La Cassazione sul rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione a seguito dell'inadempimento del datore di lavoro
28 Settembre 2018
Nel rapporto di lavoro l'eccezione di inadempimento, come strumento di autotutela privata, ha visto scontrarsi due orientamenti giurisprudenziali: l'uno tendente a ritenere che, a seguito di un inadempimento datoriale sostanziatosi nello straripamento dai limiti di legittimo esercizio dei propri poteri direttivi, sia giustificato il rifiuto del lavoratore allo svolgimento della propria prestazione; l'altro, invece, incline ad escludere la legittimità di un aprioristico rifiuto, focalizzandosi sul giudizio di proporzionalità della reazione, ex art. 1460, comma 2, c.c.
Con la sentenza n. 11408 del 2018 la Corte di cassazione tenta di fornire una soluzione unica, affermando che l'eccezione, rectius il rifiuto, del lavoratore non è automaticamente giustificato dall'inadempimento del datore di lavoro, essendo impreteribile il vaglio della non contrarietà a buona fede dell'exceptio inadimpleti contractus.
Cfr. G. Fiaccavento, nota a Cass., sez. lav., 11 maggio 2018, n. 11408, Il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione a seguito dell'illegittimo trasferimento. Con la sentenza dell'11 maggio c.a. la Corte di cassazione mira ad indirizzare i protagonisti della materia verso un percorso unico, nel tentativo di porre un freno all'andamento ondivago della giurisprudenza in merito ad un tema non poco delicato, quale quello della legittimità del rifiuto della prestazione da parte del lavoratore in risposta ad un inadempimento, totale o parziale, del datore di lavoro.
Perché possa procedersi all'esame di tale decisione sembra però necessario porre l'attenzione sulla ratio fondante dell'excepito inadimpleti contractus, disciplinata all'art. 1460, c.c. Si tratta di una eccezione di diritto sostanziale avente natura strettamente disponibile, con conseguente impossibilità per il giudice di rilevarla ex officio. Non sono comunque mancate pronunce con le quali è stato ritenuto sufficiente che la volontà di sollevare l'eccezione fosse inequivocabilmente desumibile dalle difese del convenuto o, più in generale, dalla sua condotta processuale (ne è esempio: Cass. 5 agosto 2002, n.11728, in Contr., 2003, 38 ss.).
L'eccezione di inadempimento, basata sul principio inadimplenti non est adimplendum, ha carattere dilatorio e non forza distruttiva in quanto, diversamente dalla domanda di risoluzione, non viene ad essere finalizzata alla cessazione del rapporto contrattuale, bensì risulta diretta alla sua conservazione.
L'ambito operativo è positivamente indicato dal legislatore facendo riferimento, al primo comma dell'art. prefato, ai contratti a prestazioni corrispettive.
Nessun dubbio quindi sull'applicabilità al contratto di lavoro, secondo quanto si evince dall'art. 2094, c.c. È proprio l'interdipendenza tra le obbligazioni, e le prestazioni che ne costituiscono oggetto, ad acclarare la funzione precipua di tale strumento, utilizzabile sia in via stragiudiziale che giudiziale: l'exceptio consente al contraente fedele, a fronte del mancato o inesatto adempimento dell'altra parte, di sospendere temporaneamente la prestazione dovuta, conservando in questo modo l'equilibrio sinallagmatico incrinato dall'inadempiente.
La pretesa della parte che per prima si è resa inadempiente viene di fatto paralizzata, anche se non in via definitiva, come invece accadrebbe qualora il contratto venisse risolto.
Una sorta di legittima difesa contrattuale, grazie alla quale un comportamento rilevante negativamente sul piano normativo, quale il mancato adempimento ad una obbligazione contrattuale, risulta trovare la propria legittimazione nella condotta della controparte, definibile come inadempimento giustificante.
Secondo taluni l'eccezione consentirebbe anche di esercitare una pressione psicologica, tale da indurre l'altra parte a correggere il proprio comportamento, e quindi provocarne l'adempimento.
