato che se la legge autorizza il partecipante a ricorrere al giudice, in caso di inerzia della maggioranza, affinché emetta un provvedimento in camera di consiglio, ciò non preclude, in determinati casi, allo stesso di iniziare una causa per ottenere lo stesso risultato; il concorrere all'amministrazione non è soltanto un diritto, ma è anche un dovere di ciascun partecipante, sicché il non farlo, sia rimanendo inerte quando occorra un determinato provvedimento, sia ostacolando che lo si prenda, potrebbe costituire violazione di un dovere, sufficiente per creare i presupposti di una lite (Rogozinski, 194).

L'interesse di un partecipante di agire in sede contenziosa potrebbe derivare dalle seguenti considerazioni: 1) si ottiene così una decisione definitiva ed esecutiva, mentre il decreto camerale non può arrivare allo stato di res iudicata, né è suscettibile di esecuzione forzata; 2) l'eventuale condanna del partecipante inadempiente non è limitata a dare il consenso a che si faccia qualcosa nell'interesse della comunione, ma può essere estesa anche alle conseguenze che da quel consenso derivano (ad esempio, al pagamento della sua quota spese, o al compimento di un'opera); 3) si può valutare il comportamento dei partecipanti, al fine di stabilire se ed in quanto quello di uno di essi abbia causato lo stato attuale della cosa comune, e quindi addossare le eventuali responsabilità.

Tuttavia, il campo dell'azione contenziosa può rivelarsi anche più ristretto del ricorso contemplato dall'art. 1105, ultimo comma, c.c., poiché nella prima sede il giudice non può decidere questioni di mera convenienza (si pensi alla divergenza di vedute in tema di modalità di godimento della cosa comune), né nominare un amministratore (si pensi, in ordine all'omessa esecuzione di una deliberazione condominiale, che non sempre la delibera medesima risulta eseguibile attraverso meri atti materiali, potendosi, invece, volta a volta rendere necessari, in relazione al contenuto concreto della singola statuizione, la conclusione di negozi giuridici, l'effettuazione di pratiche amministrative, il perfezionamento di trattazione, la proposizione di un'azione giudiziaria, ecc.).

Alcuni, tuttavia, ritengono che se l'impugnazione, in sede contenziosa, di una delibera che abbia negato il provvedimento richiesto dal condomino può essere diretta a far valere un'invalidità dell'atto per motivi intrinseci – ad esempio, per omessa convocazione, per mancato raggiungimento della maggioranza necessaria, ecc. – al di fuori di queste ipotesi non può parlarsi di semplice richiesta di annullamento di un tal tipo di decisione dell'assemblea, che non sia accompagnata dalla domanda diretta alla specifica esecuzione di quanto richiesto dell'interessato (Bucci, 82).

In altri termini, nei confronti della deliberazione negativa, il singolo potrà proporre le proprie istanze direttamente in sede contenziosa, a prescindere da una formale impugnazione, e sarà quindi il giudice adito nella sede ordinaria a dover valutare se esiste un diritto del condomino il cui ristoro consiste nella condanna del condominio ad un facere corrispondente al contenuto della deliberazione negata (come, ad esempio, nel caso di rifiuto del condominio di apportare riparazioni o modifiche ad un impianto comune, il cui buon funzionamento è essenziale al compiuto godimento della singola unità immobiliare).

I rapporti con la tutela cautelare d'urgenza.

L'attività giurisdizionale cautelare è volta ad ovviare i pericoli che rischiano di vanificare irrimediabilmente, nelle more del giudizio ordinario, la fruttuosità del ricorso all'autorità giudiziaria.

Il legislatore, muovendo dalla constatazione di tale esigenza, ha previsto, oltre una serie di situazioni cautelari nominate, una tutela cautelare atipica e residuaIe nell'art. 700 c.p.c.; tale tutela si caratterizza per essere sperimentabile in via sussidiaria, ove non risultino utilizzabili le altre misure cautelari tipiche e per dover essere seguita necessariamente dal giudizio ordinario (v. l'art. 669-octies c.p.c. introdotto dall'art. 74 della legge 26 novembre 1990, n. 353).

Orbene, fondandosi sul tenore letterale del predetto disposto normativo – «... durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria ...» – la dottrina ha argomentato che la norma de qua non trovi spazio alcuno nel campo dei «procedimenti speciali» disciplinati negli artt. 633,805 c.p.c., ivi compresi i procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., tra i quali rientra il rito camerale ex art. 1105, ultimo comma, c.c. In quest'ultima sede al giudice si conferisce, da parte dei singoli condomini, una sorta di affidamento volontario di una situazione di crisi della propria autonomia, e quindi si attribuisce il potere di sostituirsi ad essi al fine di tutelarne l'interesse alla celere gestione della cosa comune, e tale ratio trova precisa e piena rispondenza nella forma, particolarmente sollecita, del rito camerale. La dottrina è, pertanto, nel senso di escludere che la tutela cautelare ex art. 700 c.p.c., avendo natura contenziosa, sia compatibile con il procedimento di volontaria giurisdizione previsto dall'ultimo comma dell'art. 1105 c.c.; non è immaginabile che, nelle more del giudizio, un periculum in mora vanifichi la tutela dell'interesse prevalente, perché essa non è ancora né individuabile né definibile, trattandosi appunto di pronunce altamente discrezionali cui è dato determinare il contenuto del rapporto oggetto del giudizio.

Del resto, la snellezza e la celerità del rito camerale di cui all'art. 1105 c.c. è già in sé idonea a fornire ai comunisti una rapida ed efficace tutela, che renderebbe oltremodo ultronea ed irragionevole la concessione di un provvedimento d'urgenza, cui poi dovrebbe seguire, in barba ad ogni principio di economia processuale, la riassunzione del giudizio davanti al giudice competente a decidere sulla fondatezza della domanda (il tribunale in camera di consiglio, appunto). In quest'ottica, si è, pertanto, concluso nel senso che la pretesa di «cautelare» il comunista con la concessione di provvedimenti d'urgenza, quando questi potrebbe giovarsi con maggiore utilità e rapidità del rimedio ex art. 1105, ultimo comma, c.c. non possa che apparire arbitraria, e, in ultima analisi, avere «paradossali effetti defatiganti, incrementando ulteriormente la mole di lavoro che, in materia condominiale, affolla perennemente le aule giudiziarie» (così Aitala, 579).

Alcuni autori, però, non escludono la coesistenza del procedimento camerale con il giudizio contenzioso: si fa il caso in cui, pendente una controversia, il giudice, su richiesta dei condomini, possa ravvisare la necessità della nomina dell'amministratore giudiziario, provvedendo all'incombente, con decreto da emanare sempre in camera di consiglio, con le formalità del procedimento di volontaria giurisdizione, per cui tale procedimento s'inserisce, nella causa principale, come un processo incidentale; la fattispecie potrebbe verificarsi, ad esempio, quanto, pendente la lite, la parte chieda al giudice la nomina dell'amministratore giudiziario come provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c., e il giudice emetta il richiesto provvedimento, affrontando, poi, in sede contenziosa, il merito della causa (Zaccagnini-Palatiello, 28).

La giurisprudenza di merito ha dato soluzioni articolate alla predetta questione, forse influenzate dalle peculiarità delle fattispecie sottoposte al suo esame.

Una parte di essa ha ritenuto improponibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., presentato da un condomino, nel caso in cui non si adottino i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, o non si formi una maggioranza, ovvero se la delibera adottata non viene eseguita, in quanto in tali ipotesi deve essere prima promosso il procedimento di volontaria giurisdizione previsto dall'art. 1105, ultimo comma, c.c. (Pret. Taranto 12 aprile 1988, dove si chiedeva l'emissione di provvedimenti urgenti per eliminare i gravissimi effetti della situazione verificatasi in un condominio per problemi attinenti alla stabilità degli intonaci delle solette dei balconi esterni e del cornicione del piano attico).

Aderisce a tale orientamento un'altra pronuncia di merito, che ha dichiarato improponibile la richiesta di cui all'art. 700 c.p.c., da parte di un condomino, per ottenere l'esecuzione di una delibera assembleare, sollecitando un intervento di supplenza ad una situazione di inerzia dell'assemblea, dovendo invece presentare ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione in base al combinato disposto degli artt. 1105, ultimo comma, e 1139 c.c., che istituisce un più rapido meccanismo di definizione delle controversie insorte tra i condomini, qualora non si verta in materia di diritti soggettivi, la cui cognizione resta comunque riservata al giudice in sede contenziosa (Pret. Roma 2 novembre 1994, in una fattispecie in cui si era deliberata la modifica del precedente sistema manuale di chiusura dell'ingresso, sostituendolo l'uso del lucchetto con un congegno automatico, ma non si era concordato il tipo di chiusura da utilizzare, investendo quest'ultimo aspetto valutazioni di ordine estetico, funzionale o semplicemente economico).

Nella stessa linea argomentativa, si è affermato che, qualora i lavori di manutenzione di un impianto di riscaldamento condominiale, deliberati dall'assemblea, non siano eseguiti, i provvedimenti per l'amministrazione della cosa comune devono essere adottati dal giudice in camera di consiglio ex art. 1105, ultimo comma, c.c. (Pret. Roma 9 luglio 1988; sul presupposto che il condomino conserva il potere di agire a difesa non solo dei diritti di proprietario esclusivo, ma anche dei suoi diritti di comproprietario pro quota delle parti comuni, sicché lo stesso non possa proporre azione di danno contro il condominio per il mancato promovimento dell'azione contrattuale contro l'impresa installatrice dell'impianto centralizzato di riscaldamento, potendo ricorrere, in caso di inerzia dell'amministrazione, a norma dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., v., pure, Cass. II, n. 12420/1993).

Ed ancora, è stato detto che in tema di amministrazione della cosa comune, ai sensi dell'art. 1105 comma 4 c.c., nelle ipotesi di mancata attivazione dei comproprietari nella tempestiva ed utile cura dei beni comuni, è previsto l'intervento del giudice non nell'ambito di un'azione di condanna volta ad ottenere l'adempimento di un obbligo, ma solo nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione (camerale), nel corso del quale può attuarsi la richiesta gestione degli interessi comuni in ordine alla decisione da assumere relativamente all'amministrazione del bene. In particolare, la procedura camerale di carattere non contenzioso, non attenendo alla risoluzione di questioni su diritti, preclude un'azione giudiziaria di tipo contenzioso (nel caso di specie, ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c.) per il caso della omessa amministrazione della cosa comune (Trib. Nola 3 febbraio 2009).

Segue la medesima impostazione la pronuncia secondo cui, nelle ipotesi di inerzia dei comproprietari nella cura della cosa comune, è normativamente previsto l'intervento del Giudice solo nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione (camerale) ex art. 1105 c.c. e non anche nelle forme della cautela atipica di cui all'art. 700 c.p.c. (Trib. Nola 17 marzo 2007, che ha ritenuto inammissibile il procedimento di natura cautelare al quale aveva fatto ricorso uno dei comproprietari della cosa comune per obbligare gli altri comproprietari al compimento di determinati atti di manutenzione del bene comune).

In senso contrario, si è sostenuto che, in conseguenza dell'inerzia dell'amministratore relativamente alla riattivazione ed al mantenimento in funzione dell'impianto di riscaldamento centralizzato, nonostante la rigida stagione invernale in atto, è ammissibile, da parte dei condomini, il ricorso al procedimento di cui all'art. 700 c.p.c., in quanto il loro diritto al riscaldamento poteva subire un danno grave ed irreparabile, sussistendo pericolo di un concreto nocumento all'integrità psico-fisica dei medesimi condomini (Trib. Molfetta 31 dicembre 1988).

Conforme risulta un'altra sentenza di merito, con la quale si è dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c. proposto da due condomini, che avevano inutilmente sollecitato l'assemblea ad adottare i provvedimenti necessari al ripristino dell'impianto condominiale di riscaldamento, sulla cui struttura erano abusivamente intervenuti altri condomini, compromettendone il funzionamento, in quanto i ricorrenti lamentavano la lesione del loro diritto a godere delle prestazioni dell'impianto comune di riscaldamento che doveva essere fatta valere in via contenziosa (Trib. Napoli 22 settembre 1982).

In sintonia con tali considerazioni, si è statuito che il proprietario di un appartamento sito in un edificio a due piani (l'uno soprastante all'altro), quando i muri maestri comuni necessitavano di riparazioni straordinarie ed urgenti, che si riflettevano in modo immediato ed irreparabile sull'integrità dell'immobile in proprietà solitaria, e l'altro condomino rifiutava di concorrere alle spese per evitare la rovina dell'edificio medesimo, non si poteva ricorrere al giudice ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., trattandosi di un conflitto di interessi, da comporsi in sede contenziosa con una decisione che assicurasse la prevalenza di uno rispetto all'altro, sostituendosi alla volontà privata e non limitandosi ad integrarla come avviene nei procedimenti di volontaria· giurisdizione (App. Cagliari 9 maggio 1986).

A ben vedere, il punto centrale della questione appare quello del rapporto tra tutela camerale e tutela contenziosa, quest'ultima attuabile, allorché ne ricorrano i presupposti, anche in via cautelare.

La giurisprudenza di legittimità, talvolta, sembra operare una netta distinzione tra i due ambiti di applicazione, come quando afferma che il condomino dissenziente può adire il giudice in sede contenziosa quando occorra impugnare una delibera presa a maggioranza lesiva dei suoi diritti soggettivi, laddove deve ricorrere alla volontaria giurisdizione in caso di omessa iniziativa dell'assemblea, di mancata formazione di una volontà di maggioranza o di omessa esecuzione della delibera (Cass.S.U., n. 4213/1982); talvolta, sembra delineare una sorta di gradualità tra l'attività dei privati, il procedimento in camera di consiglio, e l'impugnativa contenziosa della delibera assembleare, come quando rileva che il singolo condomino non può adire il giudice in sede contenziosa per ottenere la condanna del condominio all'esecuzione di lavori necessari, senza aver prima invitato l'amministratore a convocare all'uopo l'assemblea, o senza avere, in caso di rifiuto o di omissione, convocato direttamente la stessa, o fatto ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione, ovvero, infine, senza avere, in caso di rifiuto da parte dell'assemblea di approvare la spesa ed i lavori necessari, impugnato tempestivamente detta deliberazione (Cass. II, n. 823/1972); talvolta, sembra porre su un piano di alternativa la via del procedimento camerale ex art. 1105, ultimo comma, c.c. e quella del giudizio contenzioso per la condanna degli interessati tenuti ad un facere comune – con il problema di reciproche interferenze tra i rispettivi provvedimenti – anche se la fattispecie concerneva un caso di riparazioni urgenti, che, ai sensi dell'art. 1134 c.c., potevano essere eseguite dai singoli condomini, con diritto al rimborso, senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea (Cass. II, n. 1579/1982).

Il problematico rapporto tra la tutela in camera di consiglio e tutela contenziosa azionata in via cautelare dovrebbe, secondo l'orientamento tradizionale, imperniarsi sulla possibilità di individuare o meno un diritto soggettivo del singolo condomino su cui venga ad incidere l'operato degli organi condominiali, sia con una delibera assembleare (positiva o negativa), sia con l'inattività della stessa assemblea, l'impossibilità di formazione della maggioranza, o la mancata esecuzione della delibera adottata.

Qualora non venga in gioco tale diritto (pregiudicato in modo irreparabile, si pensi al diritto alla salute), ma si debba dar corso ad una mera attività di amministrazione, appare corretta la trattazione in sede di volontaria giurisdizione, che, peraltro, per la sua peculiare caratteristica, consente l'attuazione di un determinato interesse in diverse maniere, il contemperamento di varie esigenze, la possibilità di revisione delle scelte compiute sulla base del sopravvenire di nuovi fatti o di nuovi elementi di valutazione, senza escludere anche vantaggi nella fase esecutiva, stante la possibilità di nomina di un amministratore giudiziario che tenga presente la funzione tipica del condominio e dei relativi beni ed impianti, quali siano le legittime o giustificate aspettative dei condomini, ecc.

L'impossibilità di formare una maggioranza.

L'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. prevede la possibilità di un ricorso all'autorità giudiziaria (tra l'altro) «se non si forma una maggioranza»; tale previsione suppone che un'assemblea sia stata convocata, ma che non si pervenga alla determinazione di una valida maggioranza per deliberare in ordine ad un dato argomento.

In tema di comunione, una delle fattispecie più frequenti è quella che vede un immobile in comproprietà al 50% tra due comunisti, e quindi che si versi nell'impossibilità di formare una maggioranza.

In buona sostanza, la disciplina dettata dall'art. 1105 c.c. ha per oggetto l'ipotesi dell'impossibilità o dell'incapacità dei comproprietari di amministrare la cosa comune, e quindi può operare qualora vi sia un profondo ed insanabile disaccordo su tale amministrazione fra i due gruppi di comproprietari aventi quote equivalenti.

In tali ipotesi, il giudice non interviene, con il suo provvedimento, in sede contenziosa, non essendo chiamato a dirimere una controversia intorno ad un diritto – ad esempio, sull'esistenza del diritto di comproprietà – bensì a sostituirsi all'attività manchevole delle parti nell'amministrazione della cosa comune, e, nell'indirizzare le proprie scelte, deve utilizzare, quale esclusivo parametro, l'interesse astrattamente considerato della comunione, e non i singoli interessi delle parti, sia pure equamente contemperati.

Accertata, quindi, l'ammissibilità di un intervento giudiziale, si tratta di verificare quale tipo di provvedimento il magistrato sia facoltizzato ad adottare, in quanto è vero che l'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. prevede «anche» la nomina di un amministratore (nel senso che trattasi di un'ipotesi marginale), ma è altrettanto vero che l'autorità giudiziaria, di regola, «provvede» direttamente a quanto necessario ed opportuno sostituendosi alla decisione dei comproprietari in conflitto.

Di solito, nei casi di impossibilità di formazione della maggioranza per la pariteticità delle quote, i problemi sorgono circa l'uso cui destinare l'immobile in comproprietà, se cioè utilizzarlo o darlo in locazione (oltre agli interventi di manutenzione del bene stesso).

In proposito, si consideri che, a ciascun comunista, compete il diritto al godimento diretto ma promiscuo (cioè non esclusivo) della cosa comune, con il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (v. art. 1102, comma 1, c.c.), ma non essendo un obbligo, l'assemblea non può imporlo quando sia impossibile, dannoso o irragionevole, mentre ogni diversa modalità di utilizzazione o godimento (ad esempio, divisione nello spazio, nel tempo, o godimento indiretto) va deliberata dai comunisti secondo il sistema organizzativo interno stabilito dagli artt. 1105 e 1108 c.c.

