Decreto legislativo - 7/09/2005 - n. 209 art. 12 - Operazioni vietateOperazioni vietate
1. Sono vietate le associazioni tontinarie o di ripartizione, le assicurazioni che hanno per oggetto il trasferimento del rischio di pagamento delle sanzioni amministrative e quelle che riguardano il prezzo del riscatto in caso di sequestro di persona. In caso di violazione del divieto il contratto è nullo e si applica l'articolo 167, comma 2. 2. È vietata la costituzione nel territorio della Repubblica di società che hanno per oggetto esclusivo l'esercizio all'estero dell'attività assicurativa. InquadramentoLe principali caratteristiche della disciplina dell'esercizio dell'impresa di assicurazione sono tre: (a) l'obbligo di limitare l'oggetto sociale all'esercizio dei soli rami vita oppure dei soli rami danni e della relativa riassicurazione, oltre alle operazioni connesse all'esercizio dell'attività assicurativa o riassicurativa (art. 11, comma 2, cod. ass.); (b) la soggezione ad un capillare sistema di autorizzazioni e controlli; (c) l'obbligo di assumere una particolare forma (art. 1883 c.c.; art. 14, comma 1, lett. a, cod. ass.). Non vi è tuttavia coincidenza perfetta tra le imprese soggette alla disciplina pubblicistica, cioè le «imprese assicurative», e l'attività assicurativa in senso stretto. Quest'ultima consiste nella stipula di contratti di assicurazione, ed ai sensi dell'art. 1882 c.c. l'assicurazione è il contratto col quale l'assicuratore, verso pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. La legge però consente alle imprese di assicurazione di stipulare anche contratti che non posseggono i requisiti di cui all'art. 1882 c.c. Infatti l'art. 2, commi 1 e 3, cod. ass. nell'elencare i «rami» nei quali è suddivisa l'assicurazione sulla vita, include tra le altre le operazioni di capitalizzazione e le operazioni di gestione di fondi collettivi costituiti per l'erogazione di prestazioni in caso di morte, in caso di vita o in caso di cessazione o riduzione dell'attività lavorativa, che a rigore non costituirebbero operazioni assicurative. Ed ancora, seri dubbi possono nutrirsi circa l'equiparabilità al tipico contratto di assicurazione delle operazioni (formalmente qualificate come assicurazioni sulla vita) in cui l'indennizzo è collegato a valori finanziari o indici di riferimento, e prevedono la partecipazione dell'assicurato al rischio di variazione di tali indici, ivi compreso il rischio di perdita del capitale investito (c.d.c.d. polizze unit-linked e index-linked). Dunque l'attività assicurativa in senso stretto attualmente non costituisce più l'oggetto esclusivo dell'impresa di assicurazione (Cagnasso, L'impresa di assicurazione, in Cottino et al., L'assicurazione: l'impresa e il contratto, Padova, 2001, 17), e quest'ultima, sia pure nei limiti stabiliti dalla legge, è ammessa a concludere anche contratti diversi da quelli assicurativi. Impresa e contratto di assicurazione.La tecnica assicurativa consiste nella neutralizzazione dei rischi trasferiti dagli assicurati all'assicuratore, mercé la sopportazione del relativo onere grazie ai premi pagati questi ultimi, secondo le regole della mutualità. Un'operazione di questo tipo è possibile soltanto raccogliendo una grande massa di rischi, in quanto maggiore è il numero di contratti stipulati per rischi omogenei, minore sarà il peso che ciascun assicurato dovrà sostenere, pagando il premio, della percentuale di rischi che esiteranno in sinistri effettivi. Ne consegue che dal punto di vista della tecnica assicurativa l'attività di assicurazione non potrebbe essere compiuta se non da un imprenditore, in quanto colui il quale accettasse di accollarsi uno ed un solo rischio cui sia esposto un terzo non potrebbe fare calcoli statistici sulla possibilità di avverarsi dell'evento dannoso, né potrebbe ripartirne il costo su alcuno, e nemmeno potrebbe determinare il premio frazionando tra tutti gli assicurati il costo del sinistro. Questa osservazione ha fatto sorgere il problema di stabilire se sia concepibile la stipula d'un contratto di assicurazione al di fuori dell'impresa assicurativa. Secondo un primo orientamento il contratto di assicurazione non è concepibile, né in fatto né in diritto, se l'assicuratore non rivesta la qualifica di imprenditore. Questa qualifica, anzi, sarebbe addirittura voluta dall'assicurato, perché altrimenti – mancando il capitale rappresentato dai premi raccolti – quest'ultimo non potrebbe contare su alcuna garanzia di solvibilità dell'assicuratore (c.d. «teoria dell'impresa»). Secondo questa teoria l'impresa, insieme al premio ed al rischio, costituisce uno dei tre elementi essenziali del contratto di assicurazione (Vivante, 8; così anche Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1986, 900; De Gregorio, Fanelli e La Torre, 22-23; Volpe Putzolu, L'influenza, 113; in senso analogo, ma non coincidente, si veda anche Ippolito, 387 e 476). Le teorie che ravvisano nell'impresa un elemento od un presupposto indefettibile del contratto conducono, sul piano pratico, a questi risultati: a) individuano la prestazione principale dell'assicuratore non nel pagamento dell'indennizzo, ma nella costituzione di una efficiente ed efficace struttura d'impresa (Sotgia, 397); b) di conseguenza escludono – ma non in modo unanime – la natura aleatoria del contratto di assicurazione, giacché la prestazione principale dell'assicuratore (dotarsi dei mezzi per pagare i sinistri) non è mai aleatoria, ma è sempre certa ed attuale; c) ritengono nullo il contratto a scopo assicurativo concluso da un privato, ovvero da un imprenditore in modo occasionale; d) ritengono che la qualità soggettiva dell'assicuratore -imprenditore debba costituire criterio ermeneutico generale per l'interpretazione di tutte le norme sul contratto. Alla teoria dell'impresa si è obiettato che la necessità di adottare precise regole tecniche nella gestione dei rischi, da parte dell'assicuratore, non consente di concludere che l'impresa diventi un «elemento essenziale» del contratto. Infatti qualsiasi tipo di impresa (da quella bancaria a quella dei trasporti, a quella della distribuzione) deve ubbidire a regole tecniche di gestione, ma ciò non toglie che i contratti stipulati nell'esercizio di essa restino impermeabili a tali regole (Bavetta, 629-631). Un secondo orientamento ritiene invece