Una rigida ed incondizionata applicazione del primo comma dell'art. 1460 c.c. fornirebbe uno strumento suscettibile di utilizzi diretti a celare la pretestuosità delle ragioni alla base dell'eccezione sollevata. Al fine di far cadere la inconsistente giustificazione con la quale può essere ammantato l'inadempimento dell'excipiens, il legislatore precisa che l'esecuzione della prestazione dovuta non può essere rifiutata se, tenuto conto delle circostanze, il rifiuto appare contrario alla buona fede, in stretta connessione con la disciplina generale del contratto, dalla stipulazione sino alla sua all'esecuzione, ai sensi degli artt. 1337 e 1375 c.c.
La bona fides, inoltre, non solo funge da limite nell'avvalersi dell'eccezione come strumento di autotutela privata, ma anche da fondamento della disposizione in esame: sarà ovviamente contraria a buona fede la condotta di chi, pur essendosi reso inadempiente o aver non correttamente adempiuto, pretenda, anche agendo in giudizio, la prestazione dovuta dall'altra parte del contratto.
Questione da risolvere è sicuramente quella di stabilire secondo quale metro il giudice debba accertare se il rifiuto dell'excipiens risulti o meno contrario a buona fede.
La giurisprudenza sembra concorde nel procedere mediante un giudizio di proporzionalità: sulla falsariga dell'art. 52 c.p., appare quindi essenziale accertare che la difesa non sia sproporzionata rispetto all'offesa. L'organo giudicante procede mediante una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, prestando attenzione anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.
È bene chiarire che, perché il rifiuto dell'eccipiente possa essere dichiarato adeguato rispetto all'inadempimento della controparte, non vengono in rilievo le sole obbligazioni principali dedotte in contratto, ma anche quegli obblighi c.d. secondari, di carattere accessorio e strumentale i quali, finalizzati anch'essi al conseguimento dei risultati perseguiti mediante il programma contrattuale, assumono rilevanza essenziale per le parti sul piano sinallagmatico (sull'argomento si veda: M. Covi, Su eccezione di inadempimento ed esigibilità di mansioni accessorie, nota a C. di Cassazione 23 dicembre 2003, n.19689, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, 777 ss.).
Il rapporto di lavoro, così come è stato anche evidenziato dagli Ermellini nella sentenza in esame, è connotato dalla previsione di una serie articolata di obblighi a carico sia del datore che del lavoratore, quali ad esempio l'obbligo di protezione, ex art. 2087 c.c., e l'obbligo di fedeltà, ex art. 2105 c.c., che si affiancano alle obbligazioni principali, recte per il dipendente la prestazione lavorativa, il pagamento della retribuzione per la parte datoriale.
Nella sentenza qui esaminata, inoltre, la Corte di cassazione adotta una posizione contraria all'orientamento che vede una condotta illecita nel provvedimento con il quale il datore eccede i limiti di un corretto e legittimo esercizio dei propri poteri, con conseguente possibilità per il lavoratore di giustificare l'inottemperanza sia mediante richiamo all'art. 1460 c.c., sia sulla base del principio quod nullum est nullum effectum producit.
Si è posto in luce il carattere atomistico di una tale visione, essendo necessario considerare il sinallagma esistente tra i complessivi obblighi reciproci, per cui il vaglio di non contrarietà a buona fede dell'eccezione non potrebbe essere pretermesso sostenendo che la nullità del provvedimento datoriale escluderebbe l'obbligo di esecuzione a carico del lavoratore, trattandosi di una prestazione non dovuta (in dottrina, favorevole ad una doppia qualificazione della condotta datoriale, in termini di nullità-invalidità e/o di inadempimento-illiceità: C. PISANO, Trasferimento, autotutela, dequalificazione, in Giur. It., 2013, 7, 1599 ss.; si veda anche: M. R. Barbato, Autotutela del lavoratore: rifiuto di prestazione non dovuta ed eccezione di inadempimento, in Rev. Fac. Direito UFMG, 2010, 57, 281 ss.). Come già sopra evidenziato, l'exceptio inadimpleti contractus realizza di fatto una sospensione del rapporto, cui sblocco si individua nell'adempimento o esatto adempimento del contraente che per primo è venuto meno alle proprie obbligazioni.