Qualora vi sia un edificio composto di più appartamenti, è possibile il godimento diretto, spazialmente circoscritto, di una pluralità di comunisti, in quanto la cosa in comune, per le sue caratteristiche strutturali, è tale da consentire una materiale divisione approssimativamente corrispondente alla consistenza delle quote; qualora, invece, vi sia un solo appartamento in comune, e quindi sia manifestatamente impossibile l'uso esclusivo di un comunista o l'uso promiscuo perché richiedente la necessaria coabitazione delle rispettive famiglie, essendoci disaccordo tra i comunisti, in quanto rappresentanti ciascuno il 50% dei voti, appare legittimo il ricorso all'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., perché individui, anche mediante la nomina di un amministratore, una diversa modalità di utilizzazione o godimento del bene, non esclusa la locazione dell'immobile, in quanto atto di ordinaria amministrazione, se di durata non eccedente i nove anni, come è dato desumere a contrario dagli artt. 374, n. 4, e 1108, comma 3, c.c. (contra, Trib. Pescara 30 luglio 1997).

Del resto, si è statuito che, se non è possibile il godimento della cosa comune – nella specie, un appartamento in comunione per quote uguali, insuscettibile d'uso per parti diverse – bisogna far ricorso a forme di godimento indiretto, che, quando i comunisti non sono in grado di formare una maggioranza, debbono essere determinate dal giudice direttamente o mediante la nomina di un amministratore giudiziale; invero, finché i due partecipanti alla comunione concordano nella volontà di coabitazione, si realizza il godimento diretto di entrambi, ma, venuto meno il consenso alla coabitazione e ove i quotisti non si accordino sulle forme e modalità del godimento indiretto, deve farsi ricorso all'autorità giudiziaria per porre fine alla situazione di stallo (Cass. II, n. 455/1972).

In altri termini, il diritto dell'uno di abitare l'unità immobiliare è paralizzato dal pari diritto dell'altro comunista, perciò si pone come necessitato l'intervento dell'amministratore nominato dal giudice, profilandosi soltanto la possibilità di un godimento indiretto del bene comune attraverso la locazione (ad uno di essi o ad un terzo), che non costituisce un atto eccedente l'ordinaria amministrazione rientrando pertanto nei poteri del predetto amministratore; se, poi, il comunista, che si trova nel godimento esclusivo del bene comune contro la volontà dell'altro partecipe della comunione, impedisca anche che tale bene sia messo a disposizione di tale amministratore perché questi possa svolgere il compito affidatogli, sarà tenuto a risarcire l'altro condomino, ed il risarcimento potrà essere rapportato alla metà del canone di locazione che si sarebbe dovuto corrispondere per un appartamento del genere (essendo tale canone il frutto normale e tipico del godimento indiretto di un immobile).

Nelle vicende del rapporto locatizio, l'eventuale pluralità dei locatori integra una parte unica, nel cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione, conseguendone che ciascuno dei locatori può svolgere le azioni che derivano dal contratto, presumendosi il consenso degli altri alla proposizione dell'azione giudiziaria e salva la possibilità per costoro, ove rappresentino nell'ambito della comunione una quota maggioritaria, di opporsi all'azione medesima, mentre, in caso di quote uguali e di dissenso tra i condomini, è necessario il preventivo intervento del magistrato ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. (v., tra le tante, Cass. III, n. 10732/1993; Cass. III, n. 7471/1986; Cass. III, n. 1582/1985; nel caso di pluralità di conduttori, riguardando una comunione di interessi che scaturisce dalla contitolarità di un rapporto di natura obbligatoria, non sono, invece, applicabili le norme sulla comproprietà, perciò non è consentito ad alcuno di essi di chiedere al giudice di stabilire le modalità di godimento di ciascuno, Cass. III, n. 11/1991).

Nell'esaminare l'argomento della locazione di cosa appartenente a più persone in comunione pro indiviso occorre dire, in primo luogo, rammentare che ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota (art. 1103, comma 1, c.c.), dunque può locare la quota (Cass. III, n. 330/2001). Quanto alla disciplina dell'amministrazione della comunione, trova poi applicazione il già citato art. 1105 c.c., il quale, con il riferirsi alle «deliberazioni della maggioranza», stabilisce una procedura collegiale da utilizzarsi al fine dell'amministrazione della cosa comune: ciò vuol dire che il comproprietario maggioritario, ovvero quei partecipanti alla comunione che raggiungono la maggioranza delle quote, non possono compiere atti di amministrazione senza che i rimanenti comproprietari abbiano potuto neppure interloquire. E, per la validità delle deliberazioni della maggioranza, è richiesto che tutti i partecipanti alla comunione siano stati convocati e preventivamente informati della materia della deliberazione (art. 1105, comma 3, c.c.). Per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, sempre che non risultino pregiudizievoli all'interesse di alcuno dei partecipanti, è invece stabilita la maggioranza dei due terzi (art. 1108, comma 2, c.c.), ma la locazione ultranovennale è equiparata agli atti di disposizione e richiede «il consenso di tutti i partecipanti» (art. 1108, comma 3, c.c.). Sicché, una volta rammentato che tra locazione ultranovennale e locazione eccedente l'ordinaria amministrazione non vi è un rapporto biunivoco, nel senso che possono darsi locazioni infranovennali di amministrazione straordinaria, occorre ammettere tre distinte tipologie locatizie assoggettate a distinti quorum deliberativi: quelle di amministrazione ordinaria, per le quali è richiesta la maggioranza semplice dei partecipanti alla comunione, calcolata secondo il valore delle quote; quelle infranovennali di amministrazione straordinaria, per le quali è richiesta la maggioranza dei due terzi; quelle ultranovennali, per le quali è richiesta l'unanimità.

I comproprietari dissenzienti, per parte loro, godono del regime delle impugnative disciplinato dall'art. 1109 c.c. Nel quadro dell'amministrazione della cosa comune posta in essere dalla comunione mediante il sistema deliberativo delineato dalla legge, la locazione sembra costituire, in generale, destinazione d'uso residuale: «L'uso indiretto della cosa comune, mediante locazione, può essere disposto con deliberazione a maggioranza dei partecipanti alla comunione (od, in mancanza, dal giudice, cui ciascuno di questi può ricorrere) soltanto quando non sia possibile l'uso diretto dello stesso bene per tutti i partecipanti alla comunione, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi. Di conseguenza, in mancanza di tali condizioni è nulla la delibera assembleare che a semplice maggioranza dispone l'uso indiretto della cosa in comunione» (Cass. III, n. 6010/1984).

Può tuttavia darsi il caso che la cosa comune sia concessa in locazione dal singolo comproprietario, non dalla comunione previa deliberazione: dunque che il singolo comproprietario assuma la veste di locatore dell'intero. Il che pone il problema della validità ed efficacia del contratto e degli eventuali rimedi spettanti agli altri comproprietari sia nei confronti del comproprietario che abbia locato, sia nei confronti del conduttore. Ebbene, la locazione stipulata dal comproprietario – non dalla comunione all'esito della deliberazione – parrebbe da inquadrare in quest'ultimo fenomeno: essa, in particolare, sembrerebbe da intendere quale locazione di cosa parzialmente altrui, come tale efficace inter partes, ma inopponibile agli altri comproprietari non partecipi della stipulazione (Tabet, 192). Questi ultimi, perciò, oltre ad agire per i danni nei confronti del comproprietario locatore, dovrebbero poter rivendicare la cosa nei confronti del conduttore.

Ben diversa, però, è l'opinione della giurisprudenza. La Suprema Corte afferma costantemente che il singolo comproprietario può procedere alla locazione della cosa comune anche senza l'espresso consenso degli altri comproprietari – pure in difetto, cioè, della previa deliberazione –, agendo nell'interesse di tutti in forza di un mandato inteso quale mandato presunto ovvero quale mandato tacito. Per quanto le due figure finiscano per sfumare l'una nell'altra, esse possono distinguersi perché il mandato presunto sorgerebbe, secondo l'id quod plerumque accidit, della stessa situazione di comunione, mentre il mandato tacito troverebbe fondamento sull'inerzia, il disinteresse, in definitiva il silenzio degli altri comproprietari. Seguendo la prima impostazione, la Suprema Corte ribadisce, riguardo agli immobili oggetto di comunione, il principio della concorrenza – in difetto di prove contraria – di pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, sulla base della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri (Cass. III, n. 9113/1995; Cass. III, n. 5077/2010; Cass. III, n. 19929/2008). Seguendo la seconda impostazione, la giurisprudenza di legittimità sostiene che il principio per cui il singolo comproprietario è legittimato a dare in locazione la cosa comune è fondato sull'essenziale presupposto che non esista dissenso con gli altri compartecipanti alla comunione, trovando così la sua ragion d'essere nella presunzione di consenso insita nel comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria amministrazione della cosa comune, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela dei comuni interessi e così venuto ad assumere la figura del tacito mandatario (Cass. III, n. 4261/1991).

Che il mandato sia presunto o tacito, la Suprema Corte sembra comunque ritenere che tutti i comproprietari divengano parte del contratto di locazione stipulato, quale mandatario presunto o tacito, da uno solo di essi. Sicché, se uno dei comproprietari ha stipulato il contratto di locazione, un altro di essi può esigere l'adempimento delle obbligazioni contrattuali oppure essere chiamato a rispondere delle medesime, ovvero intraprendere le iniziative giudiziarie di volta in volta confacenti, salvo non consti il dissenso della rimanente maggioritaria compagine.

Così, ad esempio, per quanto attiene alla gestione del rapporto locativo, un comproprietario diverso da quello che ha stipulato il contratto può intimare disdetta (Cass. III, n. 11806/1991; Cass. n. 9113/1995), ovvero, dall'opposto versante, può essere dal conduttore chiamato a rispondere del pagamento dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale (Cass. III, n. 3725/1996). Molteplici le pronunce secondo cui ciascun comproprietario – abbia o non abbia egli stesso stipulato il contratto – è legittimato ad agire in giudizio per il rilascio della cosa locata, trattandosi di atto di amministrazione ordinaria, sia per finita locazione, sia per essersi risolto il contratto per inadempimento, sia per recesso del locatore, od altro, senza che il conduttore possa lamentare la non integrità del contraddittorio, a meno che i rimanenti condomini non dissentano dall'iniziativa intrapresa (tra le altre Cass. III, n. 2399/2008; Cass. III, n. 12327/1999; Cass. III, n. 8550/1999; Cass. III, n. 7416/1999; Cass. III, n. 9113/1995; Cass. III, n. 4005/1995; Cass. III, n. 2158/1993). Va, cioè, secondo la Suprema Corte, tenuto fermo il principio che ciascuno dei comproprietari, nella presunzione iuris tantum di un consenso degli altri, risulta legittimato ad agire per la cessazione del contratto attinente al godimento dell'immobile oggetto di comunione (Cass. III, n. 10732/1993). E dunque, nel caso d'immobile in comproprietà ceduto in locazione, ciascun comproprietario può agire per la risoluzione del contratto, presumendosi il consenso di tutti all'iniziativa volta alla tutela di interessi comuni, salvo che si deduca e si dimostri, a superamento di tale presunzione, il dissenso della maggioranza dei contitolari, nel qual caso è necessario il preventivo intervento dell'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 1105 c.c. (Cass. III, n. 2399/2008). Parimenti, riguardo alle diverse ipotesi normative succedutesi nel corso del tempo con le quali è stato riconosciuto al locatore il diritto potestativo di far cessare il rapporto locativo per destinare l'immobile locato alla soddisfazione di un'esigenza propria – si pensi alle varie disposizioni in tema di recesso per necessità e di diniego di rinnovazione alla prima scadenza –, sono numerose le pronunce le quali affermano non soltanto che il comproprietario può individualmente agire contro il conduttore, ma, soprattutto, che può porre un'esigenza esclusivamente propria a fondamento della domanda diretta a provocare la cessazione del rapporto locativo, poiché l'esigenza di uno soltanto (o di alcuni) dei locatori dell'immobile si identifica con quella della parte locatrice complessivamente considerata (Cass. III, n. 537/2002; Cass. III, n. 11806/2001; Cass. III, n. 3175/1989; Cass. III, n. 3174/1989; Cass. III, n. 350/1989; Cass. III, n. 1309/1987; Cass. III, n. 7073/1986; Cass. III, n. 3585/1986; Cass. III, n. 3348/1986; Cass. n. 1582/1985; Cass. n. 357/1983, in diverse ipotesi di recesso per necessità sia dalla locazione abitativa che non abitativa; Cass. III, n. 4568/1997, in caso di diniego di rinnovazione alla prima scadenza exartt. 28 e 29 legge n. 392 del 1978).

Se, invece, l'esistenza di un mandato presunto o tacito sia smentito dalla volontà manifestata dagli altri comproprietari e, cioè, vi sia contrasto tra maggioranza e minoranza, prevale la volontà della maggioranza, secondo la regola stabilita dall'art. 1105 c.c. Qualora, poi, si versi in ipotesi di comunione pro parte dimidia, il meccanismo di prevalenza della volontà della maggioranza diviene inapplicabile ed è necessario, prima di intraprendere l'azione giudiziaria, il ricorso al tribunale, ai sensi dello stesso art. 1105 c.c. Ciò perché tale dissenso pone in evidenza un contrasto d'interesse fra i comproprietari che non può essere risolto, in presenza di uguaglianza delle rispettive quote, con il debito criterio della maggioranza economica secondo i principi vigenti in materia di amministrazione della cosa comune (art. 1105, comma 2, c.c.), bensì comporta di necessità l'intervento dell'autorità giudiziaria come previsto dall'ultimo comma del citato art. 1105 c.c., da questo demandandosi al giudice di dirimere i conflitti tra condomini in ordine alla opportunità e necessità di determinati atti di amministrazione della cosa comune – ed atto di tal genere è l'esperimento di azione giudiziaria contro il terzo conduttore dell'immobile comune – con la nomina, se del caso, di un amministratore (Cass. III, n. 4261/1991). È quindi da escludere, secondo la Suprema Corte, che il singolo comproprietario possa agire per il rilascio quando consti l'esistenza di un contrasto nell'ambito della comunione rispetto all'azione giudiziaria, venendo in tal caso meno la presunzione che l'uno agisca nell'interesse di tutti. Ed in un simile caso, la mancanza di legittimazione ad agire del singolo comunista in caso di contrasto manifestato dagli altri partecipanti alla comunione, dipende da ragioni non già di carattere processuale, ma bensì di ordine sostanziale in quanto il potere giuridico di ogni condomino di proporre qualsiasi azione relativa alla gestione ordinaria della cosa comune trae origine dal diritto che ciascun compartecipe ha di concorrere all'amministrazione della cosa stessa (art. 1105, comma 1, c.c.) ma incontra il suo limite nell'obbligo di rispettare la volontà della maggioranza, con la conseguenza che, ove questa non possa essere raggiunta, nessuno dei condomini può ritenersi autorizzato a proporre azioni giudiziarie di qualsiasi natura tendenti a porre in esercizio il cennato potere di amministrazione (Cass. III, n. 2363/1992). Anche in tempi meno remoti è stato ribadito che, con riguardo alle domande di risoluzione del contratto di locazione e di condanna del conduttore al pagamento dei canoni, deve essere negata la legittimazione (attiva) del comproprietario del bene locato pro parte dimidia, ove risulti l'espressa volontà contraria degli altri comproprietari (e sempre che il conflitto, non superabile con il criterio della maggioranza economica, non venga composto in sede giudiziale, a norma dell'art. 1105 c.c.), considerato che, in detta situazione, resta superata la presunzione che il singolo comunista agisca con il consenso degli altri, e, quindi, cade il presupposto per il riconoscimento della sua abilitazione a compiere atti di utile gestione rientranti nell'ordinaria amministrazione della cosa comune (Cass. III, n. 480/2009).

Occorre, quindi, interrogarsi, sui rimedi spettanti ai comproprietari dissenzienti che, in mancanza di una preventiva deliberazione, non abbiano stipulato la locazione: in particolare, va scrutinata la sorte della locazione conclusa dal comproprietario non soltanto in violazione delle previste regole procedurali, ma anche in contrasto con la volontà maggioritaria degli altri comproprietari. Secondo la S.C., il vincolo contrattuale rimarrebbe del tutto indenne, ed i comproprietari maggioritari non potrebbero in alcun modo agire nei confronti del conduttore facendo valere il proprio diritto dominicale sulla cosa locata: «La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari sorge validamente e svolge i suoi effetti contrattuali, anche se il locatore abbia violato i limiti dei poteri di amministrazione a lui spettanti a norma degli art. 1105 e 1108 c.c. – attraverso la stipula di una locazione ultranovennale senza il consenso degli altri comproprietari –, senza che agli altri partecipanti, che gli hanno lasciato la completa disponibilità della cosa, possa competere azione di rilascio, e tantomeno di revindica, nei confronti del conduttore, salvo il diritto al risarcimento dei danni verso il condomino-locatore, ove la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione» (Cass. III, n. 5890/1982).

La pronuncia non è isolata. Essa è stata infatti ribadita nel caso di una locazione, stipulata da un comproprietario per un quarto, alla quale i rimanenti comproprietari si erano opposti, giungendo alla stipulazione di un nuovo contratto con il medesimo conduttore: il quale, con il riconoscimento della validità ed efficacia del primo contratto, si è visto condannare al risarcimento del danno ex art. 1591 c.c. nei confronti del primo locatore (Cass. III, n. 6292/1992). La situazione muta, però, se la maggioranza abbia esternato il proprio dissenso, rendendolo noto al comproprietario che intende locare ed eventualmente anche all'aspirante conduttore. In tal caso la locazione è invalida, ed i contraenti possono essere chiamati a rispondere dei danni: «In tema di comunione, qualora la maggioranza dei comunisti – appresa l'intenzione della minoranza o di uno di essi di cedere in locazione (o in affitto agrario) ad un terzo la cosa comune, ovvero l'avvenuta stipulazione del contratto – si opponga, rispettivamente, alla conclusione del contratto o all'esecuzione del rapporto locativo, al terzo, cui venga comunicato tale dissenso, resta preclusa la possibilità di pretendere quella conclusione o esecuzione, con la conseguenza che il contratto, stipulato nonostante tale consapevolezza, è invalido per carenza di potere, o di valida volontà, della parte concedente di disporre per l'intero. Inoltre, la comunicazione del detto dissenso non solo alla minoranza, ma anche al terzo conduttore (o affittuario), determina la consapevolezza, in quest'ultimo, della mancanza di legittimazione alla stipula dell'atto da parte della minoranza e, quindi, il concorso, in malafede, nell'abuso del diritto nell'amministrazione del bene comune e ciò costituisce fatto illecito generatore del danno di cui è, pertanto, corresponsabile in solido il conduttore (o affittuario) che ha concorso e cooperato nella conclusione del contratto (Cass. III, n. 14759/2008).