che tra l'esercizio imprenditoriale dell'attività assicurativa e il contratto di assicurazione non sussiste alcun nesso di implicazione necessaria. Normalmente il contratto sarà stipulato da un assicuratore professionale, ma ciò non è coessenziale alla validità del contratto (Donati, Trattato, 12; Ascarelli, 362; Buttaro, 1954, 213; Buttaro, 1962, 184; Santoro Passarelli, 452; Palermo, 204; Salandra, 9). Un terzo orientamento, infine, condivide l'opinione secondo cui il legislatore nel disciplinare il contratto di assicurazione avrebbe implicitamente dato per scontato che «assicuratore» non potesse essere altri che un imprenditore, ma sostiene l'autonomia logica e giuridica del contratto dall'impresa, pur ammettendosi che l'uno e l'altra si influenzano e si condizionano reciprocamente, in vari modi (Fanelli, 40). Dall'adesione all'una piuttosto che all'altra delle teorie appena riassunte discende la soluzione del problema relativo alla validità di un patto di natura assicurativa, cioè di un contratto di assicurazione singolo e isolato, stipulato da un soggetto che non sia un imprenditore assicurativo. Secondo i fautori della «teoria dell'impresa», la validità di un simile patto è da escludersi, in quanto l'assenza della struttura imprenditoriale renderebbe il contratto di assicurazione privo di uno dei suoi elementi essenziali (Scalfi, 347). Essi ammettono che la libertà negoziale delle parti possa dare vita a contratti che abbiano lo scopo di trasferire un rischio, ma escludono che tali contratti possano avere la natura di contratti assicurativi in senso stretto, ove manchi l'elemento dell'impresa (Corrias, 2006, passim, ma specialmente 517). I critici della teoria dell'impresa, per contro, ammettono la possibilità per il soggetto che non sia un imprenditore assicurativo di stipulare occasionalmente un patto di natura assicurativa, sostenendo che per la validità di tale contratto la legge non richiede l'organizzazione d'impresa, né la veste della società di capitali. In una posizione intermedia si collocano quegli autori i quali, pur escludendo che la qualità di imprenditore dell'assicuratore costituisca elemento essenziale del contratto di assicurazione, ritengono comunque che la suddetta qualità incida sulla causa del contratto, nel senso che non costituirebbe un'assicurazione, perché privo della causa di quest'ultima, il contratto di trasferimento del rischio stipulato da un assicuratore occasionale (Jorio, 1; De Gregorio, Fanelli e La Torre, 22; Volpe Putzolu, 1985, 56; Durante, 571; Gasperoni, 111; Mossa, 149; si veda anche, in argomento, Cardani, 13). Ciò, tuttavia, lascerebbe irrisolto il problema della validità di tali accordi, problema da valutare caso per caso. Vi sono infine alcune teorie minoritarie, le quali ritengono il patto di natura assicurativa un contratto annullabile per errore sulle qualità dell'altro contraente (Ippolito, Il sinallagma, 483), oppure qualificano il patto in esame non come assicurazione, ma come fideiussio indemnitatis o scommessa, a seconda delle ipotesi (Santoro Passarelli, 1975, 206). Nella disputa dottrinaria sulla natura dei rapporti tra contratto ed impresa d'assicurazione la giurisprudenza ha dato indicazioni contrastanti. In un primo gruppo di sentenze il problema qui in esame è stato affrontato con riferimento alle c.d. «clausole di manleva» contenute in molti contratti di appalto, in virtù delle quali l'appaltatore si obbliga a rifondere i danni di qualsiasi tipo patiti dal committente nel corso dell'esecuzione dell'opera. Nell'esaminare la validità di tali clausole, e nel qualificarle sub specie iuris, la Corte di cassazione ha manifestato ben tre diversi orientamenti. In alcune decisioni la S.C. sembra avere condiviso la tesi dell'ammissibilità del patto di natura assicurativa, apparentemente ripudiando la teoria dell'impresa, che come si è visto nega recisamente la validità di un simile patto (Cass. n. 2211/1969). A conclusioni opposte la S.C. è pervenuta però in un caso in cui era stata impugnata dall'appaltatore la sentenza di merito che aveva ritenuto valida la clausola di manleva, interpretata dal giudice d'appello nel senso che l'appaltatore fosse tenuto a rivalere il committente anche dei pregiudizi non derivanti da colpa propria o dello stesso committente. La S.C., nel cassare tale decisione, ha osservato che il patto di manleva, nella parte in cui dovesse costringere l'appaltatore a rivalere il committente anche nel caso di danni dovuti a fatti inevitabili connessi all'esecuzione dell'opera, dovrebbe ritenersi nullo per mancanza o illiceità della causa (Cass. n. 9365/1992). A conclusioni ancora diverse la S.C. è invece pervenuta in una terza decisione. In questo caso, anch'esso avente ad oggetto un contratto di appalto, un terzo aveva garantito al committente il conseguimento del risultato promesso dall'appaltatore. Insorta controversia sulla natura dell'obbligazione del terzo (se, cioè, questi avesse garantito il fatto altrui, come un fideiussore, ovvero avesse assunto una obbligazione propria e primaria), il giudice di legittimità ha optato per questa seconda soluzione, osservando che il contratto con cui un soggetto garantisce non l'adempimento di un'obbligazione altrui, come avviene nella fideiussione, ma semplicemente il positivo risultato materiale di un'opera commessa ad altri, nel caso in cui detto risultato si presenti incerto, configura un negozio atipico diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico. Da ciò, la conseguenza dell'inapplicabilità dell'art. 1941 c.c., secondo cui l'obbligo del fideiussore non può avere un contenuto più ampio dell'obbligo del debitore principale, con l'ulteriore conseguenza che, qualora il risultato garantito non si verifichi, l'esclusione della responsabilità dell'esecutore dell'opera non fa venir meno la responsabilità di colui che tale risultato ha garantito (Cass. n. 1602/1980). Al di fuori della materia delle clausole di manleva inserite nei contratti di appalto, una affermazione esplicita della validità del patto di natura assicurativa stipulato occasionalmente da chi non sia assicuratore di professione si rinviene in una sentenza del 2007. Quel caso aveva ad oggetto la seguente fattispecie: una società commerciale aveva venduto una serie di immobili, garantendo all'acquirente che quegli immobili avrebbero