Imposta di registro: lo «stato dell'arte» in tema di (ri)qualificazione degli atti

10 Ottobre 2018

L'imposta di registro è oggetto di vivace interesse della giurisprudenza di legittimità, impegnata nell'esegesi del travagliato art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, frattanto novellato in senso restrittivo dalla Legge di Bilancio 2018.L'articolo propone un rapido excursus delle ultime pronunce della Sezione tributaria della Cassazione in tema di (ri)qualificazione degli atti negoziali portati a registrazione.
L'evoluzione del tributo: da tassa ad imposta

Ai sensi del Testo Unico del Registro (T.U.R.) – approvato con il d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 – l'imposta di registro colpisce gli atti scritti di qualsiasi natura (negoziale, amministrativa, giudiziaria), produttivi di effetti giuridici, nonché alcuni atti stipulati verbalmente che vanno sottoposti a registrazione nei casi e con i criteri stabiliti dalla legge.

La prestazione patrimoniale di registro inizialmente è stata concepita come dovuta a titolo di corrispettivo per i servizi di registrazione degli atti, il che le conferiva natura di tassa, avente ad oggetto l'atto inteso nella sua consistenza documentale. Successivamente ha assunto il regime di imposta indiretta applicata sui trasferimenti di ricchezza, in quanto espressione della manifestazione di capacità contributiva correlabile ad una ben dimostrata forza economica.

Più precisamente il tributo si atteggia:

  • come tassa, quando è dovuto in misura fissa, in tal caso trovando come presupposto e giustificazione la prestazione di un servizio, cioè la registrazione (e conservazione) di un atto;
  • come imposta, quando è rapportato, in misura proporzionale, al valore dell'atto registrato (contratto, sentenza, ecc.) a contenuto economico, assunto dal legislatore come indice di capacità contributiva.

Quest'evoluzione storico-normativa è alla base delle ultime pronunce di legittimità in materia che – come vedremo – per individuare la corretta tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, danno preminenza al criterio di cui all'art. 53 Cost. ed al principio di ragionevolezza, valorizzando il collegamento impositivo all'atto come negozio (e, quindi, ai suoi effetti giuridici prodotti) e non all'atto come documento (così v. già Cass. civ., sez. trib., 14 febbraio 2014, n. 3481).

L'art. 20 del T.U.R.: vecchia e nuova formulazione

La norma che ha dato origine al travaglio applicativo è l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, che detta i criteri di (ri)qualificazione, da parte dell'Ufficio, degli atti portati a registrazione cui si correla l'esercizio della potestà impositiva.

Questo il dettato originario: «l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».

In esito alla novella di cui all'art. 1, comma 87, lett. a), della L. n. 205/2017 (Legge di bilancio 2018), l'attuale versione dell'art. 20 del T.U.R. prevede, in direzione opposta: «l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».

Al di là della coeva introduzione dell'art. 53-bis in seno al T.U.R. – che ora “recupera” l'abuso del diritto anche nel campo dell'imposta di registro – la novella, per quel che qui interessa, è la chiara “reazione” legislativa ai numerosi contenziosi fiscali in materia di registro ed alle operate riqualificazioni da parte dell'Amministrazione finanziaria in chiave “antielusiva”, intendendosi una volta per tutte eliminare «i dubbi interpretativi sorti in merito alla portata applicativa dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986» (cfr. relazione illustrativa al DdL n. 2960/2017).

Le due “anime” dell'art. 20 del T.U.R.

Una prima interpretazione – sposata dall'Amministrazione finanziaria e da gran parte della giurisprudenza di legittimità, più risalente – identificava il cit. art. 20 come disposizione generale antielusiva (o antiabuso), con conseguente applicazione dell'imposta di registro sulla base della causa concreta del contratto, del reale significato pratico dell'operazione e degli effetti finali raggiunti, imponendosi la tassazione anche sulla base di elementi extratestuali e collegamenti negoziali, sicché il contribuente era tenuto a dimostrare la sussistenza delle “valide ragioni economiche” che giustificassero l'operazione, per come strutturata attraverso uno o più negozi collegati portati a registrazione.

Una seconda linea esegetica, minoritaria (capeggiata da Cass. civ., sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319; v. anche id., 10 maggio 2012, n. 67; Id., 10 febbraio 2010, n. 26) valorizzava invece l'art. 20 in termini di norma interpretativa degli effetti giuridici degli atti presentati a registrazione, la cui intrinseca natura, al di là della «forma apparente» utilizzata, diveniva parametro per la tassazione del registro.