Si è osservato in dottrina che la qualificazione del comproprietario che abbia concesso in locazione l'immobile senza la previa deliberazione prevista dalla disciplina della comunione quale mandatario presunto o tacito dei rimanenti comproprietari desta molte perplessità. Ed altrettante ne suscita l'esclusione di ogni rimedio azionabile dagli altri comproprietari nei confronti del conduttore. Quanto al primo aspetto, con l'espressione «mandato presunto» non si fa altro che riconoscere che nessun mandato è stato conferito (Provera, 100). E la configurazione di un «mandato tacito», nel senso in cui la giurisprudenza lo intende, appare in contrasto con i principi generali dell'ordinamento. Nel discorrere di «mandato tacito», infatti, la S.C. non intende affatto riferirsi ad un mandato conferito per fatti concludenti, bensì ad un mandato desumibile dal silenzio serbato dagli altri comproprietari. Ma nel silenzio – replica agevolmente la dottrina – non è mai contenuta «alcuna tacita manifestazione di volontà, perché si tratta di comportamento equivoco per definizione. Non deve dimenticarsi che è assolutamente falso, sul piano del diritto, il detto comune «chi tace acconsente»; anzi, per affermare l'inespressività del silenzio, gli antichi dicevano che qui tacet neque fateri neque negari videtur (chi tace né afferma né nega). Chi rimane inerte non tiene un comportamento concludente e, quindi, di lui non può dirsi che abbia tacitamente compiuto un atto giuridico (Gabrielli-Padovini, 103). Ed allora, l'assenza di opposizione alla locazione della cosa comune da parte degli altri compartecipanti alla comunione, il loro silenzio, non consente di considerare il comproprietario locatore investito di un mandato tacito. Sicché, con la costruzione del mandato tacito, ed egualmente con quella del mandato presunto, si perviene all'arbitraria applicazione alla comunione delle regole della società semplice, le quali stabiliscono che la sua amministrazione «spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri» (art. 2257, comma 1, c.c.). Ma è chiaro che le regole della società non possono trovare applicazione con riguardo alla comunione, neppure per via di interpretazione analogica, mancando il fondamentale presupposto dell'absentia iuris. Per individuare una più adeguata configurazione giuridica della locazione stipulata dal comproprietario, è allora utile ricordare che in talune pronunce giurisprudenziali il mandatario tacito viene avvicinato all'utile gestore. In effetti, la dottrina ha prospettato l'inquadramento della locazione stipulata dal comproprietario nell'istituto della gestione di affari altrui, di cui agli artt. 2028 ss. c.c. (Branca, 185). In quest'ottica, la locazione stipulata dal comproprietario si colloca sotto la disciplina della disposizione in cui è stabilito che, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, l'interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui (art. 2031, comma 1, c.c.). Naturalmente, però, l'applicazione dell'istituto della gestione di affari richiede la sussistenza dei requisiti a tal fine previsti dalla legge, ossia la absentia domini e l'utiliter coeptum.

Quanto all'individuazione degli strumenti di tutela a disposizione dei comproprietari rimasti estranei alla stipulazione, occorre ammettere che nella giurisprudenza non sono sempre trattati distintamente i profili della validità ed efficacia della locazione con la sua opponibilità al dominus. Non v'è dubbio, infatti, che la locazione stipulata dal comproprietario sia valida ed efficace, quanto ogni locazione stipulata dai chi, pur non essendo proprietario della cosa locata, ne abbia però la materiale disponibilità. Ma, la validità ed efficacia inter partes della locazione stipulata da un soggetto privo di «legittimazione a locare» va tenuta distinta dall'opponibilità al proprietario – in questo caso ai rimanenti comproprietari – il quale conserva inalterato il diritto di rivendicare la cosa presso chiunque, ivi compreso il conduttore. Si deve semmai osservare, allora, che, dinanzi ad una locazione stipulata in ordine sparso da uno o più comproprietari, l'azione di rivendicazione non può essere intrapresa, in ordine altrettanto sparso, da un altro, o da diversi altri comproprietari: «Agire in rivendicazione è una decisione relativa all'amministrazione della cosa comune, che dovrà quindi essere assunta non già direttamente dal singolo, ma col metodo collegiale dall'assemblea dei comproprietari a norma dell'art. 1105 c.c.» (Gabrielli-Padovini, 102).

Sicché, una volta formatasi la maggioranza in favore della rivendicazione, l'azione potrà essere promossa nelle forme ordinarie. Non sembra invece condivisibile la conclusione raggiunta dalla dottrina secondo cui l'assemblea sarebbe comunque tenuta a dare ingresso alla rivendicazione, senza di che ciascun comproprietario potrebbe ricorrere all'autorità giudiziaria per ottenere l'autorizzazione ad agire (Gabrielli-Padovini, 102).

Riassumendo, il singolo condomino può locare la cosa comune, senza necessità di espresso assenso degli altri condomini, trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione che si presume fino a prova contraria compiuto nell'interesse di tutti, e può, del pari, domandare la risoluzione del contratto nonché la condanna del terzo conduttore al rilascio del bene ed al pagamento dei canoni, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri condomini; tuttavia, nel caso di contrasto dei due soli condomini circa l'opportunità di promuovere o coltivare il giudizio di risoluzione contrattuale, essendo esclusa la possibilità della formazione della maggioranza ed essendo anche esclusa ogni presunzione di consenso o di utile gestione, è necessario ricorrere al giudice a norma dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. (Cass. III, n. 3831/1996; nella giurisprudenza di merito, Pret. Cagliari 10 marzo 1993).

Se sussiste, dunque, un contrasto tra i comproprietari che non può essere risolto, in presenza di eguaglianza delle rispettive quote, con il criterio della maggioranza, secondo i principi in materia di amministrazione della cosa comune (v. art. 1105, comma 2, c.c.), tale contrasto va composto in sede giudiziale, con i prescritti provvedimenti camerali previsti nell'ultimo comma di tale norma, demandandosi al giudice di redimere i conflitti tra i condomini in ordine all'opportunità e necessità di determinati atti di amministrazione, con nomina se del caso di un amministratore (Cass. III, n. 4261/1991).

La giurisprudenza di legittimità ha, altresì, rilevato che, anche quando venga pronunciata la risoluzione del contratto di locazione, avente ad oggetto un bene comune locato – non ad un terzo, ma – ad uno dei proprietari, per inadempimento del conduttore, questi, avendo diritto al godimento dello stesso in proporzione della sua quota, non può essere condannato al rilascio del bene medesimo all'altro comproprietario, restando invece ai comunisti di disciplinare l'ordinaria amministrazione della cosa comune, senza privare alcuno dei contitolari del bene delle sue facoltà di godimento, e così eventualmente di ricorrere, in caso di persistente disaccordo, all'autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. per la nomina di un amministratore (Cass. III, n. 8110/1991; Cass. III, n. 3143/1982; nella giurisprudenza di merito, Pret. Monza 19 aprile 1988).

In una fattispecie particolare, una pronuncia di merito ha ritenuto che, contro il proprietario-conduttore di un immobile che rifiuti la riconsegna della quota indivisa concessagli in locazione, per un determinato periodo di tempo, dall'altro comunista (comproprietario della quota equivalente), nonostante l'accertamento giudiziale della cessazione del rapporto locatizio, il comproprietario-locatore può esperire, per ottenerne il rilascio, il ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c., poiché deve ritenersi soddisfatta la condizione prevista dalla legge per l'esperimento della predetta procedura, rappresentata dall'impossibilità di de. liberare sull'amministrazione dell'immobile, per insanabile contrasto tra i partecipanti alla comunione sulla sua utilizzazione (Trib. Verona 31 marzo 1989).

In pratica, considerato che il perpetuarsi dell'occupazione dell'immobile da parte di uno dei comproprietari, in contrasto con la possibilità di dare una diversa e più proficua destinazione del bene in comproprietà, si rivelava contraria all'interesse generale della comunione, l'unico strumento atto a risolvere il problema è stato individuato nel disporre la liberazione dell'immobile da parte del conduttore, così da sbloccare la situazione di impasse venutasi a creare, lasciando alla successiva volontà delle parti ogni scelta in ordine alla destinazione da dare all'immobile, una volta pervenuti alla liberazione dello stesso.

In materia condominiale, l'esigenza dell'intervento giudiziale può quindi riconnettersi alla particolare composizione del condominio, che vede, ad esempio, la contrapposizione di due o più gruppi di pari rappresentatività, o altre situazioni di carattere contingente che impediscano il raggiungimento dei quorum richiesti dalla legge.

In particolare, mette punto ricordare che l'art. 1136 c.c., per la validità delle deliberazioni condominiali, prevede che il criterio della maggioranza delle quote sia integrato da quello della maggioranza numerica dei condomini, e contempla anche la possibilità di seconde convocazioni e maggioranze meno rigide, sicché è sufficiente che il numero e/o la quota degli assenti superi i predetti quorum che non si possa adottare alcuna deliberazione.

Allorché si parla dell'ipotesi in cui «non si forma una maggioranza» (v. art. 1105, ultimo comma, c.c.), il pensiero corre soprattutto al c.d. condominio minimo, vale a dire quello composto da due soli partecipanti, che vantino diritti di intensità paritaria sulle cose comuni (si ipotizzi un edificio costituito da tre piani, compreso in essi il pian terreno, che è comune, e nel quale i condomini siano due, uno proprietario del primo piano e l'altro del secondo, di pari superficie ed eguale valore).

In realtà, una situazione diimpassepotrebbe verificarsi anche in altre analoghe situazioni, e quindi non solamente nel caso di equivalenza dei voti contrapposti dei partecipanti, ma altresì quando la deliberazione non riporti voti sufficienti o in termini di rappresentatività o in termini numerici.

Si pensi al caso in cui i partecipanti al condominio abbiano due quote diseguali, e vi sia quindi la possibilità che una maggioranza si formi con riguardo al «valore», anche se non può formarsi relativamente al «numero»; oppure al caso in cui i detti partecipanti siano più di due, ma alla deliberazione partecipino due soli, a quote uguali, o tutti quanti, ma la delibera risulti presa a quote uguali, in quanto le quote di ciascun gruppo sono uguali a quelle dell'altro; oppure al caso in cui un condomino abbia una quota uguale a quella degli altri condomini messi insieme: si tratta di ipotesi in cui una maggioranza, in teoria, è possibile, ma, in pratica, invece, non si realizza.

Si pensi, poi, al caso in cui un solo condomino sia titolare di quote dell'edificio in misura superiore alla metà: qualora vi sia divergenza di opinioni con gli altri condomini non è possibile la formazione di una qualsiasi maggioranza idonea ad approvare o a respingere un provvedimento posto all'ordine del giorno, perché il partecipante che ha la maggioranza «capitalistica» non può disporre della necessaria maggioranza «numerica», mentre i condomini che gli si contrappongono, pur essendo in numero superiore, non rappresentano una sufficiente quota di valore dell'edificio.

Una parte della giurisprudenza, sul presupposto che sussiste un regime di comproprietà in parti uguali, ha ritenuto che non trova applicazione la disciplina dettata per il condominio degli edifici dagli artt. 1117 ss. c.c., bensì quella prevista per la comunione, in generale, dagli artt. 1110-1116 c.c.; in altri termini, il sistema legislativo vigente necessariamente presuppone una pluralità di partecipanti al condominio, superiore almeno a due, in ossequio al noto aforisma tres non duo faciunt collegium, perché altrimenti non sarebbe attuabile la possibilità, su cui il sistema è imperniato, che l'assemblea validamente si costituisca e deliberi a maggioranza, semplice o qualificata, con i modi stabiliti dalla legge (con riferimento al numero dei partecipanti al condominio e in rapporto al valore dell'edificio condominiale).

Ancorata a tale imprescindibile elemento, la disciplina dettata dall'art. 1136 c.c. non è evidentemente applicabile all'ipotesi del condominio costituito da due soli partecipanti, non essendo possibile, in questo caso, la formazione di una maggioranza con riferimento al numero dei condomini, ed essendo, quindi, esclusa la possibilità per l'assemblea di costituirsi e di deliberare con i criteri prescritti dall'art. 1136 citato; pertanto, stante il rinvio ex art. 1139 c.c., al condominio costituito da due soli partecipanti vanno applicate le norme sulla comunione in generale, di cui il condominio costituisce una specie, conseguendone, per gli atti di ordinaria amministrazione, la validità della deliberazione che riporti il solo voto del condomino proprietario della quota maggiore (Cass. II, n. 1604/1975; Cass. II, n. 745/1966).

Si è, però, sostenuto che la situazione rappresentata potrebbe portare all'applicazione dell'art. 1105 c.c. solamente per quanto attiene alla possibilità di richiedere all'autorità giudiziaria un intervento «sostitutivo», nel senso che, nell'ipotesi di divergenza di volontà dei due condomini, si verte nella situazione prevista nell'ultimo comma del citato articolo, e che non sia quindi necessario estendere alla comunione edilizia le regole per la formazione della maggioranza, fondate sul semplice principio «capitalistico», di cui alla comunione semplice, eludendo quei principi di tutela della minoranza («quantitativa») dissenziente, che vigono in tema di comunione edilizia (Bucci, 81).

Un'altra parte della giurisprudenza muove, invece, dal presupposto secondo il quale l'inequivocabile disposizione dell'art. 1139 c.c. porta a ritenere che la disciplina dei rapporti condominiali deve essere ricavata essenzialmente dalle norme contenute nel capo II del titolo VII del libro 111 del codice civile (v. artt. 1117-1138 c.c.), e, solo per quanto in tali norme non espressamente previsto, possono osservarsi le disposizioni sulla comunione in generale (v. artt. 1110-1106 c.c.). Detto principio vale per ogni tipo di condominio, e, quindi, anche, in quanto per essi né esplicitamente né implicitamente derogato, per i c.d. condominii minimi, e cioè per quelle collettività condominiali composte da due soli partecipanti (in pratica, la riduzione a due sole unità del numero dei partecipanti al condominio non comporta il venir meno del condominio medesimo); ciò non toglie che non possano applicarsi le disposizioni concernenti il funzionamento delle assemblee di condominio dettate nell'art. 1136 c.c., e che, perciò, la gestione dell'amministrazione debba essere regolata secondo quanto prescritto dagli artt. 1104,1105 e 1106 c.c. (Cass. II, n. 7126/1991; Cass. II, n. 535/1978).

È stato obiettato che non è esatto che l'assemblea dei condomini non possa «costituirsi» quando i condomini siano due, né si può dire che non le sia data la possibilità di «deliberare»; si costituisce, anzi, con la totalità dei partecipanti e può anche validamente deliberare all'unanimità, con l'unico inconveniente non può deliberare «a maggioranza», ma questo può anche accadere nei condominii in cui il numero dei partecipanti sia superiore a due (v. gli esempi di cui sopra); in questo caso, si rimedia ricorrendo alla disposizione dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. che prevede espressamente il caso – non certo limitato all'ipotesi di comunione costituita da due partecipanti a quote uguali – che «non si formi una maggioranza» e la sua formazione è indispensabile per l'adozione di provvedimenti riguardanti la cosa comune, norma applicabile anche al condominio di edifici ex art. 1139 c.c. non essendo il caso previsto dalle disposizioni particolari che regolano quest'ultimo (Salis 1975, 769).

Pertanto, qualora non sia possibile, per i più disparati motivi, il formarsi di una maggioranza, a questa mancanza può supplire il giudice ai sensi dell'art. 1105 citato, adottando quella soluzione che giudichi più conveniente per l'uso ed il godimento della cosa comune, senza peraltro ledere quel «diritto» il cui uso e godimento deve essere garantito ad ogni partecipante al condominio (v. art. 1102, comma 1, c.c.); trattasi di uno strumento alternativo previsto dalla legge ed approntato per consentire all'interessato di ovviare all'eventuale ingiustificata opposizione degli altri partecipanti o all'inazione di questi nell'adozione e nell'esecuzione di provvedimenti necessari per la conservazione ed il godimento dell'edificio in condominio.

Nulla esclude che, qualora non si possano adottare tali provvedimenti, stante, a monte, la mancata partecipazione di un condomino all'assemblea ritualmente convocata dall'altro condomino, o comunque nel pieno disinteresse dal primo manifestato nella gestione dell'edificio comune, si possa procedere alla nomina di un amministratore ex art. 1105, ultimo comma, c.c. (Trib. Ariano Irpino 14 ottobre 1997, in una fattispecie in cui si lamentava la mancata esecuzione di opere necessarie ad eliminare gli inconvenienti causati dalle infiltrazioni di acqua provenienti dal terrazzo condominiale).

L'omessa esecuzione di una delibera assembleare.

L'art. 1105, ultimo comma, c.c. contempla (anche) l'ipotesi di un intervento giudiziale «se la delibera adottata non viene eseguita».

La legittimazione a sollecitare tale intervento sembra che si debba riconoscere a «ciascun partecipante», e perciò anche a chi, avendo prima resistito, si ricreda in seguito, in quanto la decisione, una volta presa, si imputa alla collettività.

Orbene, nella disciplina della comunione, l'esistenza di un amministratore – cioè dell'organo preposto a dare esecuzione ai deliberati della maggioranza – è meramente facoltativa (v. art. 1106, comma 2, c.c.: «l'amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo ...»); ciò induce a ritenere che presupposto dell'intervento de quo sia la mancanza dell'amministratore, in quanto non sembra ipotizzabile un intervento sostitutivo nei confronti di tale soggetto che risponde del proprio comportamento secondo le regole del mandato; solo ove consti un'ingiustificata inerzia dell'amministratore ed una correlativa impossibilità di ovviare a tale inerzia nell'ambito dei normali meccanismi di formazione della volontà della comunione, può trovare applicazione la predetta norma.

