Licenziamento (reiterato) adottato in “carenza” di potere: quale sanzione?
04 Ottobre 2018
Massima
In tema di licenziamento in regime di tutela reale, ove il datore di lavoro abbia intimato al lavoratore un licenziamento individuale, è ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, purché il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto (nel senso di non noto in precedenza al datore di lavoro) e la sua efficacia resti condizionata all'eventuale declaratoria di illegittimità del primo (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inefficace il licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore in forza di condotte già note al datore all'epoca di intimazione del primo recesso). Il caso
Un datore di lavoro intima al lavoratore (nella vigenza della legge “Fornero”) due licenziamenti disciplinari, ciascuno per ragioni diverse, in successione, di cui il secondo sulla base di una contestazione disciplinare formulata in data antecedente a quella di intimazione del primo licenziamento.
Il giudice di merito dichiara inefficace il secondo atto espulsivo in quanto intimato in carenza di potere ed applica la tutela reintegratoria “attenuata” di cui all'art. 18, comma 4, st. lav.
La Cassazione conferma la sentenza impugnata. La questione
La questione in esame (non poco articolata) è la seguente: il licenziamento intimato a fronte di infrazioni del lavoratore già conosciute dal datore al momento di irrogazione di un precedente licenziamento è valido?
In caso negativo, quale vizio esattamente si produce?
E quali conseguenze sanzionatorie ne derivano nel regime dettato dalla legge “Fornero”? Le soluzioni giuridiche
Secondo la sentenza in commento – che trova il suo precedente in Cass. 4 gennaio 2013, n. 106 -, affinché la reiterazione possa considerarsi legittima è necessario non solo che i fatti posti a supporto del licenziamento siano diversi da quelli che hanno dato luogo al primo recesso, bensì che siano stati conosciuti dal datore dopo l'intimazione del recesso in questione.
La ragione, verosimilmente, risiede nel fatto che il potere di licenziare, oltre a non poter essere esercitato due volte con riguardo allo stesso fatto (e sul punto v., da ultimo, Cass. 12 settembre 2016, n. 17912), va esplicitato unitariamente. Diversamente, non è più esercitabile per “consumazione”, secondo una regola (in realtà non riprodotta chiaramente in testi normativi) tratta dal principio del “ne bis in idem” sostanziale, che impone di attivare il potere in questione una sola volta con riguardo non solo al già dedotto, ma anche al “deducibile”, ossia ai fatti già noti prima dell'intimazione del licenziamento.
Tale regola, peraltro, non coincide esattamente con quella derivante dal giudicato processuale, per la quale, invece, il fattore preclusivo è dato dalla sentenza passata in giudicato che abbia statuito sulla legittimità del primo licenziamento intimato in data successiva a quella di avvenuta cognizione, ad opera del datore, dei fatti posti a base di un secondo atto di recesso. In tal caso i motivi non dedotti vengono assorbiti dal giudicato intervenuto sulla legittimità del primo licenziamento.
E' opinione consolidata, ad ogni modo, che una volta “consumato” il potere, un nuovo esercizio di esso non sia più ammissibile.
Nella vicenda, tuttavia, la tutela applicata a titolo sanzionatorio dal giudice di merito non è stata quella tipica del licenziamento nullo o “realmente” inefficace, ossia quella reintegratoria “piena” di cui all'art. 18, comma 1, st. lav., bensì quella reintegratoria “attenuata” di cui all'art. 18, comma 4, st. lav., delineata dal legislatore per l'ipotesi in cui il fatto non sussiste o è punito con sanzione conservativa.
Sul punto, la Cassazione, quanto al motivo di doglianza espresso dall'azienda, incentrato sulla non operatività, nella fattispecie, della tutela reintegratoria attenuata, ha evidenziato “l'irrilevanza della sussistenza dei fatti di cui al secondo licenziamento a fronte della ritenuta consumazione del potere di recesso in relazione a fatti già conosciuti all'epoca del primo licenziamento (ed in parte anche antecedentemente alla prima contestazione), sicché, in coerenza con una tale ricostruzione, che prevede l'inesistenza del potere sanzionatorio, non era ipotizzabile una tutela di rango inferiore a quella riconosciuta”.