Spesso, peraltro, sotto l'apparente adesione a quest'ultimo indirizzo giurisprudenziale (e quindi sotto il formale ripudio della tesi “antiabuso”), la stessa Cassazione, pur senza ricorrere all'abuso del diritto, di fatto avallava discutibili riqualificazioni operate dall'Amministrazione finanziaria in termini di “cessioni di azienda” in caso di presentazione a registro di distinti atti di “conferimento di azienda” seguiti da “cessione di partecipazione”: operazioni, a rigore, aventi effetti giuridici profondamente diversi, avuto riguardo alla confusione dei patrimoni, alla responsabilità dell'acquirente ed all'imputazione del reddito prodotto (v. ad es. Cass. civ., sez. trib., 11 maggio 2016, n. 9578; id., 11 maggio 2016, n. 9582; v. altresì id., 4 febbraio 2015, n. 1955).

Il diritto vivente: l'intrinseco degli atti e gli effetti giuridici

Così riassunte, per sommi capi, le due interpretative, secondo il diritto vivente espresso negli ultimi anni dalla Sezione tributaria della Cassazione, l'art. 20 del T.U.R. – già nella formulazione anteriore alla L. n. 205/2017 – va interpretato nel senso che l'Ufficio, nell'attività di qualificazione giuridica degli atti negoziali portati a registrazione, deve dare preminenza al loro intrinseco, cioè all'operazione economica oggettivamente realizzata ed agli effetti giuridici prodotti dalla regolamentazione degli interessi perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro ma collegate, avuto riguardo alla complessiva valutazione della causa unitaria (ex multis: Cass. civ., sez. trib., 30 maggio 2018, n. 13610; id., 28 febbraio 2018, n. 4589; id., 28 dicembre 2017, n. 31069; id., 4 febbraio 2015, n. 1955).

Ma al di là di tali enunciati – per il vero ricorrenti trasversalmente nella giurisprudenza di legittimità in subiecta materia – giova segnalare l'espresso ripudio della natura “antiabuso” dell'art. 20 del T.U.R. contenuto nelle sentenze che, nell'ultimo triennio, hanno scrutinato la disposizione in disamina, vecchia versione, laddove concludono per l'irrilevanza dell'intento elusivo che può esserci ma non deve necessariamente esserci, non essendo la fattispecie de qua orientata al recupero di imposte “eluse”.

Secondo gli “Ermellini” di Piazza Cavour, è semmai la clausola generale dell' “abuso del diritto”, frattanto disciplinata dall'art. 10-bis L. n. 212/2000, introdotto dal D.Lgs n. 125/2015 – a presupporre una mancanza di giustificazione economica dell'operazione diversa da quella del risparmio di imposta, mentre ai fini del registro non si esige alcuna valutazione circa l'esistenza o meno di valide ragioni giustificatrici l'operazione medesima (Cass., sez. trib., 9 marzo 2018, n. 5748; Id., 12 maggio 2017, n. 11873).

Peraltro – scandiscono ancora i Supremi giudici – la fattispecie regolata dall'art. 20 del T.U.R. neppure ha a che fare con la figura civilistica della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché ciò che conta a fini impositivi sono gli effetti oggettivamente prodottisi (ex multis: Cass. civ., sez. trib., 28 marzo 2018, n. 7637; id., 21 aprile 2016, n. 9582; id., 21 settembre 2016, n. 18454; id., 3 ottobre 2016, n. 2050/17; id. 10 marzo 2017, n. 11873).

I poteri dell'Amministrazione finanziaria

In sintesi, ai fini del registro, non serve accertare cosa le parti hanno scritto, ma cosa le stesse hanno concretamente realizzato con il regolamento negoziale, il cui contenuto economico è indice di capacità contributiva (Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2018, n. 5748).

A questa stregua, guardando correlativamente all'esercizio della potestà impositiva da parte dell'Amministrazione finanziaria, risultano (o dovrebbero risultare) prive di rilievo – in sede di accertamento ovvero di contenzioso – le questioni concernenti la sussistenza o meno di intenti elusivi o simulatori in capo ai contraenti.

Secondo un recente ma isolato approdo giurisprudenziale, l'attività riqualificatoria dell'Ufficio, pur potendo disattendere la forma giuridica scelta dalle parti, non poteva travalicarne lo schema negoziale, a meno che l'ente impositore non fosse in grado di provare un disegno elusivo del contribuente e le modalità di alterazione o manipolazione degli schemi negoziali classici (Cass. civ., sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2054: fattispecie relativa a cessione dell'intera partecipazione societaria, giuridicamente diversa dalla cessione di azienda).