Con riferimento alla materia condominiale, si è sostenuto che non sembra possano essere dedotte con ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c. le situazioni connesse alla mancata attuazione di una delibera assembleare approvata, giacché, nell'ambito del condominio, esiste un organo cui è specificatamente demandata l'esecuzione delle «deliberazione dell'assemblea dei condomini» (v. art. 1130, n. 1, c.c.), sicché l'inosservanza di un tale obbligo può essere valutata dalla stessa assemblea – che può sostituirlo in ogni tempo ai sensi dell'art. 1129, comma 2, c.c. – o dall'autorità giudiziaria investita dalla domanda di revoca ai sensi dell'art. 1129, comma 11, c.c., ma non appare configurabile una sovrapposizione del giudice rispetto ad un organo che risulti validamente operante con il consenso dei condomini, considerato, appunto, che una situazione di prolungata inerzia dell'amministratore, correlata alla mancata adozione di provvedimenti nell'ambito del condominio, può legittimare la sostituzione dell'amministratore medesimo, sotto il profilo delle «gravi irregolarità» (Crescenzi, 298).

In altri termini, la mancata esecuzione di una delibera del condominio può costituire motivo di revoca e fonte di responsabilità per l'amministratore, sotto il profilo dell'inadempienza al mandato, ma non abilita il condomino a ricorrere al giudice per sopperire ad una carenza di attività gestionale che è altrimenti risolvibile, non potendosi ammettere un provvedimento del giudice diretto all'attuazione della predetta delibera, in funzione «sostitutiva» di un organismo esecutivo il cui incarico è conferito dalla volontà del medesimo condominio.

Quando, invece, si tratti del c.d. piccolo condominio, dove il numero dei partecipanti è inferiore a cinque e non è prevista la nomina di un amministratore da parte dell'assemblea – e sempre che la stessa assemblea non abbia esercitato la facoltà, pur sempre esistente, di procedere ugualmente alla nomina – le modalità di attuazione, attraverso il ricorso all'autorità giudiziaria, di una deliberazione non eseguita, seguiranno le medesime regole degli interventi del giudice, in via esecutiva, della comunione semplice (Trib. Genova 5 aprile 1988, secondo cui l'intervento del giudice, in base all'art. 1105, ultimo comma, c.c. è configurabile anche in tema di condominio edilizio, limitatamente alle ipotesi di mancata adozione di provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o di mancata formazione della maggioranza, mentre, nella terza ipotesi contemplata dalla norma, relativa alla omessa esecuzione della delibera adottata, l'intervento giudiziario è ammissibile solo in caso di assenza dell'amministratore, cioè nei condominii con non più di quattro partecipanti, giacché in presenza di tale organo condominiale, istituzionalmente investito del potere-dovere di dare esecuzione ai deliberati assembleari, il predetto intervento determinerebbe un'inopportuna interferenza nella sfera di competenza dell'amministratore ed una pleonastica duplicazione di attività).

In ogni caso – superando l'obiezione di inammissibilità di tale intervento giudiziale in materia condominiale – la giurisprudenza ha precisato che l'arto 1105 c.c. prevede il ricorso all'autorità giudiziaria nell'ipotesi in cui la deliberazione dei partecipanti alla comunione non sia eseguita dagli stessi partecipanti, o dall'amministratore nel caso in cui questo sia stato nominato, non essendo, invece, ammissibile il ricorso alla procedura anzidetta per la declaratoria di esecutività della deliberazione (che integra un atto negoziale privato) nei confronti di soggetti estranei alla comunione medesima (Cass. II, n. 10575/1994).

Si è anche rilevato che la mancata esecuzione della deliberazione – che a tenore dell'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. giustifica il ricorso all'autorità giudiziaria in camera di consiglio – deve dipendere da incuria o resistenza del partecipante o dei partecipanti alla comunione, e non dal comportamento di un soggetto diverso, quale è l'amministratore (Cass. II, n. 11472/1991).

Quest'affermazione è stata, però, oggetto di critica proprio in ordine all'ipotesi ricostruttiva che riconduce l'amministratore ad un soggetto diverso, «estraneo» al condominio, in quanto non autorizzata dal tenore letterale della norma, che non dice affatto che l'inesecuzione debba dipendere necessariamente da un condomino, né tanto meno dall'interpretazione teleologica, ove si tenga conto che la ratio di tutela del singolo comunista si pone per tutte le ipotesi in cui l'inerzia nell'amministrazione possa determinare nocumento agli interessi dei condomini, e, nella specie, in ogni caso di inesecuzione delle delibere assembleari (Aitala, 579).

Invero, per quanto attiene all'esecuzione o inesecuzione della volontà assembleare, non sembra che l'amministratore possa considerarsi un soggetto diverso, portatore di un proprio interesse in contrasto con quello dei condomini; essendo il soggetto istituzionalmente deputato ad eseguire la volontà assembleare, l'ipotesi di inerzia nella gestione dovuta all'amministratore si palesa, dunque, quella di regola, perciò negare, in tal caso, al condomino la sperimentazione del peculiare e celere strumento di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c., si tradurrebbe nel ridurre la norma a vuoto simulacro, utilizzabile, per il condominio di edifici, nelle rare ipotesi in cui a dover eseguire il deliberato sia il singolo condomino.

In realtà, in tema di comunione, le ragioni della mancata esecuzione di una delibera assembleare possono essere le più svariate; ad esempio, se la cosa comune ha bisogno di riparazioni e se si è deliberato di farle eseguire, ostacoli potrebbero venire dal fatto che qualcuno dei partecipanti rifiuti di concorrere alla stipulazione del relativo contratto d'appalto, o non versi la sua quota parte dei fondi all'uopo occorrenti, o non presti la sua opera in conformità con l'adottata decisione.

Ora, tenendo conto quanto sopra detto in ordine ai limiti dell'intervento giudiziale trattandosi pur sempre di atto intrinsecamente amministrativo, non destinato a dirimere una controversia, ma a rimediare ad un'inerzia dei partecipanti alla comunione, il magistrato, adito ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., non potrà riconoscere o disconoscere pretesi diritti dell'uno o dell'altro partecipante, né condannare alcuni di essi a dare, a fare, o a non fare.

Il giudice non può costringere il comunista a pagare quanto da lui dovuto, o a prestare la sua opera, anche se ciò sia necessario per l'amministrazione della cosa comune o non sia altro che la dovuta esecuzione della delibera assembleare adottata; l'unico compito è solo quello di accertare se lo stato della cosa comune richieda che si provveda, e, verificata la «necessità» dell'intervento e l'inerzia degli interessati, provvedere all'amministrazione della cosa comune; così facendo, l'autorità giudiziaria si sostituisce semplicemente alla maggioranza ed ha quindi facoltà di fare quanto la stessa avrebbe dovuto fare (nel caso di specie, potrebbe nominare un amministratore per stipulare il contratto con la ditta appaltatrice dei lavori).

Invero, quando l'attuazione della volontà dei condomini richieda il compimento di attività di carattere giuridico – si pensi ad azioni giudiziarie contro i condomini o terzi, stipulazione di contratti, ecc. – il giudice non può far altro che procedere alla nomina di una persona incaricata di portare a compimento le medesime attività, essendo escluso che l'autorità giudiziaria possa, in sede di procedimento camerale, emettere ordini e condanne suscettibili di esecuzione forzata.

Vero è che la norma richiamata prevede l'intervento dell'autorità giudiziaria anche quando «la deliberazione adottata (dalla maggioranza) non viene eseguita», ma qualunque sia il preciso significato da attribuire a tale generica espressione, sembra evidente il limite inderogabile segnato dalla natura, funzione ed effetti propri della volontaria giurisdizione; quindi, neppure sotto il profilo di provvedere all'esecuzione di una delibera adottata dall'assemblea dei condomini e necessaria per l'amministrazione della cosa comune, il giudice ha alcun potere di riconoscere e di disconoscere i pretesi diritti dell'uno o dell'altro partecipante, né di condannare alcuno di essi a dare, fare o a non fare alcunché (in casi concreti, si è affermato che il magistrato non potrebbe risolvere una controversia sulla validità di un contratto o sull'efficacia di un titolo esecutivo, né potrebbe risolvere una controversia tra due comproprietari sulla legittimità della cessione della quota di uno di essi ad un terzo, v. App. Roma 24 novembre 1956; App. Roma 11 luglio 1949).

In altri termini, se non si ravvisa un'inerzia nell'esecuzione della deliberazione, ma un ostacolo all'esecuzione medesima costituito dalla contrapposizione di diritti altrui con essa incompatibili, si è in presenza di un conflitto giuridico di interessi, e cioè ad una lite, per la cui composizione il procedimento in camera di consiglio si rivela inidoneo; d'altro canto, si è osservato che tale controversia si presenta identica in tutto e per tutto a quella che può nascere tra singoli proprietari esclusivi, e non presentando alcunché di particolare alla comunione, non si vede per quale ragione dovrebbe essere sottratta alle forme del processo contenzioso (Stella Richter, 663).

Negli stessi termini, deve convenirsi che, in sede di domanda di attuazione di una deliberazione non eseguita, può sorgere contrasto tra le parti in merito alla regolarità ed alla validità della deliberazione stessa, ma in questo caso tali contrasti non possono essere risolti in sede di volontaria giurisdizione, sicché il giudice dovrà attenersi alla regola dell'efficacia formale del provvedimento adottato dall'assemblea dei condomini (sempre che ne risulti l'esistenza), tenendo presente che le deliberazioni sono immediatamente esecutive anche se contro le stesse sia stata proposta impugnazione in sede contenziosa, salvo che, in pendenza del giudizio di opposizione, il giudice ne abbia disposto la sospensione ai sensi dell'art. 1137 c.c.

La mancata adozione di provvedimenti necessari per la cosa comune.

L'ultimo comma dell'art. 1105 c.c. prevede (infine) il ricorso al giudice incamera di consiglio qualora «non si prendano i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune».

Escluse le due ipotesi sopra esaminate – impossibilità di formare una maggioranza e omessa esecuzione di una delibera assembleare già adottata – in materia condominiale vengono in rilievo tutti quei casi in cui l'intervento del magistrato, rispondendo sempre a quelle finalità sostitutive della volontà dell'assemblea dei condomini, caratteristica peculiare della volontaria giurisdizione, sia strettamente correlato al determinarsi di una necessità, rispetto alla quale l'organo gestorio omette di adottare le idonee statuizioni.

In altre parole, nell'ambito del condominio, gli interventi del giudice in tema di amministrazione ex art. 1105 citato si concentrano in quelli che hanno natura sostitutiva di una deliberazione non presa, che sia «necessaria» ai fini del funzionamento della gestione dell'edificio e che l'inerzia o i contrasti dei partecipanti impediscano di adottare in sede assembleare (in quest'ordine di concetti, è stata dichiarata improponibile la domanda del condomino, nei confronti dell'amministrazione del condominio, diretta ad ottenere opere di manutenzione straordinaria di un servizio comune – nella specie, sostituzione della caldaia dell'impianto di riscaldamento – senza la previa sollecitazione della convocazione dell'assemblea del condominio, nella cui attribuzione rientrava la relativa deliberazione, Cass. II, n. 460/1971).

Pertanto, si presuppone che la parte interessata abbia preliminarmente provocato (o tentato di provocare) una decisione dell'assemblea, e che tale deliberazione non sia intervenuta, per un qualunque motivo; qualora la deliberazione vi sia stata, e l'assemblea abbia espressamente negato il provvedimento richiesto dall'interessato, non vi sono più le condizioni necessarie per il ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione; infatti, una volta intervenuta l'espressione della volontà del condominio, non si verte nell'ambito di una deliberazione «non presa», bensì in quello di un contrasto tra il condominio stesso e la posizione dell'interessato, che deve necessariamente essere risolto nell'ordinaria sede contenziosa.

Per quanto attiene, in particolare, ai singoli provvedimenti che possono essere richiesti al giudice in sede di volontaria giurisdizione, gli stessi dovranno logicamente rientrare tra quelli che la legge attribuisce alla competenza dell'assemblea, secondo le disposizioni di cui agli artt. 1133,1135 e 1138 c.c.

Va, però, precisato che, per alcune di queste attribuzioni, le predette disposizioni indicano espressamente il modo in cui possono risolversi le situazioni di inerzia deliberativa senza che sia necessario il ricorso all'autorità giudiziaria in sede camerale (Bucci, 84).

Ad esempio, per l'ordinaria gestione dei beni e servizi comuni, la stessa è affidata alla cura dell'amministratore, contro cui è ammessa impugnativa davanti all'assemblea, per questioni di merito, o al magistrato, in sede contenziosa, per motivi di legittimità (v. art. 1133 c.c.); per le riparazioni urgenti, l'amministratore o il singolo condomino può provvedervi direttamente, salvo il diritto al rimborso nei confronti del condominio (v. artt. 1134 e 1135, ultimo comma, c.c.); per le liti attive o passive che eccedono le attribuzioni dell'amministratore, è riconosciuto a ciascun condomino di difendere i propri interessi in relazione alle cose comuni, agendo o resistendo in giudizio in loro difesa, personalmente, senza necessità di alcun provvedimento assembleare.

Al di fuori di queste ipotesi, nell'ambito del condominio degli edifici, perché possa essere adito il giudice occorre che il provvedimento, la cui mancata adozione costituisce motivo del ricorso, rivesta carattere necessitato, dovendosi escludere che, a fondamento dell'istanza, possa essere allegata la mera opportunità del provvedimento.

Sotto il profilo della tipologia di intervento invocabile al giudice, sussiste diversità di opinioni.

Secondo alcuni, non ha rilievo la distinzione tra atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione, in quanto la norma subordina il ricorso all'autorità giudiziaria alla semplice omissione di un qualche provvedimento che si configuri «necessario» per l'amministrazione della cosa comune; ne consegue che potranno essere oggetto del ricorso anche le riparazioni straordinarie e l'esecuzione di lavori di notevole entità, purché giustificati dall'esigenza di tutelare gli interessi comuni, mentre non dovrebbe rientrarvi il «miglior godimento» perché un comunista non può pretendere dal giudice se non provvedimenti necessari all'uso del bene così com'è (Branca, 195).

Qualche dubbio può sorgere in relazione alla ricostruzione delle parti dell'edificio parzialmente perite (v. art. 1228 c.c.), ma, nella prospettiva di cui sopra, la «necessità» delle opere dovrebbe prevalere rispetto alla «straordinarietà» dell'intervento, per cui, in caso d'inerzia dell'assemblea, dovrebbe ammettersi la legittimità del ricorso in sede camerale (contra, App. Napoli 23 ottobre 1985, che ha ritenuto inammissibile il ricorso all'autorità giudiziaria in sede di volontaria giurisdizione, non rientrando la ricostruzione di un edificio negli atti sopra indicati).

Di diverso avviso una parte della giurisprudenza, secondo cui l'art. 1105, ultimo comma, c.c. contempla soltanto ed esclusivamente gli atti di ordinaria amministrazione – che comprende la conservazione, l'utilizzazione comune ed anche il miglior godimento (sempre che non si tratti di innovazione) – dovendosi tale proposizione normativa interpretare sistematicamente in relazione alle altre contemplate nei commi precedenti, così come il complesso delle disposizioni del citato articolo (Cass. II, n. 1604/1975, in materia di installazione dell'impianto di ascensore, in quanto comportante non soltanto una migliore utilizzazione, ma anche una modifica nella destinazione originaria della cosa).

Comunque, sembra che il contenuto del provvedimento non possa andare oltre a quanto «necessario» per la conservazione della cosa: non potranno, infatti, essere richiesti né concessi provvedimenti che dispongano innovazioni, né atti di alienazione o di costituzione di diritti reali o di locazioni eccedenti il novennio, e ciò per il carattere straordinario degli atti menzionati, che richiedono unanimità di consensi o maggioranze qualificate, e rispetto ai quali non ricorre il requisito della necessità ai fini del funzionamento della comunione (Bucci, 63).

Pertanto, nel caso di condominio di un edificio costituito da due soli partecipanti ove uno di questi intenda procedere, contro la volontà dell'altro ad innovazioni o, in genere, ad atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, è applicabile non il citato art. 1105 ma il successivo art. 1108 c.c., sicché, di fronte alla materiale impossibilità di formare tra due soli condomini la maggioranza prevista da quest'ultima norma, deve concludersi con l'escludere che l'interesse di uno dei partecipanti all'innovazione od all'atto di straordinaria amministrazione trovi nell'ordinamento tutela giuridica per superare l'opposizione dell'altro partecipante (dalla nozione di amministrazione straordinaria dovrebbe tenersi distinta quella di manutenzione straordinaria, sia pure di «notevole entità», benché la disciplina del condominio richieda per la sua approvazione la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 4, c.c.).

Resta inteso che, in caso di negligenza degli altri partecipanti e qualora si tratti di provvedere alla «conservazione» della cosa comune, il partecipante diligente ha però sempre facoltà di provvedervi da solo e di farsi restituire le spese occorse dagli altri in proporzione delle loro quote, in quanto l'art. 1110 c.c., che stabilisce in questi casi il diritto al rimborso, non distingue tra atti di ordinaria amministrazione e quelli che la eccedono (l'art. 1134 c.c., in tema di condominio, prevede il rimborso in caso di «spesa urgente» per le cose comuni); la legge considera la predetta conservazione della cosa tanto importante (e presumibilmente voluta da tutti i partecipanti) da autorizzare ciascuno di essi da solo a rimettere la cosa stessa nello stato quo ante, con il solo rimedio per gli altri di rinunciare al loro diritto qualora non intendano sopportare le quote della spesa a loro carico (v. art. 1104, comma 1, c.c.), mentre analogo diritto non è dato al partecipante per quanto riguarda le spese per il «godimento» della cosa e quelle «amministrative» in senso stretto, necessitando le quali, il partecipante diligente può vincere l'inerzia della maggioranza ed evitare un suo pregiudizio rivolgendosi al giudice ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c.

A ben vedere tale ultimo capoverso, parla di provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, ma non spiega in cosa consista tale «amministrazione».

Nella sua Relazione al Re, il Guardasigilli parla di «inerzia nell'amministrazione per non essersi presi o attuati i provvedimenti necessari per la conservazione della cosa comune», ma quest'interpretazione è troppo restrittiva; l'art. 1104 c.c. distingue tra spese necessarie per la conservazione della cosa comune, quelle necessarie per il suo godimento e quelle deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, tra le quali si pone per prima la norma dell'art. 1105 intestata appunto «amministrazione», ma sembra assurdo escludere, tra gli atti previsti da tale norma, quelli che possono riguardare la conservazione ed il godimento, e restringerne l'operatività a quelli che, prescindendo dalla sua essenza materiale e dall'uso a cui deve servire, la riguardino solo come oggetto di riferimento di un atto amministrativo di natura diversa (si pensi al pagamento di un'imposta).

È stato osservato, in proposito, che amministrare una cosa, significa curarsi di essa sotto tutti gli aspetti, per cui l'amministrazione, di cui è parola l'art. 1105 citato, non può pertanto essere un termine in contrapposizione alla conservazione e al godimento, ma li comprende (Rogozinski, 194).