L'eccipiente non mira dunque alla cessazione del rapporto, né la prestazione alla quale lo stesso è tenuto contrattualmente cessa di essere dovuta. Solo mediante la domanda di risoluzione del contratto, ex artt. 1453 ss. c.c., entrambe le parti vengono definitivamente liberate dagli obblighi assunti.
Chiarita la distanza tra i due strumenti in mano del contraente in bona, è possibile però constatare come i giudici, sia di merito che di legittimità, tendano ad estendere l'applicazione dell'art. 1455 c.c. anche al giudizio di proporzionalità del rifiuto dell'eccipiente. Infatti, qualora si rilevi che l'inadempimento della parte, nei cui confronti è opposta l'eccezione, non è grave ovvero ha scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altra, ai sensi dell'art. 1455 c.c., il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione è da ritenersi non giustificato ai sensi dell'art. 1460, comma 2, c.c.
Certamente, così come sostenuto anche in dottrina (si veda: M. Pellini, Buona fede e gravità dell'inadempimento nella «exceptio inadimpleti contractus», in Dir. civ. cont., 14 marzo 2017) non si esclude che questi possano essere elementi che l'organo giudicante terrà in conto ai fini della propria decisione, potendo essere inclusi nelle “circostanze” alla luce delle quali deve essere esperito il vaglio di buona fede.
Opinabile sembra invece l'appiattimento di quest'ultimo su un parametro, quello della gravità dell'inadempimento, il quale rappresenta un presupposto per l'accoglimento della domanda di risoluzione, e quindi per la distruzione definitiva del rapporto contrattuale.
Diversamente l'eccezione di inadempimento, essendo essa piuttosto espressione dell'interesse positivo all'adempimento e alla conservazione contratto.
La scarsa importanza dell'inadempimento e la contrarietà a buona fede dell'exceptio non sembrerebbero, sic et simpliciter, concetti sovrapponibili. (ex plurimis: C. di Cassazione 26 gennaio 2006, n. 1690, in Giust. civ. mass., 2006,199; in dottrina: L. Bigliazzi Geri, Della risoluzione per inadempimento, tomo II: art. 1460-1462, Zanichelli Editore, Bologna, 1988, 45 ss.; M. Dellacasa, Eccezione di inadempimento e domanda riconvenzionale di risoluzione: valgono gli stessi criteri applicativi? in Nuova giur. civ. comm., 2004, 696 ss.). Sebbene siano più numerosi i casi in cui l'eccezione viene opposta dal lavoratore, non si esclude che anche il datore di lavoro possa invocare l'art. 1460 c.c., dovendosi escludere che alla inadempienza del lavoratore egli possa reagire solo con sanzioni disciplinari, con il licenziamento, ovvero con il rifiuto di ricevere la prestazione parziale, a norma dell'art. 1181 c.c.
I casi in cui più frequentemente excipiens è il lavoratore sono quelli di demansionamento, mancata corresponsione della retribuzione, difetto delle misure di sicurezza sul luogo di lavoro e trasferimento illegittimo. Per ciascuna di esse è possibile evidenziare come le decisioni giurisprudenziali non siano state in grado di fornire linee guida utili agli operatori del settore, a ciò cercando di supplire, con intento chiarificatore quindi, la sentenza oggi in esame.
Relativamente ad un caso di affidamento di mansioni inferiori, con la sent. del 18 febbraio 2008, n. 4060 (in Resp. civ. e prev., 2008,9, 1760 ss.), la Corte di cassazione aveva evidenziato come l'assegnazione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita legittimava il lavoratore ad adire l'autorità giudiziaria, al fine di eliminare il provvedimento datoriale, mentre era da escludere la possibilità per lo stesso di rifiutarsi aprioristicamente di svolgere la prestazione dovuta, in difetto di un avvallo giudiziario accordabile eventualmente anche in sede cautelare, in quanto tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dal datore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi in relazione all'art. 41, Cost.