Tale pronuncia appare ora superata – e comunque è consapevolmente disattesa – dagli ultimi arresti giurisprudenziali (Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2018, n. 5748, cit.; id., 12 maggio 2017, n. 11873) che, in coerenza col negato rilievo all'intento elusivo, escludono che incomba sul Fisco l'onere di provare l'(in)esistenza di valide ragioni giustificatrici l'operazione negoziale portata a registrazione.

In conclusione: c'è ancora spazio per la causa concreta?

In conclusione l'art. 20 del T.U.R., vecchia e nuova versione, costituisce (semplicemente) uno strumento di qualificazione giuridica, a fini impositivi, dell'atto portato a registrazione e non può (più) essere piegato a strumento di contrasto di eventuali operazioni elusive o abusive indebitamente perseguite dalle parti, rispetto alle quali l'ordinamento tributario conosce altri istituti e, soprattutto, assicura altre garanzie al contribuente (quali il contraddittorio endo-procedimentale previsto per l'utilizzazione delle disposizioni antielusive ex art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, oggi art. 10 bis L. n. 212/2000, applicabile anche in tema di imposta di registro ex art. 53 bis del T.U.R. in relazione al collegamento negoziale).

Del resto la stessa lettera dell'art. 20 T.U.R., per individuare la tassazione da riservare al singolo atto portato a registrazione, si appunta, nel previgente testo come in quello vigente, sulla sua «intrinseca natura», cioè sul reale dato giuridico e non su quello economico, come pure sugli «effetti giuridici» prodottisi e non su quelli economici.

L'orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente della Cassazione sembra essersi assestato nel senso dell'abiura di ogni velleità antielusiva dell'art. 20 del T.U.R., ma l'impressione è che il travaglio interpretativo che ne ha contraddistinto l'applicazione in questi anni (si pensi, per tutte, alla discussa riqualificazione dello share deal in asset deal) non sia destinato ad assorbirsi. Nell'attesa che le ricadute operative della novella – in vigore dal 1° gennaio 2018 – vadano a regime, l'analisi qualificatoria ex art. 20T.U.R., vecchio testo, dovrebbe prescindere dall'osservazione della sostanza economica del comportamento del contribuente o, detto in altri termini, dalla causa concreta dell'operazione: nozione assai insidiosa, anche civilisticamente, perché considerata il “grimaldello” per superare il principio della tendenziale insindacabilità dell'equilibrio economico del contratto (così V. Roppo, Causa concreta: una storia di successo?, in Riv. dir. civ., 2013).

Eppure i riferimenti alla causa concreta campeggiano ancora nelle motivazioni di molte pronunce di legittimità, ai fini dell'applicazione dell'imposta d'atto sulla base del risultato ultimo conseguito dalle parti (Cass., sez. trib., 28 marzo 2018, n. 7637; Id., 28 febbraio 2018, n. 4589; Id., 10 gennaio 2018, n. 1011; Id., 21 novembre 2017, n. 2248/18; Id., 15 marzo 2017, n. 6758). Retaggio di un filone giurisprudenziale che solo in superficie pare rinnegato.

Nel frattempo, dalla Cassazione giungono le prime pronunce che, sia pure incidentalmente (i contenziosi giudiziari concernono il precedente testo dell'art. 20, e così sarà per svariati anni ancora), affermano l'irretroattività delle modifiche apportate all'art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ad opera della L. n. 205/2017, negandone la natura interpretativa «poiché, da un lato, introduce limiti all'attività di riqualificazione giuridica della fattispecie precedentemente non previsti e, da un altro, non sussisteva sulla portata della disposizione un contrasto giurisprudenziale, sicché la nuova disciplina trova applicazione soltanto per gli atti stipulati successivamente alla data in vigore della stessa, ovvero al 1° gennaio 2018» (Cass., sez. trib., 23 febbraio 2018, n. 4407; Id., 28 febbraio 2018, n. 4589; Id., 26 gennaio 2018, n. 2007).

Un esito che suscita perplessità nei primi commentatori, critici, tra l'altro, per la predicata natura innovativa della novella, la quale, invece, avrebbe assolto alla tipica funzione di ristabilire ex lege l'interpretazione attribuita originariamente dalla norma (I. Pellecchia - M.M. Letizia, Irretroattive le modifiche all'art. 20 del Testo Unico del registro, in Riv. giur. trib., 2018, 399).

Insomma, l'epopea sull'art. 20 T.U.R. continua…

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