fruttato canoni di locazione minimi per un determinato periodo di tempo. Nello stesso tempo, la società venditrice aveva stipulato un contratto con una società controllata, in virtù della quale quest'ultima si era impegnata a rifondere alla prima gli importi che questa avesse dovuto corrispondere agli acquirenti, in caso di mancata percezione dei canoni di locazione. Poiché gli acquirenti degli immobili non avevano incassato per intero i canoni di locazione loro promessi, ne avevano richiesto al venditore la differenza, e questo a sua volta aveva escusso la garanzia prestatale dall'altra società. A questo punto sorse controversia tra l'erario e la società venditrice degli immobili, in quanto il primo pretendeva di assoggettare ad IVA le somme versate al venditore dal «garante»; la seconda assumeva invece che quei pagamenti costituivano indennizzi assicurativi, e dunque erano esenti da IVA. La Corte di cassazione ha dato ragione al contribuente, osservando che il contratto in virtù del quale taluno si obblighi, dietro pagamento di un corrispettivo, a tenere indenne la controparte di quanto quest'ultima dovesse essere tenuta a pagare ad un terzo, in conseguenza dell'inadempimento di una obbligazione contrattualmente assunta nei confronti di quest'ultimo, ha natura assicurativa, a nulla rilevando il difetto nel promittente della prescritta autorizzazione per lo svolgimento di tale attività, difetto che rileva solo sul piano amministrativo (Cass. 24560/2007). Così riassunte le posizioni della dottrina e della giurisprudenza, può conclusivamente osservarsi come le ragioni di chi nega la concepibilità stessa di un contratto di assicurazione al di fuori della struttura dell'impresa assicurativa siano difficilmente oppugnabili, per varie ragioni. La prima e più evidente è l'irrazionalità di esigere il rispetto di rigorosissimi obblighi di probità, accortezza, prudenza, informazione e trasparenza dalle imprese assicuratrici (obblighi previsti da norme interne e comunitarie), se poi fosse consentito a chiunque stipulare patti di natura assicurativa. L'intero universo delle norme sulla vigilanza prudenziale, sulla solvibilità corretta, sugli «stretti legami» tra amministratori e/o soci costituisce un «ordinamento di settore» preordinato a garantire il corretto esercizio dell'impresa e la tutela sia del mercato finanziario, sia degli assicurati collettivamente considerati. Per la stessa ragione, tutta la disciplina dell'attività assicurativa, in quanto «ordinamento di settore», rende palese come il legislatore non ammetta che l'attività assicurativa possa essere svolta da chi assicuratore non sia, e poiché per essere assicuratori bisogna rivestire la qualità di imprenditori, cioè svolgere la relativa attività continuativamente, ecco che il compimento di un singolo contratto «assicurativo» da parte di chi imprenditore non sia costituisce un accordo nullo per illiceità della causa. Né varrebbe obiettare, a questo riguardo, che anche altre attività commerciali (ad es., quella bancaria) sono soggette a rigorosi controlli ed autorizzazioni, ma ciò non vieta a due privati di stipulare un contratto produttivo degli effetti dell'apertura di credito o dell'anticipazione in conto corrente. A tale obiezione si può replicare che tutti i contratti bancari costituiscono schemi negoziali derivati da istituti preesistenti, sostanzialmente germogliati dal ceppo del mutuo, della cessione di credito, della delegazione, dell'accollo. Il legislatore ha dunque dettato per tali contratti sia una disciplina generale, sia una disciplina «di settore», per l'ipotesi in cui essi vengano stipulati nell'ambito dell'esercizio dell'impresa bancaria. Altrettanto potrebbe dirsi per molti altri dei più importanti contratti commerciali: così, ad esempio, norme ad hoc sono dettate per il trasporto eseguito da vettori professionali, o la cessione di credito effettuata su scala industriale (franchising). In tutti questi casi abbiamo dunque un genus contrattuale, che può liberamente essere stipulato da imprenditori e non, ed una species, che può essere stipulata solo da imprenditori. Ben diversa è l'ipotesi del contratto di assicurazione, il quale è stato concepito e regolato dal legislatore presupponendo la struttura imprenditoriale dell'imprenditore. La disciplina codicistica del contratto di assicurazione non costituisce «adattamento» di un tipo contrattuale preesistente alla struttura dell'impresa, ma nasce con quest'ultima, la presuppone e ne è presupposta. La validità di un patto di natura assicurativa stipulato da chi non sia un imprenditore assicurativo deve escludersi anche sotto un secondo profilo. «Assicurazione», infatti, non è il mero accordo in virtù del quale Tizio si obbliga a pagare a Caio 100 si navis venerit (aut non venerit) ex Asia. È contratto di assicurazione solo quello il quale presuppone l'inserzione del singolo rischio in una moltitudine omogenea di rischi ed il computo del premio-base in misura pari al frazionamento del costo dei sinistri fra tutti gli assicurati. L'idea della mutualità e quella della corrispondenza tra premio e rischio sono talmente coessenziali al concetto di assicurazione, che il legislatore le ha date per presupposte, in modo tanto evidente quanto inoppugnabile: se il premio potesse essere svincolato dal rischio, non troverebbero giustificazione le regole di cui agli artt. 1892 e 1893 c.c., né quelle di cui agli artt. 1895-1898 c.c.; se, poi, fosse consentito all'assicuratore non inserire il singolo rischio nella massa di quelli omogenei, non avrebbero senso le norme che prevedono l'obbligo di pagamento del premio anche per il periodo per il quale l'assicuratore non ha corso alcun rischio (ad es., art. 1896 c.c.). Se fosse consentito, a chi imprenditore assicurativo non sia, stipulare un singolo patto di natura assicurativa, egli non potrebbe calcolare il premio frazionandolo fra i vari assicurati; né garantire il pagamento dell'indennizzo, perché un rischio non viene meno solo perché muta il patrimonio su cui grava, ma viene meno solo se si ripartisce su un fondo costituito col contributo di una moltitudine di assicurati. Dunque il c.d. «patto di natura assicurativa» è nel nostro ordinamento inammissibile, perché l'assicurazione presuppone necessariamente la comunione dei rischi secondo i principî della mutualità, la quale può