Dieci anni dopo, con la sent. n. 11408 del 2018, la posizione della Corte di cassazione appare mutata: al punto 10.9, infatti, i giudici sostengono che la legittimità del rifiuto non sia subordinata necessariamente ad un preventivo avvallo giudiziale, in quanto ciò determinerebbe un onere di entità non indifferente a carico del lavoratore, senza che questo sia supportato da una specifica previsione normativa.
Torna a rilevare la gravità dell'inadempimento nei casi in cui l'exceptio venga giustificata dalla mancata corresponsione della retribuzione, costituente l'obbligazione principale alla quale la parte datoriale è tenuta. Non è stato ritenuto grave, ad esempio, il mero ritardo (ex multis: Trib. Roma 11 maggio 2000, in Riv. giur. lav., 201, II, 623 ss., con nota di L. Forte, L'illegittimità del licenziamento disciplinare in caso di applicazione dell'autotutela prevista dall'art. 1460 c.c.). Nella medesima decisione i giudici di legittimità pongono l'accento anche su una peculiarità del contratto di lavoro, ossia il diretto coinvolgimento della persona del lavoratore nella esecuzione del contratto che, sebbene non discenda direttamente dalla corrispettività delle obbligazioni reciproche, viene ad influenzare la verifica del sinallagma contrattuale.
Questo aspetto, infatti, conduce di fronte al rischio di una potenziale ricaduta dei provvedimenti datoriali su aspetti non soltanto patrimoniali ma anche connessi alle esigenze di vita del prestatore di lavoro, la cui tutela viene garantita anche a livello costituzionale.
L'attenzione alla persona del lavoratore risulta evidente, ad esempio, in quelle decisioni aventi ad oggetto il giudizio di non contrarietà a buona fede dell'eccezione di inadempimento del lavoratore a fronte della mancata adozione, da parte del datore, delle misure e cautele necessarie alla conservazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro.
I giudici hanno assunto una posizione favorevole rispetto a tali fattispecie, sebbene sia stata ritenuta rispondente alla condizione di cui all'art. 1460, comma 2, c.c. la sola sospensione delle mansioni la cui esecuzione possa arrecare un pregiudizio all'integrità fisica del soggetto (ex plurimis: C. di Cassazione, 19 gennaio 2016, n. 836, in Foro It., 2016, I, 451 ss.; cfr.: P. Fabris, Il rifiuto di adempiere del lavoratore per omissione di misure di sicurezza, in Lav. giur., 2009, 9, 881 ss.).
È bene notare come non sia raro che i provvedimenti datoriali vengono di fatto ad incidere, con maggiore o minore forza, sulla persona del lavoratore, o meglio sulla vita privata e professionale dello stesso.
Ciò che però sembra pervadere talune decisioni giurisprudenziali, è l'idea che l'adempimento della obbligazione principale al quale è tenuto il datore, recte la retribuzione, possa determinare un giudizio negativo del rifiuto del lavoratore, causalmente successivo ad un inadempimento datoriale parziale quale, come nel caso di specie, un trasferimento risultante in ultima analisi illegittimo per difetto delle condizioni richieste dal legislatore, in base all'art. 2103, comma 8, c.c.
Come è stato icasticamente affermato, sembra che “di solo pane vivrà l'uomo” (L. Scarano, Non di solo pane vive l'uomo: sull'esatto adempimento del datore di lavoro, in Lav. giur., 2011, 8, 797 ss.).
Laddove, infatti, il datore assolva a tutti gli altri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro) l'eccezione, ex art. 1460 c.c., non potrà tradursi in un inadempimento totale, a meno che tale non sia anche quello dell'altra parte (ex plurimis: Cass. 16 gennaio 2018, n. 836, in Giur. it., aprile 2018, 910 ss.; Cass. 23 dicembre 2003, n.19689, in Lav. giur., 2004, 11, 1169 ss.) tenuto anche conto della concreta incidenza delle determinazioni datoriali su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore.