La ricostruzione di fondo sembra quindi imperniata sul rilievo che il licenziamento reiterato in carenza di potere comporta, in concreto, la non valutabilità dei fatti per i quali è stato comminato, i quali, pertanto, è come se fossero “insussistenti”.
Si tratta però di capire se al lavoratore, in tal caso, ossia nella “carenza” (o inesistenza) del potere sanzionatorio, potesse spettare - necessariamente sulla base di una domanda del lavoratore medesimo, che nel caso non pare esservi stata - una tutela di rango superiore.
Va al riguardo puntualizzato che l'art. 18, comma 1, st. lav., non prevede, quale causa di nullità del licenziamento, l'intimazione di quest'ultimo in carenza di potere; né la nullità è prevista testualmente da altre disposizioni normative.
Si tratta quindi di verificare, in primo luogo, se la fattispecie possa integrare un caso di nullità virtuale, sempre ammesso che il legislatore, disponendo, al predetto art. 18, che il licenziamento è nullo anche se “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge”, abbia voluto anche alla nullità in questione riferirsi (ed il tema, come è noto, è oggetto di dibattito).
Occorre allora aver riguardo all'art. 1418, c.c., il quale dispone, per quanto qui interessa, che “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325”, che a sua volta indica, tra l'altro, quale requisito del contratto, la “causa”.
Tale previsione, ex art. 1324, c.c., dovrebbe applicarsi, in quanto compatibile, agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, tra cui rientra, certamente, il licenziamento. Ciò posto, potrebbe sostenersi che un licenziamento intimato in carenza di potere sia privo di causa, poiché esso non potrebbe mai assolvere alla sua funzione di estinguere il rapporto; ne deriverebbe la nullità e l'applicabilità della tutela reintegratoria “piena”.
Ma potrebbe obiettarsi che il licenziamento adottato in carenza di potere, in quanto, appunto, inesistente, non sia suscettibile di integrare un atto, pur nullo o inefficace, giuridicamente rilevante (tale è invece, ad esempio, il licenziamento orale, che, pur privo della forma scritta richiesta, ha una sua valenza, nonché una espressa disciplina giuridica). In tal caso, non potendo operare il regime della nullità, l'azione del lavoratore dovrebbe aver ad oggetto, semplicemente, l'accertamento della attuale sussistenza del rapporto di lavoro, con conseguente spettanza delle retribuzioni (è dubbio se a partire dalla messa in mora) fino alla ricostituzione effettiva del rapporto.
Tale ultima ricostruzione avrebbe, quale ulteriore, rilevante conseguenza, l'inapplicabilità della decadenza di cui all'art. 6, l. n. 604 del 1966 - entro cui procedere all'impugnativa -, valevole (per effetto di quanto previsto dall'art. 32, l. n. 183 del 2010) solo per il licenziamento invalido, al quale non pare riconducibile quello inesistente in senso tecnico. Osservazioni
La reiterazione (da non confondere con la rinnovazione in senso tecnico, concernente la mera ripetizione di un licenziamento in origine privo di un requisito procedurale e/o formale) del recesso datoriale, dopo qualche tentennamento della giurisprudenza, è stata pacificamente ammessa (cfr., tra le altre, Cass. 20 gennaio 2011, n. 1244: “Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente”).
Il presupposto di fondo è che l'atto di estromissione in regime di tutela reale (non in quello di tutela obbligatoria od indennitaria, ove l'ingiustificatezza non dà luogo alla reintegra) non interrompa il rapporto (cfr., sul punto, Cass. 6 marzo 2008, n. 6055: “Il licenziamento illegittimo non è idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato, determinando unicamente una sospensione della prestazione dedotta nel sinallagma, a causa del rifiuto del datore di ricevere la stessa”).