Nel senso che le modalità di godimento della cosa comune rientrano nel concetto di amministrazione in senso ampio, e quindi giustificano l'intervento sostitutivo del giudice, v. Trib. Firenze 1 ottobre 1970.

Comunque, anche quando il partecipante diligente possa provvedere da solo agli atti necessari alla «conservazione» della cosa comune, ha facoltà di rivolgersi al magistrato in sede di volontaria giurisdizione, e preferirà sollecitare tale intervento, in primo luogo, perché il provvedervi da solo implica la necessità di anticipare le spese anche per quella parte che sarebbe a carico degli altri, mentre egli potrebbe avere interesse a pagarne soltanto una parte, e, in secondo luogo, perché si espone al rischio di vedersi opposta l'eccezione che le spese incontrate non siano state necessarie, e una tale prova potrebbe risultare in concreto difficile difettando un accertamento giudiziale dello stato in cui si trovava la cosa prima dell'esecuzione del provvedimento in contestazione.

Passando a qualche esempio concreto – salvo analizzare nei paragrafi successivi le ipotesi più frequenti nella pratica – nell'ambito dei provvedimenti necessari per la «amministrazione» della cosa comune ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., si è fatta rientrare la regolamentazione della sosta e del parcheggio delle autovetture negli spazi comuni del fabbricato; l'assemblea condominiale era inerte ad adottare provvidenze (di carattere limitativo, protettivo e disciplinare) per ovviare alla situazione di disordine, di turbativa, di impedimenti e di danneggiamenti vari conseguente al caotico ed increscioso stato di fatto, sicché il magistrato adito, per sopperire in via sostitutiva alle decisioni dell'assemblea in merito alla gestione della cosa comune, ha provveduto a nominare un amministratore ad acta perché adottasse il predetto regolamento (Trib. Napoli 3 marzo 1994; circa l'adozione di un regolamento per il parcheggio delle auto nel parco e nei viali condominiali, di competenza del giudice onorario trattandosi di misura e modalità di uso dei servizi condominiali ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, n. 2, c.p.c., v., altresì, Giud. Pace Napoli 5 marzo 1996).

In un'altra fattispecie singolare in cui si trattava di stabilire le modalità di realizzazione delle opere occorrenti per l'urgente riparazione di una scala comune e del sovrastante tetto, si è ritenuto che la contesa non riguardava diritti soggettivi di condomini, essendo il caso riconducibile all'art. 1105, ultimo comma, c.c., secondo cui «se non si prendono i provvedimenti necessari per la cosa comune», ciascun partecipante può ricorrere al giudice in sede camerale affinché emetta le statuizioni del caso, sostituendosi all'attività manchevole delle parti nell'amministrazione del loro comune interesse; in questa situazione, non importava che la ragione della paralisi amministrativa dipendeva da un conflitto tra i comunisti, dato che tale conflitto non riguardava posizioni giuridiche soggettive, bensì aspetti materiali dell'amministrazione stessa, con particolare riferimento alle modalità di realizzazione delle opere di restauro; la domanda non era diretta all'accertamento del diritto mai contestato previsto dall'art. 1100 c.c., ma a sollecitare un intervento autoritativo di supplenza ad un'inerzia, determinata da una disparità di vedute dei comunisti su aspetti pratici della gestione stessa (cfr. Trib. Monza 24 febbraio 1987).

Le ipotesi concrete più frequenti.

L'ipotesi di maggior rilievo pratico in ordine all'operatività del disposto dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. in materia condominiale è forse quella che attiene all'esigenza di esecuzione di lavori di manutenzione, riparazione o conservazione dell'edificio.

In quest'ipotesi si registra un'inerzia dei partecipanti relativamente alla fase della deliberazione, ma sembra corretto ritenere che il condomino che ritenga la necessità che vengano effettuate le opere de quibus non possa rivolgersi direttamente al giudice, né in sede contenziosa, né in sede di volontaria, ma debba previamente prospettare la predetta esigenza nell'ambito dei consueti meccanismi deliberativi propri del condominio (v., in materia di comunione, Cass.S.U., n. 4213/1982; nel senso che competente a decidere sulle riparazioni delle parti comuni è l'assemblea dei condomini che deve operare collegialmente, e, essendo la competenza di tale organo stabilita dalla legge, il singolo condomino non può prescindervi ed adire direttamente l'autorità giudiziaria, v., nella giurisprudenza di merito, App. Ancona 7 settembre 1960).

L'eventuale contenuto negativo della deliberazione assembleare potrà legittimare l'impugnazione in sede contenziosa ai sensi dell'art. 1137 c.c. sotto il profilo dell'eccesso di potere, per il grave pregiudizio derivante alle cose comuni (sui limiti del sindacato giudiziale in tali casi, v. Cass. II, n. 3938/1994; Cass. II, n. 10611/1990; Cass. II, n. 731/1988); qualora, invece, l'assemblea non venga convocata, sempre che il condomino non sia in grado di provvedere «direttamente» – l'art. 66 disp. att. c.c. prevede tale possibilità «in mancanza dell'amministratore», o, se questi esiste ma è sordo al riguardo, nel caso in cui l'iniziativa provenga da «almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio» – oppure qualora, per qualsiasi ragione, non si pervenga all'adozione di una qualunque decisione, allora il medesimo condomino potrà adire il magistrato in sede di volontaria giurisdizione (Cass. II, n. 823/1972, in ordine all'effettuazione di una spesa per lavori necessari, siano di manutenzione ordinaria che di manutenzione straordinaria, che fa salva la possibilità di revoca dell'amministratore negligente).

D'altronde, gli atti di conservazione dei beni comuni rientrano tra gli atti di amministrazione, e non è possibile che il giudice, adito in via contenziosa, decida se un determinato atto di conservazione debba compiersi o meno, come esso debba eventualmente realizzarsi, e, quindi, se ed in quali limiti una determinata spesa debba essere sostenuta, poiché così il giudice sostituirebbe la propria volontà a quella dei condomini, ai quali soltanto compete il diritto-dovere di concorrere all'amministrazione della cosa comune.

Da ricordare che, una volta ritenuto ammissibile l'intervento giudiziale, nel provvedimento in oggetto, si manifesta quella discrezionalità tipica dei decreti emessi in sede di volontaria giurisdizione, nel senso che il giudice non sembra tenuto, nella propria statuizione finale, all'osservanza del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, essendo svincolato dalle richieste del condomino ricorrente e restando libero di valutare quali siano gli strumenti più idonei, in concreto, per l'amministrazione della cosa comune (non può, però, invocarsi ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c. un provvedimento concernente l'esecuzione di opere nelle parti in proprietà esclusiva, v. Trib. Parma 9 marzo 1993, ove, nella specie, si chiedeva ordinarsi di installare un campanello con targhetta su un cancello di proprietà esclusiva di un condomino).

In una fattispecie particolare, il giudice di merito ha ritenuto che, per la necessaria ed indifferibile manutenzione delle facciate dell'edificio invocata dal ricorrente, non erano sufficienti il distacco e la rimozione delle parti pericolanti dei rivestimenti degli aggetti e dei balconi, ma occorreva anche il ripristino di quanto rimosso o già mancante; infatti, tanto nell'interesse della stessa conservazione delle cose comuni (decoro della facciata) quanto per evitare danni alle proprietà individuali (senza escludere la tutela dell'incolumità dei terzi), non era possibile consentire che, al distacco dei rivestimenti pericolanti, non seguisse anche il rifacimento degli intonaci, perché le strutture dell'edificio, esposte all'aggressione degli agenti atmosferici e delle precipitazioni, non avrebbero costituito più (come loro destinazione naturale) tutela e protezione adeguate delle parti comuni e delle diverse porzioni di piano di proprietà individuale (v. Trib. Milano 3 novembre 1989, che ha, altresì, considerato opportuno, ma non necessario ed urgente, il consolidamento del tetto in quanto non in stato di avanzato degrado).

Nel caso concreto, il Tribunale ha accertato l'esistenza dei presupposti dell'intervento giudiziale in sostituzione dell'assemblea condominiale, nella quale non si riusciva a formare la maggioranza richiesta per l'adozione delle delibere che risultavano necessarie per l'amministrazione della cosa comune, ma ha ritenuto che la scelta dell'impresa cui affidare i lavori doveva essere preceduta dalla più diligente ricerca dell'appaltatore che potesse dare le maggiori garanzie sia di economicità che di buona esecuzione dei lavori commissionati, invitando dunque ciascun partecipante al condominio ad esercitare la facoltà di presentare preventivi sul punto e formulare osservazioni su quelli presentati.

Rimane fermo, tuttavia, che, nel caso in cui il deterioramento della cosa comune abbia prodotto un qualche danno alle cose di proprietà esclusiva del singolo condomino, quest'ultimo non sia tenuto a sollecitare previamente la manifestazione della volontà assembleare, ma possa adire direttamente il giudice in sede contenziosa, secondo i principi generali di cui agli artt. 2043 e 2051 c.c. e chiedere, nel contesto dell'azione risarcitoria, l'eliminazione delle cause del danno, indipendentemente dal procedimento di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c. (in altri termini, l'azione può essere proposta direttamente in sede contenziosa nei confronti del condominio, e non deve essere condizionata dal mancato preventivo ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione).

In un'interessante sentenza di merito, si è messo in luce che la potestà di agire in sede di volontaria giurisdizione prevista da quest'ultimo disposto promana dal «diritto», conferito a «ciascun condomino», di concorrere all'amministrazione della cosa comune (v. artt. 1105, comma 1, 1135, e 1139 c.c.), e si manifesta quando l'esercizio del suo potere di amministrazione, commisurato all'entità della quota, sia reso frustraneo dall'impossibilità di formazione della maggioranza, dalla mancata delibera dei provvedimenti necessari, o dalla mancata esecuzione della deliberazione adottata (Trib. Napoli 14 gennaio 1987).

L'attività del singolo condomino, propulsiva della pronuncia giudiziale, e diretta a colmare il vuoto determinatosi nell'amministrazione della cosa comune, alla stessa maniera di quella con la quale egli contribuisce a formare la volontà dell'assemblea, è espressione del potere di gestione; questo, poi, in seno al condominio, è uno dei modi di manifestazione del diritto di proprietà pro indiviso sulle parti dell'edificio indicate dall'art. 1117 c.c., funzionali all'utilizzazione dei beni di proprietà esclusiva; ne consegue che, essendo anche il mancato esercizio del potere di gestione una forma di estrinsecazione del diritto di proprietà sulla cosa comune, nessuna sanzione è ipotizzabile a carico del condomino che si astenga dall'intervenire all'assemblea oppure ometta di attivarsi per ottenere, nella sede giudiziaria, il provvedimento necessario ad interrompere il processo dannoso concernente i beni comuni.

In altri termini, la sua inerzia, se concorrerà a determinare il degrado del bene oggetto della comunione, senza coinvolgere un soggetto estraneo al condominio, potrà essere socialmente riprovevole, ma rimarrà nell'ambito conferitogli dalla norma attributiva del diritto di proprietà; quando, invece, la sua inerzia sia stata concausa (assieme al comportamento omissivo degli altri condomini) del pregiudizio subito dal terzo, non potrà più parlarsi di condotta conforme alla norma di attribuzione, ma di comportamento lesivo di una norma di relazione; l'omissione, in cui si concreta la responsabilità aquiliana dei condomini, sarà allora addebitata in misura proporzionale all'efficacia decisoria del voto di cui ciascuno avrebbe potuto disporre in seno all'assemblea.

Lo stesso fenomeno, poi, dovrà ravvisarsi – proseguono i giudici partenopei – quando le carenze nell'amministrazione della cosa comune abbiano determinato, per la cattiva amministrazione o per la violazione del dovere di custodia, un pregiudizio alla proprietà esclusiva del singolo condomino; in tal caso, la sua incuria non potrà essere ritenuta causa impeditiva del sorgere del suo diritto al risarcimento del danno subito uti singuli, perché tale diritto non è condizionato all'effettivo esercizio del potere di amministrare o di adire il giudice in sede di volontaria giurisdizione, ma sarà concausa dell'evento (come nell'ipotesi della lesione inferta al terzo).

Quindi, non potrà negarsi che il condomino sia titolare, dal lato attivo, dell'obbligazione risarcitoria derivante dal danno cagionato al bene di sua proprietà esclusiva in base al principio secondo cui il pregiudizio che si subisce per propria colpa non ha valore di danno in senso giuridico; qui, viene meno il presupposto di tale principio, cioè la coincidenza tra autore e vittima della lesione, nel senso che il condomino uti singuli è soggetto diverso dagli altri condomini e dal condominio, che, seppure inteso come ente di gestione, è punto di legittimazione soggettiva di conseguenze giuridiche (nel senso che il singolo condomino può agire ex art. 2051 c.c. nei confronti del condominio, per il risarcimento dei danni sofferti per il cattivo funzionamento di un impianto comune o per la difettosità di parti comuni dell'edificio – dalle quali provengono infiltrazioni d'acqua pregiudizievoli per gli ambienti di sua proprietà esclusiva – ponendosi quale terzo nei confronti del condominio stesso, tenuto alla relativa custodia ed alla manutenzione, v., altresì, Cass. II, n. 1500/1987; per l'irrilevanza, ai fini della proponibilità della domanda risarcitoria, della mancata preventiva richiesta del danneggiato circa un intervento dell'amministratore o dell'assemblea condominiale, v., ex multis, Cass. II, n. 6507/1986).

L'esistenza del danno giuridico, poi, non può essere negata per il fatto che il condomino abbia omesso di attivarsi, in sede di volontaria giurisdizione, per ottenere quel provvedimento necessario ad interrompere il processo dannoso di cui è vittima (questa volta) quale proprietario esclusivo; la potestà dettata dall'art. 1105, ultimo comma, c.c. non è, infatti, attribuita in via esclusiva al condomino danneggiato, ma a «ciascun partecipante» al condominio, sicché tutti, a causa della cattiva gestione condominiale, sono (anche sotto il profilo dell'aggravamento del danno) coautori della lesione della sfera del singolo condomino.

Quest'ultimo, dunque, coautore del pregiudizio (che egli stesso subisce) in misura proporzionale alla sua quota e alla contitolarità del potere di adire il giudice in sede di volontaria giurisdizione, sarà, nello stesso tempo, anche soggetto attivo dell'obbligazione risarcitoria derivante dal danno cagionato alla sua proprietà esclusiva (che dovrà essere determinato ex artt. 2056 e 1127, comma 1, c.c., detraendo cioè la misura dell'obbligazione da lui stesso dovuta in quanto concausa dell'evento).

Un altro orientamento giurisprudenziale è contrario, nelle ipotesi sopra esaminate, all'ammissibilità della tutela diretta in sede contenziosa, richiedendosi il ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c.

Sul presupposto che il condominio è un ente di gestione e come tale distinto dai singoli, ma non al punto di assumere una diversa e distinta personalità giuridica – anche quando agisce o è convenuto in giudizio, esso opera quale ente esponenziale dei diritti dei condomini – si è osservato che, attraverso l'assemblea condominiale e le relative delibere, si estrinseca la volontà collettiva dei singoli condomini, i quali restano quindi pur sempre titolari di un diritto di comunione (pro-quota) sui beni comuni, che sono solo gestiti dall'ente condominio; ne deriva che ciascun condomino contribuisce alla formazione della volontà comune, sicché la mancata adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione è imputabile anche a quello stesso condomino, che, in caso di inerzia della maggioranza, ben poteva ovviare con il ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione (che consente una tutela rapida ed efficace al pari di quella cautelare). Pertanto, l'omissione di opere di conservazione della cosa comune e la conseguente situazione di pericolo alla proprietà del singolo condomino sono anche a lui imputabili, non potendo essere accordata la proposta azione a chi è da ritenere responsabile dal fatto denunziato (Pret. Torre del Greco 14 gennaio 1991, che ha negato ingresso alla domanda di eliminazione dei danni in corso nell'appartamento del ricorrente, mediante il rifacimento delle opere di impermeabilizzazione e pavimentazione della terrazza condominiale soprastante; nel senso che non è ammessa, in sede contenziosa, alcuna domanda di condanna nei confronti del condominio, quando la cosa comune è foriera di conseguenze dannose per un processo eziologico ancora in atto, dovendo il condomino interessato rivolgersi all'assemblea e/o se del caso in via sostitutiva al giudice in sede di volontaria giurisdizione, v., altresì, Trib. Napoli 4 luglio 1979).

Altra fattispecie ricorrente quella della riscossione dei contributi condominiali. In generale, si può rilevare che l'amministratore deve provvedere alla riscossione dei contributi occorrenti per la gestione del condominio (v. art. 1130, n. 3, c.c.); tale dovere è intimamente correlato all'obbligo di rendere il conto della propria gestione alla fine di ciascun anno (v. art. 1130, ultimo comma, c.c.); la predetta riscossione, peraltro, trova il suo fondamento nel bilancio preventivo e nello stato di ripartizione approvato dall'assemblea (v. art. 1135, n. 2, c.c.).

In particolare, accanto all'azione nelle forme ordinarie – in ordine alla quale l'amministratore non ha bisogno di una specifica autorizzazione per procedere nei confronti dei condomini morosi (Cass. II, n. 29/2000, Cass. II, n. 12225/2002; Cass. II, n. 27292/2005; Cass. II, n. 1451/2014) – l'art. 63 disp. att. c.c. prevede che, per la riscossione dei predetti contributi, l'amministratore possa ottenere decreto ingiuntivo, immediatamente esecutivo nonostante opposizione, in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea.

Si è voluto, quindi, facilitare l'ordinaria gestione del condominio, che potrebbe risultare difficoltosa qualora si dovesse attendere, per la riscossione dei contributi de quibus, l'esito di un ordinario giudizio di cognizione, e che potrebbe essere nel frattempo assicurata soltanto attraverso le anticipazioni da parte dei condomini puntuali nei relativi pagamenti (v., altresì, Corte cost., n. 40/1988, che ha escluso il contrasto di tale disposizione con l'art. 24 Cost.).

In questa prospettiva, si vede bene come l'approvazione del bilancio preventivo ad opera dell'assemblea costituisca un atto fondamentale per la gestione del condominio, in quanto – per quel che qui interessa – consente all'amministratore la riscossione tempestiva delle somme necessarie per il pagamento dei servizi condominiali (si pensi alle spese indilazionabili concernenti le utenze elettriche, l'acqua, il riscaldamento).