Risposta proporzionata all'illegittimo provvedimento datoriale è stata valutata la mancata ottemperanza all'ordine con contestuale disponibilità del lavoratore allo svolgimento delle proprie mansioni, secondo la preesistente organizzazione aziendale e dunque nel medesimo luogo di lavoro, seguendo le originarie modalità, così da evitare possibili conseguenze perniciose per il datore.
Di fatto, quindi, il rapporto di lavoro rimarrebbe immutato. (Cass. 7 dicembre 1991, n. 13187, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, 947 ss.). Conclusioni
Nonostante l'obbiettivo espressamente perseguito dalla Corte di cassazione fosse quello di ricondurre su un unico binario gli orientamenti giurisprudenziali formatisi in merito la legittimità o meno del rifiuto del lavoratore di svolgere le proprie mansioni, allegando a propria difesa la condotta datoriale inadempiente, ad avviso di chi scrive sembra che alla questione debba ancora essere data questa disarmante risposta: “Dipende!”.
Poco condivisibile si presenta la soluzione individuata dagli Ermellini con la quale, nuovamente, si ha l'impressione che venga a sfumare il confine tra due strumenti distinti, sebbene non incompatibili.
La domanda di risoluzione del contratto, data la peculiare forza distruttiva, presuppone a propria giustificazione un inadempimento grave e consente al contraente in bona di ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale, e quindi anche il venire meno della obbligazione alla quale lo stesso era tenuto.
L'eccezione di inadempimento, invece, è manifestazione dell'interesse attuale dell'eccipiente all'adempimento della controparte, con la conservazione del contratto la cui esecuzione viene semplicemente sospesa in via temporanea.
Tale distinzione sul piano teleologico porta alla necessità di spezzare l'endiadi gravità-conformità a buona fede così da escludere che ai fini della legittimità del rifiuto suddetto debba essere accertata, a monte, la non scarsa rilevanza dell'inadempimento, secondo quanto disposto all'art. 1455 c.c.
Un'emancipazione indispensabile che porta a chiedersi se non sia opportuno adottare un metro di giudizio differente, il quale consenta, nella valutazione comparativa dei distinti comportamenti dei contraenti, di riconoscere la conformità a buona fede dell'exceptio anche in presenza di livelli inferiori di gravità dell'inadempimento c.d. giustificante (A.M. Benedetti, Le autodifese contrattuali, in Il Codice Civile Commentario, diretto da F.D. Busnelli, Giuffrè Editore, 2011, 50 ss.).
Sembrerebbe inoltre preferibile adottare un'ottica che ponga in maggiore rilievo la persona del lavoratore, nella sua dimensione più dinamica. Non sembra possibile obliare come in talune decisioni sia stata ritenuta giustificata l'autotutela estintiva del lavoratore il quale ritenga la condotta datoriale mortificante la propria dignità professionale, con pregiudizio per la propria salute psico-fisica (Cass. 10 gennaio 2018 n. 330, su www.italgiure.giustizia.it ; Cass. 11 luglio 2005, n. 14496, in Giust. civ. mass., 2005, 6 ss.; merita attenzione anche: Circolare INPS, 20 ottobre 2003, n. 163).
Appare quindi difficile comprendere il perché non possa essere considerata legittima, o meglio proporzionata, la reazione conservativa del lavoratore, con la quale egli miri alla corretta esecuzione del contratto di lavoro.
Nell'incertezza circa l'esito di un giudizio di proporzionalità lasciato al giudice del merito, sembra utile consigliare la disponibilità allo svolgimento della prestazione lavorativa dovuta, secondo le modalità originare e presso la sede iniziale, in modo tale da scongiurare un risultato processuale il quale si concretizzi nel riconoscimento della legittimità del recesso datoriale, frequente risposta al rifiuto assoluto.
Soluzione che verrebbe a realizzare una situazione di mora credendi del datore, con i rischi annessi.
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