sussistere solo se l'attività assicurativa sia esercitata imprenditorialmente. Infine, risolutivo appare il testo dell'art. 167 cod. ass., il quale prevede la nullità (sia pure relativa) del contratto stipulato con chi eserciti abusivamente l'attività assicurativa. Se, infatti, il legislatore ritiene immeritevole di tutela il contratto stipulato da chi, pur essendo imprenditore, sia privo di autorizzazione all'esercizio, a fortiori dovrà ritenersi immeritevole il contratto assicurativo stipulato da chi non solo sia privo di autorizzazione amministrativa, ma nemmeno possieda la qualità di imprenditore. La tecnica dell'impresa assicurativa.Poiché l'assicuratore è un imprenditore, egli presta la propria attività in funzione del profitto. Il primo e più grande problema dell'impresa assicurativa è quindi quello di trasformare un evento aleatorio (il rischio trasferitole dall'assicurato) in una prestazione certa, in modo da potere pianificare la propria attività senza incertezze. Questa trasformazione avviene attraverso la tecnica della comunione dei rischi, che in modo estremamente sommario può riassumersi come segue. L'assicurato è spinto alla stipula del singolo contratto di assicurazione dal bisogno di sicurezza, cioè dall'intento di cautelarsi contro il rischio che si verifichi un evento non voluto (sinistro). Mentre, tuttavia, il bisogno di sicurezza è immanente nella condizione di ogni individuo, il concreto verificarsi dei sinistri ubbidisce a regole diverse: per l'individuo singolo, esso è imprevedibile, ed è soggetto alle sole leggi del caso; per una intera collettività di individui, invece, il concreto verificarsi dei sinistri può essere misurato in base alle leggi della statistica, le quali consentono di stabilire quanti tra i rischi di un certo tipo, in un tempo dato, si convertono in sinistri, e quanti restano invece allo stato potenziale. Facendo applicazione delle leggi statistiche che governano il prodursi dei sinistri di un certo tipo, l'assicuratore può, stipulando un gran numero di contratti di assicurazione, ripartire il costo dei rischi che statisticamente si convertiranno in sinistri tra tutti gli assicurati, in modo che il peso degli indennizzi sia sostenuto anche da coloro che non hanno subito sinistri di sorta. La tecnica dell'impresa d'assicurazione non si esaurisce, perciò, nella semplice sopportazione del rischio trasferitole dall'assicurato, ma comporta necessariamente l'inserzione del suddetto rischio in una più vasta massa di rischi a quello omogenei, in modo che coi premi riscossi da tutti gli assicurati si possa costituire il fondo da destinare al pagamento degli indennizzi. Nell'assicurazione a premio esercitata su scala imprenditoriale si compendiano, in tal modo, l'idea della mutualità (in quanto il costo dell'indennizzo si ripartisce tra tutti gli assicurati) e quella del trasferimento del rischio (in quanto quest'ultimo viene comunque assunto dall'assicuratore) (Donati, 195210; Volpe Putzolu, 1985 56; La Torre, 3). Questa operazione sarà tanto più esatta e raffinata, quanto maggiore sarà la massa di rischi omogenei raccolti dall'assicuratore, in quanto nel calcolo delle probabilità lo scarto tra la probabilità teorica di accadimento e l'effettivo verificarsi del sinistro sarà tanto minore quanto maggiore è il numero dei casi osservati e posti a fondamento della statistica. Cura principale dell'assicuratore, nella conduzione dell'impresa, è pertanto garantire una costante corrispondenza tra i rischi assunti ed i premi raccolti, il cui ammontare dovrà essere a sua volta ricavato dal frazionamento del costo dei sinistri omogenei tra la massa di tutti gli assicurati per sinistri del medesimo tipo. Tuttavia la gestione assicurativa (cioè l'assunzione dei rischi e il monitoraggio degli stessi) non è che uno degli snodi dell'attività assicurativa. Come già anticipato, mentre in qualunque impresa l'imprenditore sopporta i costi e poi realizza i ricavi, nel caso dell'attività assicurativa questo ciclo è invertito, in quanto l'assicuratore dapprima raccoglie i premi, e quindi comincia a pagare gli indennizzi (c.d. inversione del ciclo produttivo). Da ciò consegue che l'impresa assicuratrice, accanto alla gestione assicurativa in senso stretto, deve occuparsi di una adeguata gestione patrimoniale, finalizzata a conservare ed accrescere il capitale rappresentato dal coacervo dei premi raccolti, onde far sì che esso possa essere sempre sufficiente al pagamento degli indennizzi. L'equilibrio e la prosperità dell'impresa assicurativa dipendono tutte dal costante equilibrio e dalla stretta interrelazione tra la gestione finanziaria (investimenti, riassicurazione) e la gestione tecnica, cioè il corretto calcolo del premio rispetto agli indennizzi da pagare (Vincenzini, 8 ss.). È stato osservato, a questo riguardo, che l'impiego sistematico dei premi raccolti in attività finanziarie «consente di qualificare le imprese assicuratrici quali “intermediari finanziari”, pur se con connotazioni in parte differenti da quelle di altri investitori istituzionali. In particolare, le imprese assicuratrici svolgono una funzione finanziariamente rilevante, in quanto i premi che queste raccolgono garantiscono un'allocazione continua sul mercato finanziario di risorse a medio e lungo termine senza finalità meramente speculative, ma con evidente influenza a livello di circolazione monetaria. Emerge, quindi, un ruolo puramente ausiliario dell'aspetto finanziario rispetto alla prestazione assicurativa, per cui si tratterebbe di un'intermediazione limitata e connessa alla natura di investitore istituzionale, ciò anche nel caso dei nuovi prodotti vita dove è incontrovertibile la rilevanza del collegamento con il mercato finanziario. In definitiva, si può affermare che il processo produttivo assicurativo è un processo economico basato sulla complementarità tra gestione assicurativa in senso stretto (o gestione tecnica) e gestione patrimoniale. La gestione assicurativa genera (...) quella patrimoniale, la quale a sua volta tramite gli investimenti costituisce un elemento di garanzia per gli assicurati e uno strumento influente sul miglioramento dei prezzi assicurativi» (Adamo, 367). Nella ricerca di questa costante corrispondenza tra premi ed indennizzi, un illustre autore ha ritenuto di individuare cinque regole tecniche fondamentali, e