È vero che la mancata approvazione dello stato di riparto non impedisce all'amministratore medesimo di agire nei confronti dei condomini per la riscossione delle quote condominiali, in via ordinaria o con decreto ingiuntivo non immediatamente esecutivo; infatti, l'obbligo di contribuzione da parte di questi è preesistente all'approvazione da parte dell'assemblea del predetto stato, che ha carattere dichiarativo del credito del condominio in rapporto della quota di contribuzione dovuta dal singolo (Cass. II, n. 1357/1977; Cass. II, n. 1587/1973; Cass. II, n. 184/1973); tuttavia, in tal modo resta preclusa la possibilità di avvalersi di quello strumento processuale più rapido ed incisivo – quale è il decreto ingiuntivo contemplato dall'art. 63 disp. atto c.c. – che rappresenta una risposta razionale rispetto alle peculiari esigenze della gestione condominiale.

Il differimento della realizzazione del credito potrebbe implicare la sospensione dei predetti servizi, e, comunque, pregiudicare la gestione delle cose comuni, sicché appare corretto ritenere che l'amministratore possa ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento sostitutivo della volontà assembleare, diretto ad evitare una paralisi del condominio derivante dall'insufficienza dei fondi messi in concreto a disposizione dell'amministratore medesimo (per una fattispecie concreta, App. Roma 15 novembre 1984).

In proposito, si è sottolineato che, anche in quest'ipotesi di paralisi operativa, la finalità dell'intervento giudiziale è meramente integrativa di un'attività normalmente demandata all'assemblea e che questa omette di espletare, nel senso che presupposto del ricorso al magistrato è, pur sempre, l'inerzia dell'assemblea che, per qualsiasi motivo – il caso più frequente è quello rappresentato dalla mancata valida costituzione – non riesca a deliberare in ordine al bilancio preventivo e allo stato di ripartizione presentati dall'amministratore.

Del resto, se l'assemblea di condominio, a causa del (ripetuto) mancato raggiungimento del numero legale – ad esempio, per la costante assenza dei condomini, o in ragione della particolare composizione del condominio, dove uno dei condomini sia titolare di un numero di millesimi tali da condizionare da solo il funzionamento dell'assemblea – non si trova nelle condizioni di prendere i provvedimenti necessari ai fini di una corretta amministrazione, non si vede quale altro rimedio l'amministratore possa invocare di fronte ad una situazione completamente bloccata e senza via di uscita, considerando che non è esperibile alcuna iniziativa giudiziaria nei confronti dei condomini assenti in quanto anche il non partecipare alle riunioni condominiali è una legittima manifestazione dell'autonomia privata.

Qualora, invece, l'assemblea si sia pronunciata in senso negativo circa l'approvazione del detto bilancio, non potrà essere presentato il ricorso ex art. 1105, ultimo comma, c.c., ma semmai la delibera dovrà essere impugnata, in sede contenziosa secondo le regole ordinarie, dagli eventuali condomini dissenzienti che ritengano la stessa contraria alla legge o al regolamento di condominio, mentre, dal canto suo, l'amministratore, in ossequio alla volontà espressa dalla maggioranza, dovrà procedere alla presentazione di un diverso preventivo o di un diverso stato di ripartizione che rifletta le obiezioni che hanno indotto l'assemblea alla pronuncia di mancata approvazione, sino a quando la stessa assemblea non giunga alla formazione di una volontà deliberativa di approvazione, che a sua volta potrà essere impugnabile dalla minoranza ai sensi dell'art. 1137 c.c. (Crescenzi, 304).

Invero, in tale ipotesi, il ricorso al giudice in sede camerale deve comunque essere condizionato da alcuni precisi presupposti attinenti alla distinzione tra la giurisdizione contenziosa e quella volontaria; la presentazione all'assemblea del preventivo e dello stato di riparto è «naturalmente» compito dell'amministratore – anche se nulla vieta che sia un condomino o un gruppo di condomini a proporlo – ma se il condominio stesso, attraverso il suo organo deliberativo, respinga la proposta di approvazione, con una deliberazione validamente presa a maggioranza, non vi è materia che possa formare oggetto di un ricorso all'autorità giudiziaria in sede di volontaria.

Quanto al contenuto del provvedimento, nel caso di accoglimento del ricorso, stante che la finalità essenziale dell'intervento giudiziale è quella di ovviare alla mancanza di una delibera dell'assemblea, salvo che non emergano palesi irregolarità, il decreto sembra che debba di fatto articolarsi in una sorta di omologazione dello stato di riparto; ciò potrà avvenire sulla base di un esame, necessariamente sommario, della correttezza del documento, alla stregua del regolamento di condominio, di informazioni assunte tramite l'audizione dello stesso amministratore o di altri condomini, circa la congruità delle spese necessarie per la gestione annuale del condominio.

Ove, invece, da tale esame, il preventivo e lo stato di ripartizione proposti, non risultino corretti, si è sostenuto che il giudice debba limitarsi a respingere il ricorso, senza possibilità alcuna di «correzione», salva ovviamente la possibilità di un esame di un successivo ricorso fondato sulla presentazione di altro documento formato sulla base di quanto espresso nella motivazione del provvedimento negativo (Bucci, 90).

In caso di esito positivo, si suggerisce, circa il concreto tenore del provvedimento in oggetto, che questo disponga che il bilancio preventivo e lo stato di ripartizione delle spese siano da considerarsi approvati ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.; in tal modo, si autorizza l'amministratore a riscuotere i contributi condominiali in base al predetto riparto, e, in buona sostanza, si conferisce a quest'ultimo il potere di gestione in forza dei bilanci vanamente sottoposti all'esame dell'assemblea, fino all'adozione, da parte di quest'ultima, delle determinazioni rientranti nelle sue ordinarie attribuzioni ai sensi dell'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c. idonee a vincolare l'amministratore stesso nell'esercizio delle sue funzioni.

Una pronuncia di merito si è mostrata, invece, dubitativa in ordine all'ammissibilità di un procedimento, in sede di volontaria giurisdizione, che sia diretto ad un provvedimento sostitutivo di approvazione del bilancio consuntivo, per un duplice ordine di considerazioni (Trib. Roma 7 luglio 1990).

Anzitutto, deve dirsi che l'approvazione del consuntivo non sembra sia un provvedimento strettamente «necessario» per l'amministrazione del condominio; anche se la mancanza di un rendiconto annuale divenuto definitivo per volontà dell'assemblea può costituire un intralcio dal punto di vista contabile, tale carenza non è di ostacolo alla continuazione della gestione; infatti, l'amministratore potrà pur sempre chiedere ed ottenere, da parte dell'assemblea, l'approvazione di un preventivo delle spese per l'anno successivo, con la ripartizione tra i condomini, e ciò consentirà ugualmente la prosecuzione della gestione, assicurando la possibilità della riscossione delle somme necessarie; la mancanza di un consuntivo approvato può tradursi, in definitiva, nella sola impossibilità di «imputare» l'eventuale avanzo della gestione precedente in sede di preventivo per quella successiva (o di dare allo stesso altro «impiego»), ma tale inconveniente non può ritenersi di tale gravità da rendere assolutamente «necessaria» l'approvazione del rendiconto (contra, Branca, 628, secondo il quale, una volta che c'è stato il preventivo, è interesse essenziale del condominio che l'assemblea si pronunci sul rendiconto finale, poiché senza questo non si può riprendere o continuare l'amministrazione ordinaria per l'anno seguente, perciò la sua approvazione è provvedimento necessario, di guisa che, se l'assemblea non si costituisce o prende posizione, il condomino o lo stesso amministratore può ricorrere al giudice).

Inoltre, l'approvazione del rendiconto annuale della gestione ha natura che certamente trascende i limiti della semplice «amministrazione» del condominio, che possa in qualche modo essere «sostituita» da un provvedimento del giudice in sede di volontaria giurisdizione; la presentazione del rendiconto e della sua approvazione, infatti, attengono principalmente al rapporto di gestione che intercorre tra l'amministratore ed il condominio nell'ambito di una diretta contrapposizione tra posizioni debitorie e creditorie di natura patrimoniale, rispetto al quale il «superiore interesse» del condominio è del tutto secondario; l'approvazione del rendiconto, quindi, ha natura negoziale, in quanto definisce le posizioni delle parti in ordine alle somme riscosse dall'amministratore e al loro impiego, accertando e determinando l'esistenza di crediti e di debiti a carico ed a vantaggio di ciascuna di esse o il pareggio delle rispettive poste.

In questa prospettiva – proseguono i giudici capitolini – da un lato, un eventuale provvedimento di rigetto del rendiconto non potrà che aprire una controversia tra amministratore e condominio da risolvere in sede di giurisdizione contenziosa, dall'altro lato, neppure l'inerzia dell'assemblea che non si aduni, non si costituisca o non raggiunga una maggioranza sufficiente per l'espressione di una valida deliberazione, può giustificare un ricorso in sede di volontaria giurisdizione, non rientrando tra i poteri del giudice camerale l'accertamento e la definizione di rapporti dai quali derivino posizioni di diritto soggettivo.

Altrimenti, dovrebbe ipotizzarsi che il decreto di approvazione del giudice – che dovrebbe a questo punto esaminare la documentazione contabile a giustificazione delle spese erogate altro non avrebbe che un valore puramente «formale», che consenta una continuità gestionale della contabilità del condominio, senza che allo stesso (anche se non reclamato) possa essere attribuito alcun significato di definizione dei rapporti tra condominio e amministratore (Bucci, 91).

Occorre ancora accennare alla nomina del rappresentante nei piccoli condomini. Un'altra applicazione in materia condominiale dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., si registra nella pratica in ordine alla possibilità della nomina di un amministratore da parte dell'autorità giudiziaria qualora difetti il requisito numerico di cui all'art. 1129, comma 1, c.c., che prevede l'obbligatorietà della predetta nomina soltanto qualora il condominio si articoli in almeno otto quote.

Può accadere che, nei piccoli condominii, stante appunto il loro ridotto numero – vale a dire da due a otto – i partecipanti vadano perfettamente d'accordo, e risolvano i problemi della gestione e dell'amministrazione in modo del tutto informale, a mano a mano che si presentano, senza particolare difficoltà; d'altra parte, pur in mancanza di un amministratore, l'assemblea potrebbe ugualmente funzionare, potendo essere convocata ad iniziativa di ciascun condomino (v. art. 66, comma 2, disp. att. c.c.), e potendo la relativa riunione essere utilizzata, ad esempio, per «conguagliare», per così dire, i reciprochi rapporti di debito e credito che siano sorti nell'esplicazione di un'amministrazione disgiunta e di fatto; nulla vieta, poi, che determinati problemi potrebbero essere affrontati, dando magari mandato (anche prevedendo una turnazione) ad uno dei condomini di interessarsi del singolo affare, con possibilità di obbligare il condominio, con patto di reciproca rivalsa (Lazzaro-Stincardini, 53).

Se i condomini sono in numero inferiore a nove, sembra, poi, legittima e valida la clausola del regolamento, con la quale il costruttore si riserva la nomina dell'amministratore; avendo, in questi casi, la legge preferito riservare l'amministrazione all'autonomia delle parti, queste ben possono affidare – con l'accettazione del regolamento che contenga una specifica clausola ad hoc – l'amministrazione stessa al venditore o ad un suo delegato (clausola che opera, ovviamente, rebus sic stantibus, in quanto non appena il condominio ha raggiunto la dimensione personale stabilita dalla legge, la scelta del rappresentante non può che appartenere all'assemblea).

Quindi, la vita dei piccoli condominii ben potrebbe essere regolata dalla sola assemblea, pur in assenza dell'organo rappresentativo, tuttavia, sebbene non obbligatoria, la nomina dell'amministratore che assuma la rappresentanza dei condomini può rendersi necessaria, per la pluralità degli interessi che possono trovarsi in contrasto o per l'importanza delle parti e dei servizi comuni, sicché nulla si oppone alla nomina dello stesso deliberata in una riunione degli interessati.

Pertanto, la nomina dell'amministratore nei piccoli condominii, anche se facoltativa, è teoricamente possibile, salvo verificare in concreto la fattibilità in caso di inerzia dei partecipanti, disaccordo tra gli stessi o mancato raggiungimento del quorum richiesto; si pensi – a parte il caso limite del condominio minimo – all'ipotesi in cui tre condomini su quattro siano d'accordo sulla persona da eleggere, ma non raggiungano la maggioranza di 501 millesimi, mentre il quarto condomino, pur rappresentando tale valore, disponga di un solo voto personale contro tre.

Al riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto praticabile la via giudiziaria, sia perché non si rinvengono norme che precludano che, in questi casi, ci si possa avvalere della facoltà prevista dall'art. 1129, comma 1, c.c., sia perché l'art. 1105, ultimo comma, c.c. – applicabile in materia condominiale in forza del rinvio di cui all'art. 1139 c.c. – afferma che ciascun partecipante possa ricorrere all'autorità giudiziaria «se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune» (Cass. II, n. 1604/1975; nella giurisprudenza di merito, si segnalano Trib. Venezia 4 febbraio 1965; App. Catanzaro 18 luglio 1956).

Secondo alcuni, infatti, il disposto di cui all'art. 1129 c.c., il quale demanda all'autorità giudiziaria il potere di nomina dell'amministratore condominiale nell'ipotesi di inerzia dell'assemblea, costituisce applicazione particolare, nella specifica materia del condominio negli edifici, della norma più generale, dettata in tema di comunione in genere, contenuta nell'ultimo comma dell'art. 1105 c.c., la quale prevede l'intervento del giudice se sussiste trascuratezza nell'amministrazione, o non si forma una maggioranza, o la deliberazione eventualmente presa non venga eseguita, e cioè in un'ampia serie di casi denotanti paralisi più o meno gravi dell'amministrazione della cosa comune, stabilendo, tra i possibili provvedimenti da adottare, anche quello della nomina di un amministratore.

Secondo altri, il disposto in questione deve essere, però, interpretato in modo restrittivo, in quanto la nomina dell'amministratore, ove non sia obbligatoria, toglie ai condomini una delle potestà caratteristiche attinenti al diritto dominicale, quella dell'amministrazione diretta – nella comunione, perché sia valida la rinuncia a tale diritto, con l'affidamento dell'amministrazione ad un terzo, occorre l'unanimità dei consensi dei singoli partecipanti – donde la conseguenza che il magistrato cui è fatto ricorso, se può superare la momentanea crisi con un diverso, contingente, provvedimento, dovrà astenersi dall'imporre al condominio, con portata continuativa, un amministratore, che potrebbe, tra l'altro, determinare un dispendio relativamente ingente (Peretti Griva, 403).

In ogni caso, la nomina dell'amministratore nei c.d. piccoli condominii, non riveste carattere necessitato, nel senso che essa rappresenta soltanto una delle possibili modalità dell'intervento dell'autorità giudiziaria, affinché provveda a quanto necessario per l'amministrazione e l'utilizzazione della cosa comune; ne consegue che l'istanza di nomina dell'amministratore in sede giudiziale – o il provvedimento eventualmente emesso ex officio dal magistrato, stante la non operatività del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato in questi procedimenti di volontaria giurisdizione – non potrà correlarsi alla mera mancanza dell'amministratore, ma dovrà articolarsi anche nell'esposizione delle ragioni di convenienza che rendano necessario l'affidamento dell'amministrazione ad un condomino o ad un estraneo, e la dimostrazione di una situazione di fatto che impedisca un'efficace gestione dell'edificio tramite il concorso dei vari partecipanti.

Bisogna ancora soffermarsi sulla c.d. revoca atipica dell'amministratore. Nella prassi giudiziaria, talvolta, la revoca dell'amministratore in carica è ancorata ad un ordine di considerazioni estranee alla previsione di cui all'art. 1129 c.c. Invero, si è ritenuta l'esigenza della nomina di un nuovo amministratore, in sostituzione di quello designato dall'assemblea, in riferimento al generico disposto dell'ultimo comma dell'art. 1105 c.c., in quei casi nei quali la condotta dell'amministratore, sebbene incensurabile in relazione ai profili considerati dall'art. 1129 citato, costituisca motivo di conflittualità nell'ambito del condominio e tale conflittualità si riveli pregiudizievole alla gestione del condominio medesimo.

In tale prospettiva, la sostituzione dell'amministratore in carica viene a connotarsi come un «provvedimento necessario l'amministrazione della cosa comune», e può correlarsi a situazioni dì carattere meramente oggettivo, che prescindono del tutto dal riscontro di eventuali mancanze dell'amministratore e che, per lo più, risultano connesse ad una radicata contrapposizione di un gruppo di maggioranza e di uno di minoranza e possono, in particolare, venire in rilievo quelle ipotesi in cui la persona dell'amministratore sia stabile espressione del gruppo di maggioranza e sia, anche involontariamente, divenuta fonte di accesa conflittualità, sfociata nella proliferazione di una pluralità di controversie giudiziarie o di situazioni di fatto che si configurano oggettivamente suscettibili di incidere negativamente sulla vita del condominio (Crescenzi, 302).

La stessa dottrina sopra richiamata mette in luce che sul piano dogmatico, la configurabilità di un'ipotesi di revoca dell'amministratore, ulteriore rispetto a quelle specificatamente elencate nel comma 3 (vecchio testo) dell'art. 1129 c.c., incontra non pochi ostacoli, primo tra tutti proprio il rilievo che, nell'ambito della disciplina del condominio, esiste già una specifica regolamentazione della questione. Tuttavia, si è sottolineata la diversa ratio delle due disposizioni: l'art. 1129 c.c. finalizzato alla tutela del condomino rispetto ad eventuali mancanze dell'amministratore, e l'art. 1105 c.c. rivolto essenzialmente ad attribuire al condominio uno strumento per il superamento di eventuali situazioni di paralisi gestionale.

In quest'ordine di concetti, allorquando la possibilità di una corretta amministrazione delle cose comuni sia seriamente pregiudicata dalla radicazione di persistenti contrasti, che si traducano in ritardi nell'attuazione delle delibere, nell'esigenza di spese processuali, e in altre situazioni dannose per la collettività, si è ritenuto ammissibile l'intervento del magistrato teso ad ovviare alla posizione di stallo, attraverso la sostituzione dell'amministratore in carica con un terzo estraneo alle problematiche e alle polemiche caratterizzanti la vita del condominio, anche se il comportamento del soggetto eletto dall'assemblea non sia censurabile sotto il profilo della professionalità, ma sia, di per sé, diventato sintomo dell'irrigidimento delle posizioni all'interno della compagine condominiale, e, nel contempo, contribuisca al diffondersi di un clima di perdurante litigiosità. Tale provvedimento destitutorio potrebbe trovare applicazione anche quando il condomino ricorrente abbia allegato a fondamento dell'istanza, una delle situazioni contemplate dal comma 3 dell'art. 1129 c.c. – v. soprattutto le «gravi irregolarità» nello svolgimento del mandato – sempre che, dal contesto probatorio acquisito agli atti, emerga l'opportunità di un avvicendamento nella carica di amministratore, in funzione degli interessi generali della collettività dei condomini, potendo i procedimenti di volontaria giurisdizione derogare al divieto di ultrapetizione proprio dei giudizi contenziosi (Crescenzi, 303).

