La disciplina del contratto a termine dopo il decreto dignità

09 Ottobre 2018

Il cd. Decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. in l. n. 96 del 2018) ha introdotto significative modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, già oggetto di correttivi da parte delle precedenti riforme (d.lgs. n. 81 del 2015). Orbene, attraverso le redivive causali giustificative e la riduzione del periodo massimo di durata del rapporto, il legislatore ha indubbiamente alterato la funzione dell'istituto, in nome della lotta alla precarietà e del rispetto della “dignità” del lavoratore (oggi, tuttavia, non garantite in misura maggiore dal contratto a tempo indeterminato)...
Inquadramento dell'istituto

Il 12 agosto 2018 è entrata in vigore la l. n. 96 del 9 agosto 2018, di conversione, con modificazioni, del d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (cd. Decreto dignità).

Le nuove disposizioni hanno introdotto significative modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, già oggetto di correttivi da parte delle precedenti riforme (d.lgs. n. 81 del 2015).

Orbene, attraverso le redivive causali giustificative e la riduzione del periodo massimo di durata del rapporto, il legislatore ha indubbiamente alterato la funzione dell'istituto, in nome della lotta alla precarietà e del rispetto della “dignità” del lavoratore (oggi, tuttavia, non garantite in misura maggiore dal contratto a tempo indeterminato).

Del resto, è indubbio che nel caso di recesso datoriale, i diritti del lavoratore a termine siano più salvaguardati rispetto alle cd “tutele crescenti”, per cui, in seguito alla drastica quanto inevitabile riduzione di contratti a tempo determinato, l'effetto pratico della riforma potrebbe essere, paradossalmente, opposto all'agognata stabilità dei rapporti.

Proprio per adeguare la rigida disciplina alle esigenze produttive dei vari settori, allora, potrà assumere un ruolo fondamentale la contrattazione collettiva di secondo livello, anche “di prossimità” (art. 8, d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011), pur con le difficoltà legate alla mancanza di regole chiare e condivise in materia di rappresentatività sindacale.

Le causali

L'aspetto più significativo della riforma concerne l'obbligatorietà di giustificare l'apposizione del termine per i rapporti di durata superiore a 12 mesi, a pena di conversione a tempo indeterminato.

Più in particolare, la nuova disciplina prevede la possibilità di stipulare liberamente, e senza indicazione delle “causali”, solo un primo contratto a tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi.

Nel caso in cui il contratto venga prorogato per una durata superiore a 12 mesi, ovvero nel caso in cui le parti sottoscrivano un nuovo contratto a termine, il datore di lavoro dovrà indicare specifiche ragioni relative a:

- Esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività del datore di lavoro;

- Esigenze sostitutive di altri lavoratori,

- Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria del datore di lavoro.

Suddette causali, riecheggiano la precedente disciplina (art. 1 comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001) ma risultano, indubbiamente, più restrittive e specifiche, dato che la previsione di “esigenze straordinarie” non legittimerebbe la stipula di contratti a termine per far fronte ai periodici picchi di attività non strettamente legati a quelle esigenze di stagionalità previste dalla legge (d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525) ovvero dai contratti collettivi.

Il datore di lavoro, inoltre, potrebbe dimostrare tale “straordinarietà” anche mediante l'assegnazione a mansioni diverse rispetto a quelle dei lavoratori già in forza.

Non minori incertezze, posso derivare dall'esatta qualificazione di attività “non programmabili”, che, se intesa in senso restrittivo, escluderebbe l'utilizzazione del contratto a termine per tutte quelle esigenze occupazionali limitate nel tempo, determinate da precise scelte di carattere gestionale o attività programmate. Rimarrebbero, quindi, fuori, in mancanza di previsione dei contratti collettivi, gli aumenti di attività collegati ai periodi di maggiore affluenza di clientela.

Sono esclusi dal campo di applicazione delle causali, i rinnovi e le proroghe di contratti a termine legati ad attività stagionali (da intendersi le fattispecie contemplate nel d.P.R. n. 1525 del 1963 ovvero individuate dai contratti collettivi) ovvero per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale e le fattispecie previste dall'art. 29, d.lgs. n. 81 del 2015, nonché alle "start-up innovative" previste dall'art. 25, d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, per il periodo di quattro anni (o inferiore per quelle già operative) dalla loro costituzione.

Durata massima

Il legislatore (comma 2 dell'art. 19, d.lgs. n. 81 del 2015, così come modificato dal comma 1 dell'art. 1, l. n. 96 del 2018), inoltre, ha significativamente ridotto i tempi di durata massima del rapporto a termine, che non può eccedere il limite di 24 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi (a fronte dei 36 mesi previsti dalla vecchia disciplina e, mai intaccati dagli interventi di riforma precedenti).