cioè: (1) raccogliere il maggior numero di rischi possibile: non solo per avere un monte premi maggiore col quale pagare gli indennizzi, ma anche – come si accennava – per disporre di dati statistici prossimi alla certezza; (2) gestire i rischi per categorie omogenee, altrimenti sarebbe impossibile costruire qualsiasi tavola statistica; (3) fissare un limite massimo alla propria obbligazione indennitaria (massimale), in quanto la statistica consente di stabilire la frequenza del verificarsi di sinistri omogenei, ma non l'entità degli stessi. Di conseguenza, l'assicuratore non potrebbe concretamente determinare il costo complessivo dei sinistri da ripartire tra la massa degli assicurati, se non conoscesse il tetto massimo di tali indennizzi; (4) ricorrere alla riassicurazione, per tutti quei rischi per i quali non siano disponibili tavole statistiche; (5) investire i premi raccolti tenendo conto della circostanza che alcuni rischi crescono col progredire del tempo, il che impone di potere contare sulla possibilità di disinvestimenti sempre più celeri, via via che la probabilità del sinistri aumenti (Donati, 1952 13-16. Sull'economia delle assicurazioni si vedano altresì le «classiche» trattazioni di Emanuelli, Economia delle assicurazioni, in AA.VV., Trattato italiano di economia, Torino, 1967, XVI, 394; Emanuelli, Economia e finanza delle imprese di assicurazione, Roma, s.d., 50; Cassandro, Le gestioni assicuratrici, Torino, 1968, 5; Selleri, Economia delle imprese di assicurazione, Milano, 1965, 10; Di Cagno e Adamo, L'economia delle aziende di assicurazione. Amministrazione e controllo, Torino, 1994). La struttura dell'impresa assicurativa.Per attuare le regole ed i principî esaminati al § precedente, l'impresa assicurativa deve dotarsi di una struttura particolare, necessariamente di grandi dimensioni: infatti dimensioni ridotte non consentirebbero di raccogliere una adeguata massa di rischi e, quindi, di tenere basso il livello dei premi. La struttura dell'impresa assicuratrice, pur nelle inevitabili varietà dei sistemi organizzativi, presenta dei caratteri costanti. Riguardata da un punto di vista statico, essa si articola in una direzione centrale ed in organi periferici organizzati «a rete»: la rete di vendita e la rete preposta alle liquidazioni degli indennizzi. Da un punto di vista dinamico, invece, l'impresa assicurativa è caratterizzata almeno da quattro principali interna corporis dediti ad altrettante attività: (-) il settore commerciale (o rete di vendita), cui è affidato il compito di stipulare il maggior numero di contratti possibile; (-) il settore tecnico, preposto alla selezione dei rischi da assumere, al fine di scartare quelli più gravosi; alla liquidazione dei sinistri verificatisi; alla gestione dei rischi già assunti, ad es. attraverso la disdetta dei contratti colpiti da un numero anomalo di sinistri; (-) il settore amministrativo, preposto alla gestione della contabilità e del patrimonio aziendale; (-) il settore dei servizi, preposto alla gestione del personale, dell'economato e della logistica (Cardani, L'assicurazione privata 1992, 13-19). L'oggetto dell'attività d'impresa.Oltre che sul piano dei soggetti, la legge pone vari limiti all'esercizio dell'impresa assicurativa anche sul piano dell'oggetto. Questi limiti possono essere distinti in tre categorie: a) il divieto di esercitare congiuntamente l'assicurazione contro i danni e quella sulla vita; b) il divieto di svolgere operazioni diverse da quelle assicurative; c) il divieto di svolgere attività esclusivamente all'estero; d) il divieto di stipulare alcuni tipi di assicurazioni. Esaminiamoli partitamente. (A) Il divieto di esercizio congiunto dell'assicurazione danni e di quella sulla vita. All'imprenditore assicurativo è inibito l'esercizio congiunto dei rami vita e danni (art. 11 cod. ass.). La violazione di tale obbligo è punita con la sanzione amministrativa da euro 30.000 al 10% del fatturato (art. 310 cod. ass., come modificato dal d. lgs. 21 maggio 2018, n. 68, decorrenza dal 1° ottobre 2018). Tale regola subisce però alcune eccezioni. La prima eccezione è prevista per le imprese autorizzate all'esercizio del ramo vita, le quali possono esercitare anche i rami infortuni e malattia (art. 11, comma 3, cod. ass). La seconda eccezione è prevista per le imprese che erano state autorizzate all'esercizio congiunto dei rami vita e danni prima del 15 marzo 1979, a condizione che tengano una gestione separata dei due rami, per evitare che le maggiori fluttuazioni nel pagamento degli indennizzi dei rami danni possano incidere le riserve del ramo vita, le quali invece sono costituite su basi matematiche di maggiore affidabilità, e perciò soggette ad un'alea assai minore (art. 348 cod. ass.) (affermazione costante in dottrina: per tutti si vedano Saccon, 168; Lusvarghi, 75; Cassandro, 41 ).Le compagnie c.d. «multirami», cioè autorizzate all'esercizio del ramo vita e di quello danni, sono soggette a particolari vincoli, finalizzati a garantire l'effettività del principio di gestione separata, ed in particolare debbono: a) indicare nello statuto quale parte del capitale o del fondo di garanzia, del fondo di organizzazione e delle riserve è destinata all'adempimento delle obbligazioni relative a ciascuna gestione; b) tenere le scritture contabili in modo che, per ciascuna gestione, siano evidenziati i relativi risultati; c) imputare ai conti gli elementi comuni alle due gestioni secondo un criterio di ripartizione approvato dall'Ivass (art. 348 cod. ass., come sostituito dall'articolo 1, comma 197, del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 74). Ulteriori criteri e modalità di rappresentazione della gestione separata sono stati stabiliti dall'Isvap, in virtù della delega di cui all'art. 348, comma 2, cod. ass., col Regolamento 11 marzo 2008 n. 17. (B) Il divieto di svolgere operazioni diverse da quelle assicurative. L'impresa assicurativa, come non può essere amministrata da chicchessia, così non può avere ad oggetto un'attività purchessia. L'imprenditore assicurativo è soggetto all'obbligo di limitare l'attività a quella assicurativa (art. 11, comma 2, cod. ass.; il codice delle assicurazioni ha peraltro soppresso l'inciso, presente negli artt. 5 d.lgs. 174/95 e 7 d. lgs. 175/95, che precisava «con esclusione di qualsiasi altra attività