Stante il contrasto che dilania la compagine condominiale, sembra che tra i compiti primari dell'amministratore nominato ex art. 1105, ultimo comma, c.c. sia quello di realizzare un'opera di persuasione, tentando di dirimere le controversie, ricondurre il condominio alla normalità, fare da paciere e placare gli animi; qui, il giudice non ha provveduto alla nomina dell'amministratore perché l'assemblea non vi provvede, né ha revocato quello in carica perché scorretto o disonesto, ma ha cercato di introdurre una persona nella vita condominiale per ovviare alla crisi funzionale del condominio, per cui il designato, tra l'altro, deve sforzarsi per eliminare le cause dei contrasti e dei dissidi che dividono i condomini.

Un'altra parte della dottrina è contraria a tale forma di revoca dell'amministratore, anche se riconosce che, nell'ambito della variegata ed infinita casistica della realtà condominiale, può verificarsi l'ipotesi in cui la persona dell'amministratore eletto dall'assemblea sia causa di irrigidimento di posizioni e di contrasti tra gruppi di condomini, seriamente pregiudizievole per un corretto svolgimento dell'amministrazione delle cose comuni (Bucci, 52). Si è, infatti, rilevato che, per quanto attiene al condominio degli edifici, la specifica regolamentazione della questione porta correttamente a negare (per il principio della specialità) la possibilità di introdurre una diversa via per escludere dall'amministrazione chi ha riportato l'approvazione di una consistente maggioranza dei condomini; e ciò anche perché non sembra che le due ipotesi di revoca (quella «tipica» di cui all'art. 1129 c.c. e quella «atipica» fondata su un'applicazione estensiva dell'art. 1105 c.c.) rispondano ad esigenze diverse, risolvendosi entrambe, in definitiva, in una tutela del condominio e nel superamento di possibili paralisi gestionali.

Si è considerato, poi, che il complesso delle disposizioni sulla comunione e sul condominio, con l'espressa inderogabilità delle norme di cui agli artt. 1129,1136 e 1137 c.c. – sancita dall'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. – delinea un principio di carattere generale, di chiari connotati pubblicistici, secondo cui (salve le eccezioni espressamente previste a tutela delle minoranze) ove la volontà dei partecipanti sia stata validamente espressa secondo la regola della maggioranza, la stessa è destinata ad avere efficacia vincolante per tutti, senza alcuna possibilità di «sostituzione» neppure da parte dell'autorità giudiziaria.

L'eventuale nomina di un amministratore.

L'art. 1105, ultimo comma, c.c. prevede, in tutti i casi esaminati sopra (non si forma una maggioranza, la delibera adottata non viene eseguita, non si prendono i provvedimenti necessari per la cosa comune), che l'autorità giudiziaria provveda in camera di consiglio, potendo anche nominare un amministratore – sia se manchi quello che doveva nominare l'assemblea, sia per sostituire quello esistente, sia per affiancare quello in carica – tanto per l'ordinaria amministrazione dei beni (quando la composizione della comunione e le divergenze tra i partecipanti lascino prevedere una permanente difficoltà di gestione) quanto in relazione a singoli atti da eseguire.

Tale nomina dovrebbe ricorrere nei casi più gravi, perché finisce con il sostituire coattivamente la volontà negoziale con una scelta ab estrinseco fatta dall'autorità; si tratta, pur sempre, di un potere discrezionale in capo al giudice, che è arbitro di valutare l'opportunità o meno di un simile provvedimento, previa una adeguata indagine allo scopo di stabilire se possano essere adoperati altri strumenti per ovviare alla disfunzione in atto, purché, beninteso, vi sia uno dei tre menzionati presupposti di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c. in ciò differenziandosi dall'ipotesi di cui all'art. 1129, comma 1, c.c. in cui lo stesso giudice «deve» provvedere (in altri termini, la nomina non è obbligatoria, ma facoltativa, essendo rimesso al prudente apprezzamento del giudice rinvenire, nella fattispecie sottoposta al suo esame, l'opportunità di provvedere alla nomina del predetto amministratore).

Sul punto, va registrata una divergenza di opinioni in ordine all'inquadramento della figura di tale amministratore.

Secondo una tesi minoritaria, l'amministratore nominato ai sensi dell'art. 1105 citato, affinché supplisca alla manchevole attività dei partecipanti nell'amministrazione della cosa comune, non può configurarsi come un semplice mandatario dei partecipanti, quando sia investito di tale funzione dall'autorità giudiziaria, giacché, in tal caso, egli non trae la legittimazione dei suoi poteri da un mandato privatistico conferitogli dalle parti interessate, onde sembra corretto riconoscere che la natura delle sue funzioni (che devono essere svolte nell'interesse dei partecipanti alla comunione) assume una particolare «colorazione» dalla specialità dell'investitura, che la legge demanda all'autorità giudiziaria (in sede di volontaria giurisdizione) al fine di tutelare il pubblico interesse ad una normale ed ordinata gestione dei beni, appartenenti a gruppi di privati (Trib. Vicenza 28 gennaio 1971).

Quando il giudice interviene per inserire nell'amministrazione della cosa comune una persona che, nell'interesse di tutti e di ciascuno, si premuri di prendere i provvedimenti necessari, si attivi affinché venga ovviato il difetto di formazione della maggioranza, o esegua le deliberazioni già adottate, o ristabilisca l'ordine turbato dalla prepotenza di alcuni o la legalità compromessa, o appiani i contrasti relativi alla regolarità della gestione, e simili, si è ritenuto che egli debba sostituire l'assemblea, prescindere da essa e regolarsi in virtù di poteri e attribuzioni che gli derivano immediatamente e direttamente dal decreto di nomina, conseguendone che lo stesso opera con i poteri dell'officium (di diritto privato), dovendo rispondere solo al giudice della propria gestione (Zaccagnini, 1972, 841).

L'amministratore giudiziario nominato ad acta non sarebbe dunque organo del condominio, sicché non sarebbe tenuto a sottostare alle decisioni assembleari e sarebbe invece sottoposto al controllo del tribunale. Secondo tale inquadramento, l'amministratore nominato in caso di inerzia dei condomini nella gestione del bene comune non potrebbe qualificarsi semplice mandatario dei partecipanti, essendo investito dall'autorità giudiziaria, con la conseguenza che la sua legittimazione ed i suoi poteri non derivano da un mandato fiduciario conferito dall'assemblea, bensì dal decreto camerale di nomina (nel senso che l'amministratore è investito di poteri decisionali da esercitarsi sotto la direzione ed il controllo dell'autorità giudiziaria, v. Trib. Trapani 12 gennaio 1948, secondo cui in caso di nomina dell'amministratore giudiziaria «non trovano applicazione le norme sulla costituzione e sul funzionamento della maggioranza»; App. Genova 14 aprile 1951, secondo cui «l'amministratore è nominato dall'autorità giudiziaria perché sopperisca a quei provvedimenti necessari per l'amministrazione e l'utilizzazione della cosa comune che la maggioranza non è riuscita a prendere, o non ha voluto eseguire; egli viene, perciò, a sostituire tale maggioranza e ne assume i poteri, onde può compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione»; Trib. Venezia 4 febbraio 1965, che ha affermato la legittimità del trasferimento all'amministratore giudiziario di tutti i poteri spettanti alla maggioranza dei condomini; Trib. Vicenza 28 gennaio 1971, secondo la quale «l'amministratore giudiziario nominato ex art. 1105 c.c. non è un mandatario dei condòmini»; Trib. Tempio Pausania 29 agosto 1985, che ha conferito pieni poteri all'amministratore giudiziario perché redigesse il regolamento della comunione per un villaggio residenziale; Trib. Roma 9 luglio 1988, che ha nominato l'amministratore per far eseguire la delibera di approvazione dei lavori di adeguamento all'impianto termico centralizzato; Pret. Torre del Greco 14 gennaio 1991, che ha nominato l'amministratore giudiziario per l'esecuzione di opere conservative al lastrico solare comune; Trib. Napoli 3 marzo 1994, che ha nominato un amministratore ad acta conferendogli mandato per regolamentare la sosta ed il parcheggio delle vetture nelle aree comuni).

Come è stato osservato, riassumendo detta prospettiva, quando il giudice camerale interviene con finalità sostitutorie nella gestione della cosa comune nominando un amministratore per l'adozione dei provvedimenti necessari, in modo tale da eliminare il difetto di formazione della maggioranza deliberativa, attuare le delibere assembleari precedentemente adottate ed ineseguite, ripristinare l'ordine compromesso dalle prevaricazioni di alcuni condomini, dirimere ogni dissidio con riguardo all'amministrazione contabile, espellere, in definitiva, la situazione di stasi, egli incarna l'assemblea avocandone le attribuzioni ed agisce in virtù di poteri scaturenti direttamente dal decreto di nomina rispondendo dell'operato soltanto al giudice. Nella Relazione del Guardasigilli al Re (n. 520) si afferma, con riguardo all'art. 1105 c.c., che vi è «inerzia dell'amministrazione per non essere presi o attuati i provvedimenti necessari per la conservazione della cosa comune e si invoca l'autorità giudiziaria perché supplisca a tale inerzia. Il provvedimento che il giudice emette, in questo caso, ha carattere essenzialmente amministrativo» (Pironti, 926).

La medesima dottrina ha osservato che in tale ottica interpretativa si l'amministratore nominato ex art. 1105 c.c. gestisce ed assume decisioni – quale titolare di ufficio privato con funzioni amministrative – senza tener conto dell'eventuale volontà assembleare manifestata dalla maggioranza dei partecipanti; il medesimo mentre da un canto non ha alcun obbligo di convocare l'assemblea né di tentare conciliazioni, dall'altro è facultato a poter espletare ogni atto di ordinaria amministrazione prescindendo da qualsiasi autorizzazione assembleare. L'amministratore giudiziale, inoltre, deve richiedere al magistrato le necessarie autorizzazioni per l'esecuzione di opere innovative e per l'espletamento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, presentare periodiche relazioni illustrative sull'andamento gestionale, compilare il bilancio di previsione e rendere il conto della gestione accludendovi i documenti giustificativi di spesa; alla scadenza prevista nel decreto di nomina il magistrato camerale deciderà, sulla scorta delle informazioni conclusive rappresentategli dall'amministratore, se revocare la sottoposizione giudiziale all'ente condominiale o, altrimenti, prorogare la stessa per una determinata temporalità confermandogli l'incarico gestorio. È stato dunque detto che l'amministratore «sostituisce l'assemblea, prescinde da essa e si regola in virtù dei poteri datigli dall'autorità giudiziaria»; per cui quando vi è «un conflitto da appianare, una inerzia da vincere, delle irregolarità da accertare, talché sarebbe illogica una sua sottoposizione al volere assembleare» (Terzago 2007, 654).

Secondo un diverso indirizzo anche l'amministratore giudiziario è mandatario dei condomini, ed è dotato di poteri che non travalicano l'ordinaria amministrazione; sicché deve rispondere del compimento della propria attività nei confronti dei partecipanti alla comunione in forza dei princìpi in tema di mandato (Trib. Bari 14 marzo 1977; App. Lecce 3 maggio 1995, ha osservato che poiché l'amministratore giudiziario è un mandatario dei partecipanti, «il tribunale si limita a supplire alla volontà dell'assemblea condominiale e il rapporto tra amministratore e condominio si svolge in assoluta autonomia, senza possibilità di interferenza da parte del Tribunale») Anche la Suprema Corte ha da tempo affermato che l'amministratore di cose comuni, nominato dal giudice ex art. 1105 c.c. ha la stessa posizione di quello nominato dalle parti, salvo al giudice la facolta di limitargli i poteri, e quindi può agire nell'interesse della comunione, entro i suddetti limiti, senza richiedere preventivamente l'autorizzazione della assemblea (Cass. II, n. 2279/1965). Nello stesso senso è stato detto che nel sistema della legislazione vigente l'amministratore nominato dal giudice ai sensi dell'art. 1105, comma 4, c.c. non è che un mandatario, i cui poteri non vanno al di là dell'ordinaria amministrazione; pertanto egli deve rispondere dell'amministrazione di beni comuni nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione secondo i principi codificati in tema di mandato. Consegue da ciò che il detto amministratore acquisisce fin dalla nomina la legittimazione e il potere di disporre della cosa che egli deve amministrare, ma non succede affatto nei rapporti giuridici obbligatori instaurati dai comunisti ovvero da estranei alla comunione in ordine ai beni in questa rientranti, rispetto ai quali rapporti, già validamente contribuiti, egli rimane pur sempre un terzo (Cass. II, n. 2390/1965).

La tesi minoritaria di cui si è detto in precedenza è altresì criticata per il fatto di omettere di spiegare per quale motivo l'amministratore di una comunione semplice nominato dall'autorità giudiziaria ex art. 1105, ultimo comma, c.c. – si pensi al caso di un edificio comune pro indiviso anziché diviso in piani o appartamenti in proprietà ad una pluralità di persone – debba avere una veste giuridica diversa da quella che si riconosce all'amministratore nominato dalla stessa autorità giudiziaria nell'edificio in condominio ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c.; essendo, poi, nei due casi, uguali i compiti, non si comprende perché, nel caso della comunione semplice, l'amministratore sia tenuto a dar conto della sua gestione al giudice (senza contraddittorio degli interessati ed in sede di volontaria giurisdizione), mentre si ammette che lo stesso esercita le sue funzioni nell'interesse di tutti i condomini ed ha l'obbligo di dare esecuzione alle deliberazioni «già adottate» dagli stessi condomini (Salis 1973, 53).

In realtà, la natura delle funzioni attribuite dall'amministratore non cambia allorché la sua nomina è fatta dai condomini interessati o dal giudice, in quanto le attribuzioni sono precisate dalla legge; l'autorità giudiziaria non ha il potere di ampliarle o modificarle, ma si limita ad indicare il soggetto al quale dette funzioni devono essere riconosciute; la nomina, quindi, ha carattere meramente sostitutivo dell'attività dell'assemblea, che, con la sua inerzia, non rende possibile il superamento di situazioni pregiudizievoli per la cosa comune (nel senso che l'amministratore nominato dal giudice ex art. 1105, ultimo comma, c.c. ha la stessa posizione di quello nominato dalle parti, per cui può agire giudizialmente nell'interesse della collettività senza la preventiva autorizzazione dell'assemblea, v. Cass. II, n. 2279/1965).

Nell'ipotesi particolare dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., la nomina dell'amministratore rappresenta, per il giudice, l'estremo rimedio cui è dato ricorrere per permettere il funzionamento del condominio, e cioè per permettere ai singoli interessati di godere delle cose comuni secondo il loro diritto e nei limiti di questo; la nomina va fatta, pertanto, nel caso in cui al magistrato non sia possibile precisare i provvedimenti adatti per una corretta amministrazione della cosa comune o per dare esecuzione ad una deliberazione che i partecipanti al condominio hanno adottato nei modi e nelle forme di legge.

Quindi, si riconosce che l'amministratore nominato dal giudice ex art. 1105 citato non sia un ausiliario del giudice, ma un mandatario dei partecipanti alla comunione; non basta che la nomina avvenga mediante un provvedimento del giudice per definire giudiziaria un'amministrazione, in quanto è tale quella che è collegata con un fine di giustizia in presenza della sottrazione dei beni amministrati alla libera disponibilità dei soggetti privati (ad esempio, nel caso di sequestro o di amministrazione giudiziaria di beni pignorati) e nell'interesse anche di soggetti diversi dai titolari (si pensi al sequestrante), mentre nell'amministrazione delle cose comuni, non solo non vi è alcuna limitazione dell'indisponibilità dei beni, ma è evidente che essa si svolge nell'interesse esclusivo dei comunisti (Trib. Bari 14 marzo 1977).

È vero che l'amministratore giudiziale si trova, di solito, di fronte ad un'assemblea mal funzionante, perché inerte o dilaniata da insanabili contrasti, e che perciò sia una contraddizione in termini pensare che egli possa rispondere all'assemblea; se lo stesso fosse vincolato, come il fiduciario, alle deliberazioni dell'assemblea e fosse un semplice organo esecutivo di quest'ultima, il suo intervento a poco gioverebbe, e ben scarso significato avrebbe la sua nomina – fatta, per esempio, allo scopo di ristabilire l'ordine e la legalità turbata dall'assemblea – quando egli fosse tenuto alle deliberazioni di quest'ultima (Zaccagnini 1970, 39, che, dalla posizione di sostanziale autonomia funzionale dai partecipanti alla comunione, desume la revocabilità dell'amministratore giudiziario solo da parte del giudice e non dell'assemblea, salvo il potere del condomino di sollecitare la revoca ex art. 742 c.p.c.).

In questa prospettiva, per servire alla bisogna, si è ritenuto che il predetto amministratore debba godere di una certa autonomia rispetto all'assemblea, precisando che deve poter operare e deliberare indipendentemente dalla volontà della maggioranza, e deve rispondere esclusivamente al giudice (al quale chiederà l'autorizzazione per gli atti di straordinaria amministrazione, presenterà periodiche relazioni sulla sua gestione, sottoporrà il bilancio consuntivo per l'approvazione, ecc.), ed il giudice stesso, alla scadenza del termine, è tenuto a decidere se revocare o meno l'amministrazione giudiziaria, sulla scorta delle informazioni del suo fiduciario, della documentazione da lui prodotta, ed eventualmente di notizie altrimenti desunte (v., altresì, Trib. Tempio Pausania 29 agosto 1985, che ha provveduto alla nomina di un amministratore di un villaggio residenziale, ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., conferendo addirittura a quest'ultimo i poteri di stabilirne il regolamento).