Pertanto il secondo licenziamento, benché all'inizio inefficace, si sovrappone legittimamente al primo in caso di sua accertata illegittimità.
Si tratta però di valutare se la reiterazione sia ammissibile anche nel nuovo scenario normativo disegnato dalla legge “Fornero”, che, come è noto, limita a casi tassativi la possibilità della ricostituzione del rapporto, mentre negli altri il rapporto di lavoro, malgrado la sussistenza del vizio, si estingue, sulla falsariga di quanto previsto in tema di tutela obbligatoria.
Al quesito sembra doversi dare risposta positiva, poiché non è possibile identificare ex ante il vizio da cui è affetto il licenziamento, sicché incombe sempre il rischio che il giudice accordi la reintegra per effetto della ritenuta nullità o illegittimità del primo licenziamento, con ciò riconoscendo la mai avvenuta interruzione del rapporto.
In altri termini, anche nel nuovo scenario normativo, il modello teorico incentrato sullo stato di quiescenza del rapporto determinato dal primo licenziamento pare possa esser conservato.
Un'ultima annotazione di carattere generale.
Vi è da chiedersi se il principio della “consumazione del potere” non introduca, per caso, un elemento di disarmonia nel sistema, la cui tenuta, nell'ambito del settore del licenziamento, va, a seguito delle note riforme introdotte dalla legge “Fornero” e dal “Jobs Act”, di volta in volta vagliata.
Basti il rilievo che il rimedio della tutela reale, di cui è sempre più riconosciuta la natura eccezionale, dovrebbe integrare la sanzione correlata a condotte datoriali di marcata gravità.
Si tratta perciò di valutare se un secondo licenziamento fondato su fatti già conosciuti dal datore al momento di intimazione del primo licenziamento possa integrare una condotta, appunto, grave.
L'indagine ovviamente va condotta sul piano del raffronto tra valori, avendo riguardo ad entrambe le parti del rapporto.
Potrebbe quindi sostenersi, per un verso, che il datore il quale licenzi il lavoratore senza far cenno di infrazioni da lui già a quel momento conosciute, ma poste in seguito a base di un secondo licenziamento, costituisca un comportamento contrario a buona fede ove le infrazioni in questione siano state già contestate al momento di intimazione del primo licenziamento. Ed infatti, il lavoratore che si veda contestare alcuni fatti e poi venga licenziato senza che agli stessi venga dato rilievo, non può che attribuire al comportamento datoriale il significato di un disconoscimento della valenza disciplinare dei predetti fatti (e quindi di una relativa rinuncia all'esercizio del potere); sicché la contrarietà ai canoni di buona fede sta proprio nella indebita “rivitalizzazione” dell'infrazione, posta a base del secondo licenziamento.
Ma, se così fosse, potrebbe avanzarsi l'idea che un tale tipo di ingiustificatezza – attesa la violazione delle regole di buona fede e correttezza - vada sanzionata con la tutela “ordinaria”, che è quella della tutela indennitaria forte di cui all'art. 18, comma 5, st. lav.
Vi è poi il caso analogo in cui è dimostrato che i fatti posti a base del secondo licenziamento erano già conosciuti dal datore al momento di intimazione del primo licenziamento ma sono stati contestati dopo il momento in questione. Qui, in effetti, non sembra esser leso neppure l'affidamento del prestatore, poiché quest'ultimo non ha potuto confidare nella rinuncia all'esercizio del potere disciplinare con riguardo a quei fatti, né è in qualche modo pregiudicato il suo diritto di difesa, ove la contestazione sia stata tempestiva.
Non possono escludersi, pertanto, se non interventi chiarificatori del legislatore, ulteriori puntualizzazioni della giurisprudenza in una materia ancora non agevolmente decifrabile, pur a distanza di anni dagli interventi riformatori.
Per riferimenti sul tema: L. Di Paola, Il licenziamento in generale, in Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro, III, Lavoro, Pratica Professionale, diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei, Giuffré, 2018, 226-227. |