commerciale», attenuando così il divieto, come si dirà tra breve). Questo divieto viene tradizionalmente giustificato con l'esigenza di evitare che il patrimonio dell'impresa, destinato al pagamento degli indennizzi, possa essere messo a rischio in operazioni commerciali non pertinenti l'esercizio dell'attività assicurativa (Volpe Putzolu, 1985, 57, nota 4; Donati, 1952, I, 277). A tale giustificazione si è tuttavia obiettato che essa prova troppo: se fosse vera, all'assicuratore resterebbe infatti vietato anche il mero investimento con finalità di conservazione del capitale. La ratio della norma è stata perciò ravvisata nell'esigenza di garantire un miglior controllo sull'impresa assicurativa da parte degli organi di vigilanza e degli assicurati (Irti, Schlesinger, Libonati, Jaeger, 833). Il divieto in esame non è senza eccezioni. Una prima eccezione consiste nella possibilità per le imprese assicuratrici di stipulare taluni contratti che, pur privi di causa assicurativa, sono dalla legge implicitamente od esplicitamente consentiti all'impresa assicuratrice: è il caso delle operazioni di capitalizzazione, delle polizze fideiussorie e dei contratti di garanzia (che, come si vedrà a suo tempo, assicurazioni non sono); ma anche dei contratti c.d. assicurativi-finanziari che – come anche in questo caso si vedrà a suo tempo – costituiscono fattispecie molto più simili agli strumenti finanziari che all'assicurazione vera e propria (art. 348 cod. ass., come modificato dall'art. 1, comma 197, del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 74 ). Appare, pertanto, di problematica applicazione pratica la distinzione operata dalla S.C., in una isolata decisione, secondo la quale sarebbero valide le polizze fideiussorie emesse da società assicuratrici, perché rientranti nell'oggetto sociale, mentre sarebbero nulle le fideiussioni emesse dalle stesse società, perché estranee all'oggetto sociale (la Corte, poi, sente il bisogno di aggiungere che l'accertamento della natura di fideiussione o polizza fideiussoria è questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice del merito (Cass. III, n. 4981/2001, in Contratti, 2001, 987, con nota di Borrello, Fideiussioni, polizze fideiussorie e attività assicurativa). Tale distinzione è problematica in quanto era stata proprio la S.C., in numerosissime decisioni precedenti, a qualificare la polizza fideiussoria come un «sottotipo» della fideiussione, o fideiussione atipica, e comunque a negare l'applicabilità ad essa delle norme sul contratto di assicurazione (Cass. n. 1709/1975, ove si afferma espressamente che l'assicurazione fideiussoria «costituisce sostanzialmente una fideiussione»; nello stesso senso, ex multis, Cass., n. 1292/1978; Cass. n. 6152/1979; Cass. n. 3443/1988; Cass. n. 6757/2001). Pertanto la distinzione tra contratto valido e contratto nullo finisce per dipendere dalle ubbìe classificatorie dell'interprete, con buona pace della certezza del diritto. Il problema ha comunque perso rilievo dopo che le Sezioni Unite hanno espressamente negato che l'assicurazione fideiussoria costituisca una forma di assicurazione, ma ammesso – sia pure implicitamente – la legittimità della loro stipulazione da parte di imprese assicuratrici (Cass. S.U. n. 21390/2009). Accanto a questi contratti non assicurativi, ma consentiti alle imprese per previsione di legge, l'art. 11, comma 4, cod. ass. consente alle imprese assicuratrici di compiere «le operazioni connesse o strumentali all'esercizio dell'attività assicurativa o riassicurativa», nonché le attività relative alla costituzione ed alla gestione delle forme di assistenza sanitaria e di previdenza integrative, nei limiti ed alle condizioni stabilite dalla legge (art. 11, comma 4, cod. ass.). Ma cosa deve intendersi per «operazioni connesse o strumentali»? Sul concetto di «operazioni connesse» all'attività assicurativa, consentita già nel sistema previgente al codice delle assicurazioni, la dottrina da tempo è divisa. Secondo un primo orientamento restrittivo, «operazioni connesse» a quelle assicurative sono unicamente quelle necessarie per lo svolgimento dell'attività assicurativa (ad es., la cessione dei rischi in riassicurazione). Tra le operazioni connesse non rientrerebbero pertanto i contratti, anche se conclusi occasionalmente, aventi ad oggetto attività estranee all'impresa di assicurazioni, come le operazioni finanziarie o industriali, la compravendita di merci o l'organizzazione di spettacoli (Donati, 1952, I, 277). A questa tesi si è obiettato che essa è troppo drastica, in particolare, per quanto attiene alle operazioni finanziarie. È infatti naturale che queste debbano ritenersi estranee all'attività assicurativa, e perciò vietate, quando perseguano finalità meramente speculative. Esse, però potrebbero essere funzionali alla gestione del portafoglio, ovvero ad una migliore allocazione delle risorse dell'impresa, per far fronte a cataclismi finanziari non previsti e non prevedibili. Ed infatti l'espressione «operazioni connesse» non equivale ad «operazioni necessarie», poiché la connessione tra l'attività assicurativa e le «altre» attività svolte dall'impresa sussisterebbe tutte le volte che l'operazione risulta legata all'industria assicurativa con un rapporto funzionale, cioè quando l'azione dell'impresa sul mercato assicurativo possa ragionevolmente trarne beneficio (Fanelli, 817). Per un diverso e più estensivo orientamento, invece, le operazioni «connesse» all'attività assicurativa, al pari di quelle ad essa «strumentali», sono tutte quelle finalizzate a favorire l'attività d'impresa (Morello, 48). In questo orientamento possono inscriversi anche quanti, pur ritenendo che le operazioni «connesse» non coincidano con quelle «strumentali», definiscono le prime come qualsiasi atto compiuto per migliorare lo svolgimento dell'attività assicurativa (Russo, 286 ).Problemi analoghi e forse maggiori si pongono per la nozione di «operazioni strumentali» all'attività assicurativa, la quale è una novità del codice che potrebbe in teoria giustificare qualsiasi operazione finanziaria – anche spericolata – asseritamente compiuta al fine di consolidare od incrementare il patrimonio sociale. Secondo la prima dottrina formatasi sul codice delle assicurazioni, le operazioni strumentali sarebbero quelle caratterizzate da natura ausiliaria