Nella stessa linea interpretativa, si è affermato che, se le fattispecie previste per la eventuale nomina dell'amministratore giudiziario sono quelle di cui all'art. 1105, ultimo comma, c.c., l'amministratore deve godere di diversi e più ampi poteri rispetto a quello nominato dall'autorità giudiziaria ex art. 1129, comma 1, c.c.; il primo, infatti, sostituisce l'assemblea, prescinde da essa, e si regola in virtù dell'incarico conferito dal giudice; c'è un conflitto da appianare, una inerzia da vincere, delle irregolarità da accertare, talché sarebbe illogica una sua sottoposizione al volere assembleare, per cui lo stesso deve operare autonomamente dalla maggioranza e rendere conto solo ed esclusivamente al giudice (Terzago 2007, 388, che cita il decreto del 9 giugno 1983, con cui il Tribunale di Milano ha nominato un amministratore giudiziario ad ho c, non revocando l'amministratore in carica, solo per raccogliere i preventivi di spesa ed i capitolati per eseguire determinate opere, ottenere in via anticipata dai condomini i fondi necessari, ripartiti provvisoriamente in proporzione delle rispettive quote di comproprietà, chiedere la necessaria autorizzazione amministrativa – si trattava di rifacimento del tetto – nonché disporre e dirigere i lavori).

Tuttavia, risulta altrettanto vero che la nomina dell'amministratore non è una sanzione comminata nell'interesse pubblico a tutela o cautela di un diritto soggettivo, sicché anche se la stessa avviene nei casi più gravi, sono sempre situazioni che, per il fatto di rientrare nell'art. 1105, ultimo comma, c.c., ben poco hanno a che vedere con l'ordine e la legalità da ristabilire, le prepotenze da reprimere e le irregolarità di qualunque genere da sindacare; a questi fini provvedono tutt'altre norme, che implicano tutte un giudizio contenzioso (se non addirittura un processo penale), non certo un semplice provvedimento di volontaria giurisdizione che, come tale, mira soltanto ad aiutare i condomini ad amministrare la cosa comune (Cipriani, 747).

Se, quindi, l'amministratore, specie nei casi in cui non si formi una maggioranza, deve godere di una certa autonomia rispetto all'assemblea – v. anche per la figura del mandatario l'art. 1711, comma 2, c.c. – tale autonomia non va esasperata concludendo nel senso che il primo risponda esclusivamente all'autorità giudiziaria; anzi, l'assemblea, cui deve rispondere, può sempre revocarlo, ed è significativo che la legge tace sui rapporti, successivi alla nomina, tra amministratore e giudice, in difetto dei quali non si può accostare il primo tra gli ausiliari del secondo per il semplice fatto che non si può essere ausiliari di un giudice che potrà tornare a provvedere ex art. 1105 c.c. solo su nuovo ricorso dei condomini; qualora, per una qualsiasi ragione, poi, non volesse o non potesse amministrare, l'amministratore non deve far altro che rinunciare all'incarico, lasciando i condomini ai loro problemi ed ai loro litigi.

Sul presupposto che, nel sistema della legislazione vigente, l'amministratore nominato dal giudice ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., non è che un mandatario, i cui poteri non vanno al di là dell'ordinaria amministrazione, per cui egli deve rispondere dell'amministrazione dei beni comuni nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione secondo i principi codificati in tema di mandato, si è anche affermato che il predetto amministratore acquisisce fin dalla nomina la legittimazione ed il potere di disporre della cosa che egli deve amministrare, ma non succede affatto nei rapporti giuridici obbligatori instaurati dai comunisti, ovvero da estranei alla comunione in ordine ai beni in questa rientranti, rispetto ai quali rapporti, già validamente costituiti, egli rimane pur sempre un terzo (Cass. II, n. 2390/1965; nel senso che l'amministratore giudiziario, al pari di quello nominato dall'assemblea dei condomini, ha il mero compito di amministrare, e non già quello di risolvere conflitti di diritti soggettivi tra i vari cointeressati, v. pure Cass. II, n. 571/1977; sui poteri dell'amministratore nominato dal giudice in caso d'inerzia dei condomini, v., nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano 5 ottobre 1964).

Si è, altresì, precisato che l'amministratore giudiziario non possa, in virtù della peculiare fonte dei propri poteri, sottrarsi all'adempimento delle obbligazioni derivanti dalla precedente gestione; qualunque amministratore, anche quello nominato dal giudice, «continua» nella precedente gestione e «succede» quindi in tutte le posizioni giuridiche sia attive che passive ricollegate al suo mandato (come l'amministratore giudiziario delle società di capitali ex art. 2409 c.c. o dell'immobile pignorato ex art. 592 c.p.c.); la c.d. terzietà dell'amministratore della comunione ex art. 1105, ultimo comma, c.c. va, pertanto, letta in senso riduttivo, nel senso cioè che costui, ma soltanto quale persona fisica, è effettivamente estraneo rispetto al bene gestito e non risponde con il proprio patrimonio delle obbligazioni già contratte nell'interesse comune, tuttavia, il semplice avvicendamento nella carica amministrativa mediante l'intervento del giudice, non costituisce valido motivo per elidere gli effetti negativi di una pregressa mala gestio (Trib. Brescia 24 novembre 1999).

Interessante è anche il raffronto operato in una pronuncia di merito tra la figura dell'amministratore nominato dal giudice ex art. 1105, ultimo comma, c.c. e il sequestratario giudiziario: il primo agisce in nome dei rappresentati quale mandatario ed è obbligato ad attuarne la volontà collettiva (così come si è formata ed espressa con il meccanismo delle deliberazioni di maggioranza) ed a seguirne le istruzioni in ogni atto afferente all'espletamento dell'incarico; il secondo agisce, invece, in nome proprio, quale portatore di un munus publicum, ripete i suoi diritti (non dalla volontà delle parti, ma) dall'investitura del giudice, ed esercita gli stessi con determinazione autonoma di volontà ed apprezzamento discrezionale nell'interesse che rappresenta, quando non deve attenersi a particolari criteri che gli siano stati eventualmente fissati dal giudice a norma dell'art. 676 c.p.c. (App. Milano 21 dicembre 1956).

Il diverso inquadramento della figura dell'amministratore nominato dall'autorità giudiziaria ex art. 1105, ultimo comma, c.c., si riflette sull'individuazione del soggetto legittimato ad attribuire l'eventuale compenso alla persona nominata (per riferimenti generali sulla liquidazione del compenso alle persone nominate in via camerale, v. Cass. S.U., n. 1581/1970).

Secondo la prima impostazione, escludendo che la natura delle funzioni conferite a quest'ultima sia riconducibile nello schema del mandato privatistico e assimilando l'amministratore al consulente o al custode, il compenso deve coerentemente essere stabilito con decreto dallo stesso giudice che ha nominato l'ausiliario – dovrebbero, quindi, essere applicati gli artt. 24,52 e 53 disp. att. c.p.c. che disciplinano la liquidazione del compenso degli ausiliari – valutando se le prestazioni da compensare rientrino o meno nei limiti delle funzioni attribuite allo stesso amministratore, essendo irrilevante che ciò avvenga senza la previa audizione dei partecipanti alla comunione, e cioè coloro a carico dei quali la spesa è posta, potendo gli stessi far valere le loro ragioni in sede di reclamo, o di revoca e modifica, trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione.

Se, poi, il regolamento condominiale stabilisce la gratuità dell'incarico, il neo-amministratore dovrebbe essere consapevole della circostanza, per cui, se non intende prestare la sua opera gratis, deve o declinare l'incarico, o accettarlo a condizione che gli sia riconosciuto almeno un giusto compenso da parte del giudice (v., però, in ordine alla nomina ai sensi dell'art. 1129, comma 1, c.c., Cass. II, n. 1513/1988; da ricordare, altresì, che, per gli amministratori giudizi ari di cui agli artt. 2409 c.c. e 592 c.p.c., sono espressamente previsti l'obbligo di rendere il conto al giudice che li ha nominati exartt. 94, comma 2, e 103 disp. att. c.c., e 593 c.p.c., mentre il relativo diritto al compenso è tutelabile attraverso le agili forme di cui agli artt. 92, ultimo comma, e 103 disp. att. c.c. nonché 52 e 53 disp. att. c.p.c.).

Secondo la seconda impostazione, solo gli amministrati, i partecipanti al condominio, e cioè i mandatari possono stabilire quale compenso sia dovuto all'amministratore per l'opera da lui svolta, e solo in caso di dissenso, può intervenire il giudice però in un giudizio contenzioso, per stabilire se il compenso deliberato possa considerarsi proporzionato all'attività da lui svolta, ai vantaggi che dallo svolgimento di tale attività sono derivati ai condomini, alle tariffe professionali che eventualmente disciplinano l'espletamento delle predette funzioni e ne determinano il compenso (v. artt. 1709 e 2260 c.c.; nello stesso senso, a proposito del rappresentante giudiziale comune degli obbligazionisti, v. Cass. II, n. 389/1969).

In termini concreti, l'amministratore nominato dal giudice, per tutelare il suo diritto al compenso, dovrà precisare ai condomini, in via preventiva, quale è il corrispettivo che richiede per lo svolgimento delle funzioni correlate al suo incarico e concordare con essi l'ammontare; se vi è un rifiuto in tal senso, l'amministratore potrà rinunciare alla nomina, non essendo obbligato a svolgere tali compiti gratuitamente, e sarà onere dei condomini scegliere un'altra persona (da sottoporre al giudice in sede di volontaria giurisdizione) che possa svolgerli gratis o al compenso da essi liquidato.

Se, invece, l'amministratore giudiziario non ritenga di sollevare preliminarmente la questione del compenso, lo stesso accetterà l'incarico, svolgerà l'attività per espletarlo nei modi previsti dalla legge, e, ad incarico compiuto, presenterà ai condomini il rendiconto con le spese della gestione, ivi compreso l'ammontare del compenso che ritiene dovuto; se i condomini contestino di dover corrispondere un qualunque compenso o di dover pagare l'ammontare richiesto, non rimarrà che ricorrere al giudice, in sede contenziosa (nei confronti dei condomini-mandanti) per verificare se il compenso medesimo sia dovuto ed eventualmente stabilirne il quantum.

I profili processuali

Merita ancora rammentare che il provvedimento con cui l'autorità giudiziaria nomina, ex art. 1105, comma 4, c.c., un amministratore della cosa comune, al fine di supplire all'inerzia dei partecipanti alla comunione, ha natura di atto di giurisdizione volontaria, perciò privo di carattere decisorio o definitivo, in quanto revocabile e reclamabile ai sensi degli artt. 739,742 e 742-bis c.p.c. e, conseguentemente, non ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., salvo che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi (Cass. VI/II, n. 15548/2017, che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale si lamentava l'irregolare costituzione del contraddittorio nel giudizio di reclamo innanzi alla corte di appello, in virtù delle concrete modalità di notifica dell'atto introduttivo di detta fase processuale; Cass. VI/II, n. 8481/2012).

Ed infine, le spese del procedimento di volontaria giurisdizione promosso ai sensi dell'art. 1105, comma 4, c.c., poiché hanno ad oggetto una materia in relazione alla quale non è identificabile una parte vittoriosa ed un'altra soccombente in esito a giudizio contenzioso, non possono essere liquidate dal giudice adito, alla stregua dei principi stabiliti dagli art. 91 ss. c.p.c., ma devono rimanere a carico del soggetto che le abbia anticipate assumendo l'iniziativa giudiziaria o interloquendo nel procedimento (App. Salerno 7 settembre 2004).

Anche la Suprema Corte ha affermato che il procedimento di nomina o di revoca dell'amministratore di condominio anche quando si inserisce in una situazione di conflitto tra i condomini o tra alcuni condomini e l'amministratore ha natura di procedimento di volontaria giurisdizione e, pertanto, si sottrae all'applicabilità delle regole dettate dagli artt. 91 ss. c.p.c. in materia di spese processuali, le quali postulano l'identificabilità di una parte vittoriosa e di una parte soccombente in esito alla definizione di un conflitto di tipo contenzioso. Ne consegue che le spese relative al procedimento in oggetto devono rimanere a carico del soggetto che le abbia anticipate assumendo l'iniziativa giudiziaria e interloquendo nel procedimento (Cass. II, n. 4706/2001).

I provvedimenti adottati dal tribunale in camera di consiglio in materia di nomina di amministratori di condominio sono soggetti a reclamo innanzi alla Corte d'Appello ai sensi dell'art. 739 c.p.c. Pertanto, la statuizione in materia di spese eventualmente adottata – peraltro erronea, non trattandosi di procedimenti contenziosi su diritti dalla definizione dei quali possa derivare una situazione di soccombenza – è impugnabile per cassazione ex art. 111 Cost. solo ove detto reclamo non sia stato proposto, sicché essa presenti, oltre al requisito della decisorietà – sicuramente posseduto, in quanto destinata a risolvere un contrasto in materia di diritti soggettivi concernente l'onere delle spese – anche quello della definitività. Ove, invece, sia stato proposto il predetto reclamo ex art. 739 nei confronti del provvedimento di merito che la contiene, la statuizione sulle spese, non possedendo tale carattere di definitività – in quanto adottata come conseguenziale ad una determinazione la cui eventuale caducazione ad opera della Corte d'Appello comporterebbe necessariamente anche il suo venir meno – non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost., ma deve essere impugnata unitamente al reclamo avverso il provvedimento di merito con il mezzo di cui al richiamato art. 739 c.p.c. (Cass. II, n. 5194/2002). 

Per completezza, sul versante processuale, si è affermato che la domanda con la quale l'amministratore di una comunione nominato dal giudice ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., richieda il pagamento del compenso (concordato con la maggioranza dei comunisti) per l'opera personale e continuativa da lui svolta per il perseguimento dei fini della comunione, appartiene alla competenza del giudice del lavoro, configurandosi il rapporto tra detto amministratore – che non assume la veste di amministratore giudiziario – ed i partecipanti alla comunione come rapporto privatistico di mandato, rientrante tra i rapporti atipici le cui controversie, sempre che sussistano i requisiti della collaborazione continuativa, coordinata e prevalentemente personale, sono soggette al rito del lavoro a norma dell'art. 409 c.p.c. (Cass. II, n. 1596/1988).

Bibliografia

Aitala, Qualche appunto in margine alla tutela d'urgenza nell'ipotesi di mancata esecuzione di delibere condominiali, in Arch. loc. 1992, 579; Baldoni, Comunione dei diritti reali e uso della cosa comune: spunti di comparazione, in Nuova giur. civ. comm. 2010, II, 73; Balzani, Quando la modificazione della cosa comune non è trasformazione e non è alterazione, ma rinnovamento, in Arch. civ. 1987, 359; Balzani, Interpretazione dell'art. 1102 c.c.: uso consentito e non consentito della cosa comune da parte del singolo condomino, in Arch. loc. 1985, 407; Boggiano, Brevi note sull'uso del bene comune, in Giur. it. 2002, 273; Bordolli, Uso indiretto e locazione del bene comune, in Immob. & proprietà 2009, 631; Bucci, Della comunione e del condominio, Padova, 1992; Capponi, Sulla locazione dell'uso di una parte comune al fine di installarvi una insegna pubblicitaria, in Arch. loc. 2003, 611; Celeste, L'uso esclusivo delle porzioni comuni del fabbricato tra (inconsapevoli) atti di intolleranza e (impreviste) pretese di usucapione, in Immobili e proprietà 2016, 148; Celeste, Mutamento di destinazione della cosa comune ed impossibilità d'uso da parte del condomino, in Rass. loc. 2004, 529; Celeste-Scarpa, Il condominio negli edifici, Milano, 2017; Cipriani, Sulla tutela giurisdizionale del diritto al compenso dell'amministrazione giudiziale della comunione, in Riv. dir. proc. 1971, 747; Colonna, Esclusività e partecipazione nel godimento dei beni: il caso del muro maestro in proprietà esclusiva, in Giur. it. 1998, 677; Costantino, Contributo alla teoria del diritto di proprietà, Napoli, 1967; Crescenzi, Le controversie condominiali, Padova, 1991; De Tilla, Sull'uso della cosa comune, in Arch. loc. 2001, 248; De Tilla, Sul particolare uso del bene comune al servizio di proprietà estranea alla comunione, in Arch. loc. 1994, 562; Ditta, Eccesso di potere, in Condominioelocazione.it; Fichera, Uso della cosa comune del singolo condomino e autorizzazione dell'assemblea, in Merito 2004, 4, 19; Fragali, La comunione, Milano, 1973; Fusaro, Condominio e destinazione dei beni: problemi e prospettive, in Notariato 2007, 425; Gabrielli-Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 2001; Gentili, Ancora sull'uso più intenso della cosa comune, in Giur. it. 1984, I, 2, 617; Lazzaro-Stincardini, L'amministratore del condominio, Milano, 1982; Natali, L'usucapione delle parti comuni del condominio, in Immobili & proprietà 2010, 83; Pellicani, Interventi edilizi sulla cosa comune da parte del condomino, in Immobili & proprietà 2009, 87; Peretti Griva, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960; Pironti, Crisi del condominio minimo ed intervento sostitutivo del giudice camerale, in Giur. merito 2001, 926; Pironti, Il diritto del condomino di servirsi della cosa comune non può estendersi a vantaggio di entità immobiliari estranee, in Giust. civ. 2000, I, 91; Provera, La locazione. Disposizioni generali, in Comm. c.c. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982; Rinaldi, Delibere assembleari: l'uso delle parti comuni e limiti ex art. 1102 c.c., in Riv. nel diritto 2014, 260; Rogozinski, In tema di interpretazione dell'art. 1105 quarto comma codice civile, in Foro it. 1949, IV, 194; Salis, Condominio di due partecipanti e impianto di ascensore, in Riv. giur. edil. 1975, I, 769; Salis, Il compenso dell'amministratore della comunione nominato dall'autorità giudiziaria, in Riv. giur. edil. 1973, I, 53; Sottosanti, Uso della cosa comune da parte dei condomini e vincoli di destinazione impressi su di essa, in Temi romana 1998, 475; Stella Richter, Procedimento in camera di consiglio e amministrazione della cosa comune, in Giur. it. 1962, 1, 2, 663; Tabet, La locazione-conduzione, Milano, 1972; Tedeschi, L'eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari del condominio edilizio, in Condominioelocazione.it; Terzago, Il Condominio. Trattato teorico-pratico, Milano, 2015; Terzago, La caratura millesimale e l'utilizzo delle parti comuni, in Immobili & diritto, 2007, fasc. 5, 31; Viganò, Per una rilettura dell'art. 1139 c.c., in Giur. it. 2001, 6; Visco, Le case in condominio, Milano, 1976; Zaccagnini, Natura giuridica dell'amministratore giudiziario nella comunione e rimedi avverso il provvedimento che gli liquida il compenso, in Nuovo dir. 1972, 841; Zaccagnini, L'amministrazione giudiziaria nel condominio, Piacenza, 1970; Zaccagnini-Palatiello, L'amministratore giudiziario nella comunione e nel condominio di edifici, Napoli, 1983.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario