Il delicato equilibrio tra diritto di critica del lavoratore e la violazione dei doveri di correttezza e buona fede

Marta Filippi
10 Ottobre 2018

Il diritto di espressione e più nello specifico il genus del diritto di critica nei luoghi di lavoro, sono riconosciuti come diritti fondamentali dell'uomo a livello comunitario dall'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed a livello nazionale dall'art. 21, Cost.Proprio per l'importanza che il riconoscimento e l'affermazione di tali diritti costituiscono, la Corte europea dei diritti dell'uomo ne ha fornito un'interpretazione estensiva e liberale sostenendo come la libertà di espressione vada riconosciuta non soltanto in relazione alle idee considerate come inoffensive ed indifferenti ad un dato fatto, comportamento o pensiero, ma anche a quelle che comportano uno sconvolgimento o un disturbo in relazione al vivere comune...
Il diritto di espressione e di critica nei luoghi di lavoro

Il diritto di espressione e più nello specifico il genus del diritto di critica nei luoghi di lavoro, sono riconosciuti come diritti fondamentali dell'uomo a livello comunitario dall'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed a livello nazionale dall'art. 21, Cost.

Proprio per l'importanza che il riconoscimento e l'affermazione di tali diritti costituiscono, la Corte europea dei diritti dell'Uomo ne ha fornito un'interpretazione estensiva e liberale sostenendo come la libertà di espressione vada riconosciuta non soltanto in relazione alle idee considerate come inoffensive ed indifferenti ad un dato fatto, comportamento o pensiero, ma anche a quelle che comportano uno sconvolgimento o un disturbo in relazione al vivere comune. Una conclusione questa imposta dai principi del pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura, che si pongono come pilastri basilari di società che si voglia definire democratica.

All'interno dell'ordinamento nazionale un ruolo di garanzia generale è svolto dall'art. 21, Cost., mentre, più nel dettaglio, la tutela della libertà di espressione e critica nei luoghi di lavoro oltre che dalla norma di rango primario è statuita dall'art. 1, l. n. 300 del 1970.

Tale disposizione riconosce, infatti, in favore dei lavoratori il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero senza distinzione di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa, purché nel rispetto dei limiti della Costituzione oltre che delle disposizioni successive contenute nello Statuto dei lavoratori.

Oggetto della norma è la libertà di espressione sia in senso positivo che in senso negativo, comportando l'obbligo in capo al datore di lavoro, da un lato, di rispettare e non contrastare il pensiero del lavoratore e dall'altro di astenersi dal porre in essere indagini sulle opinioni dei lavoratori, principio espresso dall'art. 8, oltre che dal richiedere la manifestazione del pensiero ai propri dipendenti.

Inoltre seppur la norma non faccia riferimento direttamente ai mezzi di diffusione del pensiero nei luoghi di lavoro, posta la tutela costituzionale, non si possono riconoscere limitazioni in tal senso.

Sempre relativamente all'oggetto di tutela della norma occorre specificare come parte della giurisprudenza ritenga che la libertà di manifestazione del pensiero non debba considerarsi limitata alle categorie espresse nella norma in commento dovendosi, invece, espandere l'area alla copertura operata dall'art. 21, Cost.

I soggetti destinatari della norma sono poi da considerarsi tutti i lavoratori i quali, seppur singolarmente tutelati dalla disposizione in commento, posso comunque esprimere il pensiero in forma collettiva purché essa non travalichi nell'attivismo che sebbene tutelato ai fini sindacali, non lo è ad altri fini quali quello politico o religioso.

Venendo agli effetti prodotti dalla norma nell'ambito del rapporto di lavoro, l'art. 1, st. lav., pur non disciplinando o predisponendo uno specifico sistema di tutele giudiziarie, comporta, tuttavia, l'illiceità/illegittimità dei provvedimenti assunti dal datore di lavoro che siano volti alla limitazione o sanzione del diritto di espressione riconosciuto al lavoratore.

Dette conclusioni sono supportate da un consolidato orientamento della giurisprudenza che ritiene appunto illegittimi il licenziamento o la sanzione disciplinare inflitte al dipendente in ragione della critica operata al proprio datore di lavoro (cfr. Cass., sez. lav., 5 luglio 2002, n. 9743).

Venendo al genus diritto di critica esso rientra sicuramente nel più ampio diritto di manifestazione del pensiero e si esplicita, a differenza del diritto di cronaca, in una valutazione necessariamente personale di un evento e pertanto non può non concretizzarsi in un giudizio di valore o nella manifestazione di un pensiero soggettivo.

Ovviamente l'esercizio di ogni diritto comporta l'obbligo di non lesione dei diritti altrui per cui anche in relazione al diritto di critica dottrina e giurisprudenza hanno elaborato quelli che sono considerati i diversi limiti superati i quali l'esercizio della critica smette di essere tutelato configurando fattispecie disciplinarmente o penalmente rilevanti.

I limiti al diritto di critica: la continenza formale e sostanziale

Dottrina e giurisprudenza al fine di garantire un giusto equilibrio tra diritti concorrenti, nel caso dell'ambito lavorativo diritto di critica e rispetto dell'onorabilità e del decoro datoriale, hanno individuato nel corso degli anni quale limite all'espressione critica del lavoratore il rispetto della continenza sostanziale e formale.

In particolare sopratutto il limite del rispetto della continenza sostanziale, ovvero intesa quale veridicità dei fatti esposti, è stata mutuata dalla giurisprudenza formatasi in materia di diritto di cronaca. Tuttavia si è già visto come il diritto di critica rispetto a quest'ultimo si specifichi proprio per il fatto di tradursi in una valutazione, positiva o negativa, dell'operato, del detto o pensiero altrui andando oltre la semplice narrazione del fatto. Per tale motivo la verifica della verità oggettiva, secondo una parte della dottrina, dovrebbe essere mitigata con quello della verità putativa, ovvero la seria credibilità dei fatti denunciati. Su tale scia, un'ulteriore corrente dottrinale tende ad una valorizzazione della buona fede del lavoratore che espone i fatti in base ad una ragionevole e giustificata rappresentazione della realtà.

Il secondo limite imposto alla critica è quello del rispetto della continenza formale rappresentata dall'uso di un linguaggio tale da rispettare formule linguistiche corrette senza cadere nell'esagerazione o nella volgarità.

Ebbene, la giurisprudenza maggioritaria formatasi in materia ha sposato proprio tale orientamento ritenendo legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore laddove lo stesso si esprima nei confronti del proprio datore di lavoro o superiore gerarchico superando i limiti della continenza formale e sostanziale.

Tuttavia, un'altra corrente interpretativa ritiene che in materia di bilanciamento tra diritti di rilevanza costituzionale, debba essere attenuato il giudizio circa il rispetto della continenza formale sostenendo come sia implicito nella critica l'uso di espressioni colorite o sgradevoli oltre a toni particolarmente aggressivi (cfr. Cass., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220). Infine, ancora un ulteriore orientamento, seppur minoritario, sostiene come nella valutazione della continenza formale occorra valutare le espressioni utilizzate dal lavoratore anche in relazione al comune modo di esprimersi oltre che al normale costume civile (cfr. Cass., sez. V, 12 luglio 2007, n. 27339 e Cass., sez. lav., ord. 18 luglio 2018, n. 19092).

La violazione dei diritti di fedeltà, diligenza, correttezza e buona fede: critica datoriale e licenziamento

Si è visto che la giurisprudenza tende a circoscrivere il diritto di critica entro il rispetto dei limiti della continenza sostanziale e formale. Ciò detto, occorre osservare come il diritto di critica all'interno dei luoghi di lavoro trovi rispetto al suo esercizio una sua specifica valutazione per via del fatto che il lavoratore subordinato viene inserito nell'organizzazione datoriale ed è tenuto al rispetto di determinati obblighi contrattuali.

Il primo tipo di obbligo che ricade sul lavoratore è rappresentato dallo svolgimento dell'attività lavorativa pertanto vige il divieto dell'interruzione della stessa volta a manifestare la critica quando si arrechi un pregiudizio al normale svolgimento dell'attività produttiva.

Il lavoratore è inoltre vincolato al rispetto dell'obbligo all'osservanza degli obblighi di diligenza correttezza, buona fede e fedeltà sanciti dagli artt. 2014 e 2105, c.c.

Pertanto nel bilanciamento di interessi tra tutela della reputazione ed onorabilità datoriale ed esercizio del diritto di critica la giurisprudenza ritiene che sia legittimamente configurabile il recesso datoriale, anche per giusta causa, laddove superando i limiti della continenza il lavoratore contestatore cada nella violazione dell'obbligo di fedeltà inteso in senso lato quale obbligo di correttezza e buona fede. Come noto infatti l'art. 2105, c.c., in tema di obbligo di fedeltà, ha assunto nel corso degli anni un contenuto più ampio dovendosi leggere in combinato disposto con gli artt. 1175, c.c. e 1375, c.c., che impongono al lavoratore correttezza e buona fede, sollevandolo dal porre in essere ogni attività che crei situazioni di conflitto con le finalità societarie o idonee a ledere il vincolo fiduciario tra le parti.

Appare ragionevole come la lesione dell'immagine datoriale e/o l'aver arrecato un danno alla sua onorabilità comportino il venir meno di quella fiducia su cui si basa il contratto di lavoro giustificando l'irrogazione della massima sanzione disciplinare costituita dal licenziamento.

In relazione a ciò ad incidere sulla legittimità della sanzione espulsiva opera quale parametro essenziale anche la posizione del lavoratore all'interno della gerarchia aziendale. È evidente, infatti, che, quanto più si rivesta una qualifica elevata, quale ad esempio quella dirigenziale, tanto più limitati siano glia spazzi di dissenso, essendo maggiore il rapporto di fiducia che vincola le parti.

L'esercizio della critica datoriale tramite social network

L'attuale società è sempre più improntata all'uso dei social netwok, Facebook, e mail e chat, quali strumenti di comunicazione e manifestazione del proprio pensiero, tra cui anche quello rivolto all'operato aziendale. Per tale motivo, nell'ultimo periodo ha assunto importanza fondamentale il corretto utilizzo degli stessi anche ai fini della loro incidenza sul rapporto di lavoro.

Il lavoratore, infatti, che esprime le sue idee con contestuale critica delle decisioni datoriale su un social network non sembra essere esonerato dal rispetto dei limiti fin qui descritti.

Anzi, la manifestazione del pensiero tramite le rete di comunicazione on line amplificano la conoscibilità della notizia e pertanto la necessità di tenere un comportamento non lesivo degli obblighi di correttezza e fedeltà ne risulta acuita.

La giurisprudenza più recente si è infatti più volte espressa nel senso di ritenere lesiva del decoro datoriale la pubblicazione di frasi sui social network che, superati i limiti della continenza, sfocino in comportamenti disciplinarmente sanzionabili e pertanto idonei a travalicare i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica.

Recentemente alcune sentenze di merito hanno distinto tra chat private, e pertanto limiate solamente ad alcuni lavoratori, e profilo pubblico del dipendente paragonando le prime alla stregua di un luogo digitale di dibattito, che essendo chiuso all'esterno ed utilizzabile solo dai membri ammessi va inteso quale luogo di espressione del diritto alla libertà e segretezza di corrispondenza.

Di segno opposto invece il filone giurisprudenziale che non operando tale distinzione considera le reti di comunicazioni on line dei luoghi pubblici. Secondo tale orientamento la privatizzazione del proprio profilo social, con limitazione degli utenti autorizzati al suo accesso, non scrimina dalla violazione dell'art. 2105, c.c., laddove vengano pubblicate frasi che superino i limiti tradizionali della continenza sostanziale e formale.

Infine, si sottolinea come l'utilizzo dei social network, quale luogo di espressione del dissenso nei confronti del datore di lavoro, comporti per il lavoratore un'aggravante nel compimento dell'illecito danno all'immagine datoriale posta la numerosa platea di soggetti che potenzialmente possono venire a conoscenza del messaggio pubblicato, dal momento che le reti on line permettono la condivisione illimitata del post ed un indiscriminato accesso alle stesse. Del resto, la stessa giurisprudenza è concorde nel ritenere anche il mezzo di diffusione usato ed il possibile maggior danno causato dalla quantità di soggetti coinvolti dall'espressione di dissenso limiti al legittimo esercizio del diritto di critica del lavoratore. (cfr. Corte d'appello Roma, 6 febbraio 2007, in Lav. giur., 2008, n. 10, 983 ss.).

Bibliografia

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- Amoroso G., Di Cerbo V, Maresca A., Diritto del lavoro, Vol. II, Milano, Giuffrè Editore, 4 ss.;

- Bonardi V., L'obbligo di fedeltà e il patto di non concorrenza, in Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, in Comm. diretto da Carinci, Milano, 2007, II, 1, 743;

- Cottone M., Social Network: limiti alla libertà d'espressione e riflessi sul rapporto di lavoro (il “Like”), in Lav. giur., 4/2017;

- De Luca A., Diritto di critica del lavoratore, in Lav. giur., 10/2008;

- Fontana F., Diritto di critica del lavoratore e licenziamento per giusta causa, in ADL, 2/2017;

- Inglese I., Il diritto di critica nei luoghi di lavoro, Milano, Giuffrè Editore, 2014, 35 ss.;

- Tardivo D., Libertà di espressione nel rapporto di lavoro: diritto di critica e di replica del lavoratore, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 9/2017.

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