o servente rispetto all'attività assicurativa vera e propria (ad es., l'internal audit o la liquidazione dei sinistri) (Maimeri, 123-124). A metà degli anni '80 l'INA acquistò una rilevante partecipazione azionaria in una piccola banca, suscitando in dottrina il dubbio della liceità di tale operazione, sotto il profilo della sua conformità al divieto di esercizio di attività diverse da quella assicurativa. L'ISVAP, ovviamente investito della questione, operò un distinguo, ritenendo che l'acquisto di partecipazioni azionarie in società bancarie, da parte dell'impresa assicuratrice, è lecito se ha funzioni di mero investimento, mentre non è consentito se, attraverso l'acquisto di un pacchetto di controllo, è finalizzato all'esercizio in modo indiretto dell'impresa bancaria. La decisione dell'ISVAP fu criticata da autorevole dottrina, la quale non ravvisò alcun ostacolo normativo all'operazione suddetta (Guarino, 827; Irti, Schlesinger, Libonati, Jaeger, 833 ).In un altro caso, che ha fornito l'occasione per uno dei rari precedenti editi su questa delicata questione, era avvenuto che un istituto bancario concedesse un finanziamento ad una società commerciale, garantito con fideiussione da una società controllante della mutuataria. La banca però, ad ulteriore garanzia del proprio credito, si faceva rilasciare una garanzia atipica (nella forma di lettera di patronage) da una società di assicurazioni, la quale a sua volta controllava la società che aveva prestato la fideiussione. In tale lettera di patronage, la società assicuratrice si impegnava: (a) a non alterare la propria partecipazione nella società che aveva prestato la fideiussione; (b) a garantire la puntuale restituzione del finanziamento, o della parte residua di esso, qualora avesse deciso di mutare la propria quota di partecipazione nella società che aveva prestato la garanzia. Il finanziamento non veniva però restituito dal debitore, sicché la banca creditrice chiedeva l'ammissione del proprio credito al passivo della liquidazione della società assicuratrice, che nel frattempo era stata posta in l.c.a.. Il commissario liquidatore rigettava tale richiesta, sul presupposto che la garanzia prestata dalla società assicuratrice in bonis era nulla, in quanto non rientrante nell'oggetto sociale. La banca, a questo punto, proponeva opposizione allo stato passivo, allegando che le garanzie rilasciate dalla società assicuratrice non potevano dirsi estranee all'oggetto sociale, perché il mantenimento delle partecipazioni in altre società commerciali era funzionale al mantenimento del valore del capitale, e perciò pertinente l'esercizio dell'impresa assicurativa. Il Tribunale investito della questione osservò che la stipula, da parte di una società di assicurazione, di un contratto autonomo di garanzia in favore di una società controllata, a garanzia della restituzione di un finanziamento da quest'ultima percepito, non si pone in contrasto con l'art. 7 d.lgs. 175/1995, poiché tale contratto, in quanto volto al mantenimento del valore del patrimonio sociale inteso in senso ampio, non viola l'obbligo delle società assicuratrici di stipulare unicamente contratti di assicurazione (Trib. Roma 22 aprile 2004, in Giur. romana, 2004); la decisione venne sostanzialmente condivisa dalle Sezioni Unite della S.C., ad avviso delle quali Il divieto imposto alle società assicuratrici di limitare il proprio oggetto sociale all'attività assicurativa ed a quelle connesse non impedisce loro di compiere singoli atti non aventi natura assicurativa, purché ciò non si traduca in una sistematica attività implicante l'assunzione di un rischio imprenditoriale indipendente ed estremo rispetto a quello tipico dell'assicuratore. Da questo principio si è tratta la conclusione che non incorre nel suddetto divieto la garanzia prestata da una società assicuratrice in favore di una società non assicuratrice controllata, in quanto atto strumentale alla conservazione del valore della partecipazione azionaria di cui la garante è titolare, e come tale volto a salvaguardare l'interesse del gruppo societario nel suo insieme (Cass. S.U. 30174/2011). Secondo la Corte di giustizia delle Comunità Europee alle società di assicurazione, pur essendo vietato svolgere attività commerciali diverse da quella assicurativa, è tuttavia consentito costituire una persona giuridica che svolga attività diverse ed ulteriori, come la vendita al pubblico: a condizione però, in quest'ultimo caso, che la società assicuratrice non destini al soggetto così costituito fondi superiori alle riserve disponibili. Ha osservato, al riguardo, la Corte di Lussemburgo che l'art. 8, n. 1, lett. b), della prima Direttiva del Consiglio 24 luglio 1973, 73/239/Cee (recante coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di accesso e di esercizio dell'assicurazione diretta diversa dall'assicurazione sulla vita. oggi abrogata e rifluita nella Direttiva 2009/138), non impedisce alle società mutualistiche esercitanti unicamente l'attività di assicurazione di creare un organismo dotato di personalità giuridica propria che svolga attività commerciali, sempreché i conferimenti effettuati dalle dette società mutualistiche a favore di siffatto organismo non eccedano l'ammontare delle riserve disponibili delle società stesse, e la responsabilità di queste ultime sia limitata ai conferimenti eseguiti (Corte giustizia Comunità europee, 21 settembre 2000, n. 109/99, in Ass. 2000, II, 2, 255 ).La stipula di contratti od il compimento di operazioni estranei all'attività assicurativa, né ad essa connessi, espone l'impresa alle sanzioni da parte dell'organo di vigilanza, ma non rende ex se nulli i contratti stipulati in violazione di tale divieto (Trib. Roma, 11 luglio 1981, in Banca, borsa tit. cred., 1982, II, 245, nonché in Giur. comm., 1982, II, 900 ).(C) Il divieto di svolgere attività esclusivamente all'estero. Accanto al divieto di svolgere operazioni non assicurative, con le eccezioni di cui si è detto, la legge pone all'imprenditore assicurativo ulteriori divieti relativi all'oggetto dell'attività. Alle società assicuratrici costituite in Italia è vietato avere per oggetto l'esercizio dell'attività assicurativa esclusivamente all'estero (art. 12, comma 2, cod. ass.;). Tale norma viene tradizionalmente giustificata con l'esigenza di evitare che l'attività di controllo sull'operato dell'impresa possa essere ostacolata dallo svolgimento extra moenia dell'attività assicurativa (La Torre, 87 ).Allo stesso modo, specularmente, le imprese aventi sede in Paesi non appartenenti alla Comunità europea non possono stipulare contratti in Italia se qui non hanno almeno una sede secondaria (art. 29, comma 1, cod. ass.. (D) Il divieto di stipulare alcuni tipi di assicurazioni. Esistono poi ulteriori divieti, riguardanti non già le forme di esercizio dell'attività, ma il tipo di contratto assicurativo. Alcuni tipi di contratti, infatti, pur avendo causa assicurativa, sono vietati dalla legge. Innanzitutto è vietata la costituzione di associazioni tontinarie o di ripartizione (art. 12 cod. ass.) (ma si ricorda che l'art. 2, comma 1, numero 2.a, della Direttiva 2002/83, prevedendo l'applicazione della Direttiva anche a tali operazioni, sembra implicitamente ammetterne la liceità per l'ordinamento comunitario)); la violazione del divieto comporta la sanzione amministrativa da 30.000 euro al 10% del fatturato (art. 310, comma 1, lettera (a), cod. ass.). È poi vietata – a pena di nullità – la stipula di contratti di assicurazione aventi ad oggetto, sotto qualsiasi forma, il rischio del sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 12, comma 1, cod. ass.; cfr. altresì l'art. 2, comma 1, d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, non abrogato dal codice, decreto recante «Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia», e convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, l. 15 marzo 1991, n. 82). Infine, il codice delle assicurazioni, all'art. 12, comma 1, prevede altresì il divieto – a pena di nullità – di stipulare contratti aventi ad oggetto il trasferimento del rischio di pagamento di sanzioni amministrative, trasformando così in precetto legislativo quanto stabilito dalla Circolare ISVAP 22 maggio 1995 n. 246 (in argomento si veda ampiamente, ma con qualche divagazione, Landini, 15). La norma appare comunque superflua, in quanto qualunque contratto di assicurazione volto a sollevare l'assicurato dal peso economico derivante dall'applicazione di una sanzione, di natura sia penale che amministrativa, sarebbe di per sé nullo ex art. 1418 c.c., per contrarietà a norme imperative. Infatti la sanzione (penale od amministrativa, pecuniaria o di altro tipo), in quanto misura afflittiva prevista dal diritto pubblico, deve sempre restare a carico dell'autore dell'illecito, altrimenti verrebbero minati i principî di personalità e di afflittività della pena, e questa perderebbe il suo carattere deterrente. L'assicurazione contro il rischio del pagamento di sanzioni non può dunque ammettersi, perché essa priverebbe inammissibilmente l'ordinamento dell'efficacia afflittiva delle sanzioni da esso irrogate. Ancora, è vietata l'assicurazione del rischio che un pubblico funzionario arrechi danni alla pubblica amministrazione nell'adempimento dei propri compiti istituzionali, se il contratto è stipulato da un ente pubblico che ne sopporti il premio (art. 3, comma 59, l. 24 dicembre 2007, n. 244). La legislazione previgente al codice delle assicurazioni vietava altresì la stipula di assicurazioni sulla vita a premio naturale (affermazione costante in dottrina: per tutti, Saccon, 168; Lusvarghi, 75; Cassandro, 41). Tale divieto era giustificato dalla dottrina osservando che nell'assicurazione sulla vita, con l'andare del tempo, il rischio (di morte o di raggiungimento di una certa età) diventa sempre più probabile, sicché l'assicurato, che al momento della stipula paga un premio molto basso, in prosieguo di tempo sarebbe costretto a sborsare premi altissimi (per questa definizione si veda già Pipia, Trattato delle assicurazioni terrestri, Roma, 1906, 582-583). L'assicurazione a premio naturale è oggi invece consentita dall'art. 32, comma 5, cod. ass. Tale norma permette l'impiego di formule tariffarie a premio naturale, purché all'assicurato sia fornita una adeguata informativa, sia prima della stipula che durante la vigenza del contratto. La stessa norma precisa che, ove l'informazione non venga debitamente fornita, il contraente o l'assicurato possono domandare la nullità del contratto, con diritto alla restituzione dei premi pagati. Sebbene l'art. 32 cod. ass. rinvii al solo comma 2 dell'art. 167 cod. ass. (il quale disciplina condizioni ed effetti dell'azione di nullità), senza comminare espressamente alcuna sanzione di nullità per l'ipotesi di omessa informazione sul fatto che oggetto della stipula è un'assicurazione a premio naturale, in via interpretativa si può superare tale ostacolo, sul presupposto che la previsione di una azione di nullità in favore dell'assicurato comporta implicitamente il riconoscimento di una causa di nullità a fondamento dell'azione. Resta il fatto che la tecnica di redazione della norma è quanto meno imperfetta. Il contratto concluso da impresa non autorizzata.L'art. 167, comma 1, cod. ass. prevede la nullità del contratto stipulato con un'impresa non autorizzata, o con un'impresa alla quale sia stata vietata l'assunzione di nuovi affari. In tal caso la nullità può essere fatta valere solo dal contraente o dall'assicurato (art. 167, comma 2, cod. ass.). La pronuncia di nullità ha un'efficacia retroattiva unilaterale, in quanto mentre per effetto di essa l'assicuratore è tenuto alla restituzione dei premi pagati, l'assicurato non è tenuto alla restituzione degli indennizzi già percepiti, mentre può pretendere il pagamento di quelli dovuti per sinistri verificatisi prima della declaratoria di nullità. Quella proposta nel testo che precede, mi sembra l'unica interpretazione plausibile del testo dell'art. 167, comma 2, cod. ass., là dove afferma che «non sono ripetibili gli indennizzi e le somme eventualmente corrisposte o dovute dall'impresa agli assicurati». Se infatti le somme sono ancora dovute, è evidente che esse non sono ripetibili, giacché non si può pretendere la restituzione di quel che ancora si deve pagare. Pertanto la norma può acquistare un senso solo se la si intenda nel senso che le somme dovute a termini di contratto, ma non ancora pagate, possono essere pretese dall'assicurato anche se successivamente al sorgere del diritto al pagamento il contratto sia stato dichiarato nullo. 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