La nuova disciplina, tuttavia, non ha mutato la previsione dell'art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015, secondo cui i contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali) sottoscritti dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle loro rappresentanze aziendali (RSA o RSU ove presenti), possano prevedere una durata massima diversa.

Il limite massimo, infine, può essere derogato anche con la stipula, presso la Direzione Territoriale del Lavoro – DTL - competente per territorio, di un nuovo contratto a tempo determinato, della durata massima di dodici mesi.

Le proroghe ed il contributo addizionale

Le proroghe del contratto si riducono da 5 a 4, anche se il rapporto, per effetto dell'intervento della contrattazione collettiva, fosse superiore a 24 mesi.

Tale regole non si applica alle imprese startup innovative (come previste all'art. 25, commi 2 e 3, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179,conv., con modif., dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221), per il periodo di quattro anni dalla costituzione della società.

Inoltre, il contributo introdotto dal comma 28 dell'art. 2, l. 28 giugno 2012, n. 92, vale a dire l'1,4 % che grava oggi sull'imponibile contributivo di tutti i contratti a tempo determinato (finalizzato a finanziare la Naspi), viene incrementato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.

Il termine per l'impugnazione

Al fine di garantire una tutela più estesa al lavoratore anche in materia processuale, il legislatore ha aumentato il termine di impugnazione del contratto a tempo determinato (introdotto dal c.d. “collegato lavoro”, che passa da 120 a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto, a pena di decadenza secondo una delle modalità previste dall'art. 6, l. n. 604 del 1966.

Invariato, invece, rimane il termine di 60 gg., sempre a pena di decadenza, per il deposito del ricorso giudiziale presso la cancelleria del tribunale.

Campo di applicazione e regime transitorio

La riforma ha determinato difficolta di natura applicativa in merito alle causali ed alla durata massima del rapporto, anche per il susseguirsi, a breve distanza di tempo, di due differenti regolamentazioni: l'art. 1, comma 2, d.l. n. 87 del 2018, entrato in vigore il 14 luglio, e la sua riformulazione di cui alla legge di conversione n. 96 del 2018, entrata in vigore il 12 agosto 2018.

Più in particolare, con la citata legge di conversione, il legislatore ha introdotto un regime transitorio che ha dato origine a diverse discipline, legate alla data della stipulazione del contratto ovvero delle proroghe e rinnovi.

La prima ipotesi si riferisce ai contratti a termine stipulati prima del 14 luglio 2018. In tal caso non si pongono particolari problemi dato che, sarà integralmente applicabile la normativa previgente (d.lgs. n. 81 del 2015 e, quindi, acausalità e durata massima di 36 mesi) anche per ciò che concerne proroghe e rinnovi degli stessi, con il limite, però, previsto dalla legge di conversione di cui al periodo transitorio.

Ciò significa che, per le proroghe o rinnovi sottoscritti prima del 31 ottobre 2018, non valgono le limitazioni di cui alla riforma, e ciò anche se la durata complessiva del rapporto fosse superiore alla data del 31 ottobre 2018.

Al contrario, se le proroghe o rinnovi fossero sottoscritti dopo il 31 ottobre, sarebbero sottoposte al vincolo di causale e della durata massima di 24 mesi.

Il secondo regime si riferisce ai contratti stipulati dopo il 14 luglio 2018. In tal caso trova applicazione la normativa restrittiva di cui al del d.l. n. 87 del 2018 (cd. decreto dignità) che riguarda anche le proroghe e rinnovi degli stessi contratti.

Qualche interprete, in verità, ha sostenuto che la vecchia disciplina si applicherebbe alle proroghe e rinnovi sottoscritti nel periodo intermedio (12 agosto - 31 ottobre 2018, ovvero tra l'entrata in vigore della legge di conversione e la cessazione e del periodo transitorio).

In attesa di chiarimenti da parte degli organi deputati, tuttavia, deve ritenersi che il regime restrittivo sia applicabile anche a tale fattispecie.

Infine, per i contratti sottoscritti dal 1° novembre 2018 si applicherà integralmente la disciplina di cui alla l. n. 96 del 2018.

Riferimenti normativi

-

Legge 9 agosto 2018, n. 96;

- decreto legge 12 luglio 2018, n. 87;

- decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81;

- decreto legge 20 marzo 2014, n. 34;

- legge 28 giugno 2012, n. 92;

- legge 17 dicembre 2012, n. 221;

- legge 4 novembre 2010, n. 183;

- decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368;

- decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525.

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