Il Codice concorsuale in dirittura d’arrivo con le ultime modifiche ministeriali al testo della Commissione Rordorf (I)

Filippo Lamanna
17 Ottobre 2018

A pochi mesi dall'insediamento del nuovo Governo, l'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia ha completato non solo l'attività di correzione formale (con le consuete tecniche di drafting normativo) delle bozze dei due decreti attuativi della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 sulla riforma concorsuale consegnategli dalla Commissione Rordorf (e corredate peraltro anche dalle bozze di disposizioni di attuazione e da una tabella sui nuovi tribunali concorsuali), ma vi ha anche apportato non irrilevanti modifiche sostanziali, trasmettendo poi un decreto unificato di 390 articoli (comprendente cioè tutti i testi anteriori, resi oggetto di separate “Parti” dell'unico testo finale) agli altri Ministeri concertanti, con la relazione illustrativa accompagnatoria contenente anche un commento analitico delle singole norme.
L'attuale stato dell'iter attuativo

A pochi mesi dall'insediamento del nuovo Governo, l'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia ha completato non solo l'attività di correzione formale (con le consuete tecniche di drafting normativo) delle bozze dei due decreti attuativi della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 sulla riforma concorsuale consegnategli dalla Commissione Rordorf (e corredate peraltro anche dalle bozze di disposizioni di attuazione e da una tabella sui nuovi tribunali concorsuali), ma vi ha anche apportato non irrilevanti modifiche sostanziali, trasmettendo poi un decreto unificato di 390 articoli (comprendente cioè tutti i testi anteriori, resi oggetto di separate “Parti” dell'unico testo finale) agli altri Ministeri concertanti, con la relazione illustrativa accompagnatoria contenente anche un commento analitico delle singole norme.

Non è dato sapere, in questo momento, se prima che l'iter si concluda verranno apportate altre modifiche, e quali.

È ragionevole ipotizzare però che, anche se ve ne fossero, non potrebbero che essere di limitata portata e di conseguenza non potrebbero incidere significativamente sul testo attuale.

È opportuno allora, alla luce di tale ragionevole previsione, dar corso già da subito ad una sia pur sommaria disamina del decreto legislativo nella versione ministeriale, disamina tuttavia limitata solo alle ultime modifiche e novità, mentre il commento generale al codice, quanto alle norme finora non modificate (di cui deve intendersi già conosciuto il contenuto, anche se non ancora definitivo), e a quelle oggetto di eventuali successive rettifiche, va necessariamente rinviato al momento in cui ne sia stata disposta la conclusiva pubblicazione e sia perciò noto con assoluta certezza il contenuto dell'articolato finale. L'esame delle sole novità naturalmente ha carattere comparativo, proprio perché non prende in considerazione, per differenza, le norme rimaste immutate rispetto al testo consegnato dalla Commissione Rordorf.

Il testo del decreto nella versione ministeriale risulta dunque diviso in 4 Parti.

La Prima, di gran lunga più ponderosa (artt. 1-373), contiene il vero e proprio “Codice della crisi e dell'insolvenza”.

La seconda Parte (artt. 374-383) contiene le “modifiche al codice civile”.

La terza Parte (artt. 384-387) introduce le “garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire”.

La quarta ed ultima (artt. 388-390), contiene le “disposizioni finali e transitorie”.

Possiamo cominciare l'esame delle modifiche apportate dall'Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia al testo della Commissione Rordorf seguendo, in linea di massima, l'ordine dell'articolato, ma con la preliminare avvertenza che non verranno considerate in questa sede le modifiche di mera forma, quelle cioè che non spiegano riflessi significativi di carattere sostanziale rispetto al testo anteriore.

Le modifiche riguardanti le definizioni

Il testo licenziato dalla Commissione aveva già abbondantemente asciugato, in progresso di tempo, nel corso dei lavori, l'art. 2 del Codice,che elenca, secondo un criterio tipico della legislazione di fonte europea, le definizioni riguardanti concetti ed istituti oggetto di successiva specifica disciplina.

Quella di effettuare tale elencazione (ma) in misura “ridotta” è stata una soluzione compromissoria, tenuto conto che per molti componenti della Commissione la scelta di enucleare definizioni generali in limine di Codice non era affatto giustificata, mancando quell'utilità che esse possono esplicare nei testi legislativi europei, in quanto destinati ad essere applicati in molteplici Stati che presentano un'accentuata diversità di tradizioni normative e culturali, sì che per tale motivo ricorre in quel caso la necessità di fornire in via preliminare le chiavi per un'accezione univoca dei concetti e degli istituti oggetto di normazione. Si era pertanto convenuto di porre le definizioni, ma senza eccedere nel relativo numero.

L'Ufficio legislativo ha ulteriormente asciugato la norma generale sulle definizioni espungendo le definizioni di “liquidazione giudiziale”, “liquidazione controllata del sovraindebitato”, “crediti postergati”, “contratti pendenti”, “prova di convenienza”, “comunicazione tramite PEC o PEC-ID”.

In effetti si trattava di definizioni sovrabbondanti, non solo considerata la immediata percepibilità del senso degli istituti regolati, ma anche tenuto conto che la disciplina specifica ad esse riferibile era ulteriormente ripetitiva, in ultima analisi, proprio delle definizioni stesse.

Più correttamente, invece, la nuova formulazione normativa, distinguendosi dal testo pregresso:

  • riproduce alla lettera la definizione di “insolvenza” (in tal modo “ribadendo … la nozione già sufficientemente collaudata da molti decenni di esperienza giurisdizionale”, come spiega la Relazione accompagnatoria), accogliendo il suggerimento finalizzato ad evitare soprattutto gli eventuali problemi processuali connessi all'interruzione di continuità delle fattispecie criminose [su tale aspetto mi sia consentito il rinvio a F.Lamanna, La riforma concorsuale in progress: dalla legge delega alla sua (rapida) attuazione, in questo portale, 23 Ottobre 2017];
  • amplia e precisa la nozione di “sovraindebitamento”, quale stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell'imprenditore minore e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale; sono ora legittimati ad accedere alle procedure riservate a chi versa in situazione di sovraindebitamento anche l'imprenditore agricolo e le start–up innovative di cui al decreto legge n.179 del 18 ottobre 2012 nonchè ogni altro debitore non soltanto non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, ma anche alla liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza; a questo proposito non deve peraltro sfuggire che, nel considerare assoggettabile tout court alle procedure relative al sovraindebitamento l'imprenditore agricolo, questi sfuggirà per definizione alla liquidazione giudiziale (ossia alla procedura che prima si chiamava fallimento), innovazione certo di non poco conto rispetto al testo anteriore;
  • semplifica la nozione di “domicilio digitale”;
  • esclude dai compiti demandati agli OCC (organismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento) quelli di gestione della fase di allerta (ora esclusivo appannaggio dell'OCRI – ossia degli organismi di composizione della crisi d'impresa costituiti presso ciascuna camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura).
Le modifiche riguardanti i doveri

Merita condivisione la scelta di espungere dal testo finale alcuni altri enunciati sovrabbondanti di carattere definitorio sparsi in altre norme (come quelli concernenti le “finalità” delle procedure indicate nel vecchio art. 3 del testo Rordorf) e di eliminare altresì alcuni improbabili gravami prima accollati sub specie di doveri comportamentali – per ragioni meramente declamatorie tipiche delle norme “manifesto” -, al debitore (cfr. il vecchio art. 4), alle parti (cfr. il vecchio art. 5), ai professionisti (cfr. il vecchio art.6), agli organi amministrativi e giudiziari (cfr. il vecchio art. 7).

Le modifiche riguardanti i costi delle procedure

Più discutibile appare invece la scelta di eliminare la norma (cfr. il vecchio art. 8) che disciplinava il tetto massimo dei costi professionali e di consulenza.

Essa, infatti, aveva dato sostanza effettiva alla previsione della legge delega (art. 2, primo comma, lettera l) che chiedeva al Governo in sede attuativa di ridurre anche i costi delle procedure concorsuali, attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione, di contenimento delle ipotesi di prededuzione, con riguardo altresì ai compensi dei professionisti.

Non è irragionevole ipotizzare che su tale aspetto possa esservi stata qualche finale e assai forte pressione corporativa.

Le modifiche riguardanti il patrocinio obbligatorio

Discutibile è anche il ribaltamento della regola (cfr. il vecchio art. 12) sulla non necessità di patrocinio del difensore. Mentre prima esso era considerato obbligatorio solo nei casi espressamente previsti, al di fuori dei quali la parte avrebbe potuto stare in giudizio personalmente, ora – tutt'all'opposto – è considerato di norma come obbligatorio, salvi i casi in cui non sia previsto altrimenti. Di fatto tale norma contribuisce – in antitesi alle finalità della legge delega - a non ridurre i costi delle procedure.

Le modifiche riguardanti la giurisdizione italiana e internazionale

Appare invece razionale la scelta di ridurre all'essenziale l'articolato in materia di giurisdizione italiana e internazionale, eliminando le varie norme prima inserite, che però si limitavano a ripetere quasi alla lettera disposizioni contenute in fonti comunitarie (specie nel Regolamento UE 2015/848 del Parlamento e del Consiglio del 20 maggio 2015 sulle procedure transfrontaliere) (cfr. i vecchi artt. 14-bis e ss. e gli artt. 29-30).

Le modifiche riguardanti le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi

In quest'ambito si segnalano alcuni ritocchi che, per un verso, hanno natura meramente specificativa, altri, invece, che hanno un rilievo ben maggiore, segnando un accentuato cambiamento di direzione nella stessa filosofia dell'intervento normativo.

Quanto ai primi, si possono citare le modifiche contenute:

  • nell'attuale art. 13, ove ora sono indicati in via esemplificativa come indicatori significativi di crisi il rapporto tra flusso di cassa e attivo, tra patrimonio netto e passivo, tra oneri finanziari e ricavi; è previsto inoltre che il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti elabori indici di crisi specifici anche per le start-up innovative, le PMI innovative, le società in liquidazione e le imprese con meno di due anni di vita; con avvedutezza – nella consapevolezza che gli indici sono comunque un parametro astratto che potrebbe non aderire in alcuni casi alle concrete realtà aziendali - si attribuisce altresì all'impresa, la quale non ritenga adeguati, in considerazione delle proprie peculiari caratteristiche, gli indici elaborati a livello nazionale ed approvati dal ministero dello Sviluppo economico, la facoltà di indicare nella nota integrativa al bilancio un diverso sistema di indici, applicabili a condizione che la sua adeguatezza sia attestata da un professionista indipendente; puntualizza la Relazione a questo riguardo che si è perseguito lo “scopo di tener conto delle specificità delle singole imprese, che potrebbe rendere gli indici elaborati concretamente inidonei a evidenziare la possibile situazione di crisi”;
  • nell'attuale art. 17, ove, forse anche a causa della mancata attuazione della delega nella parte in cui programmava la nascita di tribunali concorsuali di competenza intermedia, si individua ora nel presidente della sezione specializzata in materia di impresa del tribunale individuato a norma dell'articolo 4 del decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, anziché – come previsto prima - nel presidente del Tribunale concorsuale, l'organo abilitato a designare uno dei componenti del collegio dell'OCRI abilitato a gestire la procedura di allerta e composizione assistita della crisi; a questa norma fa da pendant l'attuale art. 20 nel punto in cui alla medesima sezione specializzata – e non più al Tribunale concorsuale – il debitore deve rivolgere istanza di concessione delle misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso; risulta peraltro completamente espunta la parte deputata nel secondo decreto licenziato dalla Commissione (capo II, sezione I; artt. 11-16) a disciplinare le Sezioni specializzate nelle procedure concorsuali;
  • nell'attuale art. 19, ove si fa dipendere non solo dall'istanza del debitore, ma anche dal consenso dei creditori, l'iscrizione nel registro delle imprese dell'eventuale accordo raggiunto dal debitore con i creditori nel corso della procedura di composizione assistita della crisi;
  • sempre all'attuale art. 20, ove si prevede ora che il provvedimento del giudice che dispone il differimento degli obblighi previsti dagli articoli 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma e 2482-ter del codice civile, e la non operatività della causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, n. 4), e 2545-duodecies del codice civile, possa essere pubblicato nel registro delle imprese su istanza del debitore.

Quanto alle modifiche di rilievo maggiore, v'è da evidenziare tra esse la significativa riduzione dei casi in cui, per prevenire o comunque affrontare tempestivamente le situazioni di crisi, scatterà l'obbligo di segnalazione da parte dei creditori pubblici (art. 15).

E non mi riferisco tanto all'obbligo di allerta posto in capo all'Agenzia delle Entrate, che è stato ricalibrato quanto alla soglia di rilevanza in relazione alle dimensioni dell'impresa come evincibili dal suo volume d'affari, quanto soprattutto all'obbligo di segnalazione previsto per l'agente della riscossione e per l'INPS.

Il primo sarebbe scattato, secondo il testo Rordorf , quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione a carico del debitore avesse superato l'ammontare del cinque per cento del volume di affari risultante dall'ultima dichiarazione fiscale del contribuente, purché superiore alla soglia di euro trentamila, o comunque avesse superato l'importo di euro cinquecentomila; ora, invece, scatterà solo quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione, autodichiarati o definitivamente accertati e scaduti da oltre novanta giorni, supererà, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000. In sostanza tale obbligo avrà applicazione limitatissima. Nella relazione si spiega la scelta osservandosi che “importi più elevati, come dimostrato dalle elaborazioni effettuate da Agenzia delle entrate–Riscossione con riferimento a quanti, alla fine del 2017, presentavano – rispetto al 2016 - un'esposizione debitoria superiore, porterebbe la platea dei possibili soggetti interessati alla segnalazione ad un numero superiore ai ventimila, contro un totale di circa 2.000 stimabili sulla base delle soglie recepite dalla norma”. Sennonché questa spiegazione appare consentanea solo alle esigenze organizzative dell'Agenzia di riscossione e non a quelle – di diffusa prevenzione dell'insolvenza - che la legge delega imporrebbe di attuare.

Quanto all'INPS, prima si prevedeva l'obbligo di segnalazione quando il debitore fosse stato in ritardo di oltre sei mesi nel versamento di contributi previdenziali di ammontare superiore alla metà di quelli dovuti nell'anno precedente, e comunque superiore alla soglia di euro diecimila; ora tale soglia si eleva alla misura di euro 50.000. Anche con riferimento a quest'ultimo incremento la Relazione offre una giustificazione non condivisibile: in sostanza, l'“importo [sarebbe stato] ritenuto congruo dagli stessi esponenti dell'istituto consultati nel corso delle audizioni, i quali hanno evidenziato come una soglia più bassa porterebbe il numero dei soggetti da sottoporre alle procedure d'allerta a quasi 200.000 all'anno (contro i 12.000 circa potenzialmente interessati adottando la soglia dei 50.000 euro), numero difficilmente gestibile, soprattutto in fase di prima applicazione della norma”.

Come è stato già notato (R. Fontana, La riforma della crisi d'impresa scommette sul controllo interno, in Il Sole 24 Ore, 10.10.2018) “la scelta compiuta è quella di non valorizzare, se non in misura estremamente ridotta, la valenza sintomatica dell'insolvenza dei debiti erariali anche di notevole entità e di incentrare il sistema essenzialmente sulle misure d'allerta interne all'impresa ovvero sulla segnalazione della situazione di crisi da parte dei sindaci”.

Ne è conferma anche il fatto che, nello stesso contesto, sia stata ora ulteriormente ridotta l'area in cui è obbligatoria la segnalazione da parte dei debitori qualificati in rapporto alla entità dei crediti di imposta o di altri crediti verso pubbliche amministrazioni vantati dal debitore: se prima, infatti, l'obbligo di segnalazione sarebbe cessato qualora il debitore avesse documentato di essere titolare di tali crediti (per i quali fossero decorsi novanta giorni dalla messa in mora), per un ammontare complessivo che, portato in compensazione con i debiti, avesse determinato il mancato superamento delle soglie di cui al comma 2, lettere a), b) e c) dell'art. 18 (ora art. 15), il testo finale, per contro, àncora il venir meno dell'obbligo di segnalazione ad un ammontare complessivo dei crediti (senza alcun riferimento alla messa in mora, ma con esclusivo riferimento alla certificazione creditoria che sarà rilasciata dalla piattaforma per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni predisposta dal Ministero dell'economia e delle finanze ai sensi dell'articolo 4 del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 25 giugno 2012 e dell'articolo 3 del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 22 maggio 2012) non inferiore alla metà del debito verso il creditore pubblico qualificato.

Il parametro previsto prima [titolarità da parte del debitore di crediti per i quali fossero decorsi novanta giorni dalla messa in mora, per un ammontare complessivo che, portato in compensazione con i debiti, avesse determinato il mancato superamento delle soglie di cui al comma 2 lettere a), b) e c)] continuerà invece a valere come fattore idoneo a determinare l'archiviazione del procedimento di allerta presso l'OCRI (art. 18, comma 3).

Modifica di rilievo strategico è anche quella ora contenuta nell'art. 21, nella parte in cui non ripropone più, e quindi elimina, la precedente previsione che consentiva al debitore di farsi assistere dal collegio dell'OCRI nella presentazione della domanda per l'accesso alle procedure di composizione della crisi.

È ragionevole credere che ciò sia dovuto all'intenzione di conferire maggior terzietà alla figura di tale organo, ma con una probabile lievitazione contestuale dei costi di assistenza procedimentale a carico dei debitori.

Le modifiche riguardanti la competenza

Già ho avuto modo di rilevare che, a differenza del testo licenziato dalla Commissione, quello finale redatto dall'Ufficio legislativo non dà più attuazione alla legge delega per la parte in cui questa esigeva la creazione di tribunali concorsuali di competenza intermedia [art.2, comma 1, lettera n), n. 3)].

Pertanto l'attuale art. 27 conferma, al primo comma, l'attribuzione - al tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di imprese - della competenza sui procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza e delle controversie che ne derivano relativi alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione (avuto riguardo al luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali), e, al secondo comma, attribuisce invece la competenza per i procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza diversi da quelli di cui al comma 1 all'ordinario tribunale concorsuale (nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali).

In materia di competenza ha rilievo anche la modifica apportata all'attuale art. 28, che porta da sei mesi ad un anno (antecedente al deposito della domanda di regolazione concordata della crisi o della insolvenza o di apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio della procedura di composizione assistita della crisi, se anteriore) il periodo di tempo in cui non ha rilievo ai fini del radicamento della competenza il trasferimento del centro degli interessi principali.

Le modifiche riguardanti l'iniziativa per l'accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza

Merita apprezzamento la decisione di semplificare finalmente, senza più alcun ultroneo e stucchevole distinguo, i poteri di iniziativa del pubblico ministero, che ora l'art. 38 generalizza [peraltro in coerente attuazione di uno specifico principio di delega: cfr. l'art. 2, comma 1, lettera d)], statuendo che il pubblico ministero presenta il ricorso per l'apertura della liquidazione giudiziale in ogni caso in cui ha notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza.

Direi ormai su tale aspetto: finalmente!

Era infatti diventata insopportabile la diatriba su quale “notizia decoctionis” meritasse di essere veicolata dal PM in relazione al procedimento in cui fosse emersa, una volta riconosciuta, da un lato, la rilevanza pubblicistica dell'insolvenza d'impresa, e, dall'altra, la sostituzione del PM al Tribunale fallimentare nel rilievo officioso di tale situazione critica.

Le modifiche riguardanti gli obblighi del debitore che chiede l'accesso a una procedura regolatrice della crisi o dell'insolvenza

1. Non considero invece ragionevole la modifica di cui all'attuale art. 39, il quale esige che il debitore, nel presentare una domanda per l'accesso a una procedura regolatrice della crisi o dell'insolvenza, depositi una relazione riepilogativa degli atti di straordinaria amministrazione compiuti - addirittura - nel quinquennio anteriore (e non più nel biennio, come previsto dal testo precedente).

Secondo la Relazione: “Concreta traduzione del dovere di lealtà attiva enunciato all'articolo 4 è la previsione che il debitore deve dare conto degli atti di rilevante disposizione, cioè di straordinaria amministrazione compiuti nei cinque anni antecedenti, termine corrispondente a quello di prescrizione dell'azione revocatoria ordinaria, così da acquisire ogni elemento idoneo a permettere le valutazioni di convenienza sulle sue proposte”.

Che però si tratti di un eccesso di burocratismo è di tutta evidenza (basti pensare anche solo al fatto che tale incombente graverebbe anche su chi intenda chiedere il proprio fallimento…ops!... la liquidazione giudiziale dei suoi beni, quasi che, ove non lo facesse, violando in tal modo il precetto, potesse restare immune dall'essere sottoposto a tale procedura, unica ”sanzione” che potrebbe al riguardo ipotizzarsi, ma che, mentre potrebbe avere un senso ove si intendesse accedere ad un concordato o ad un accordo di ristrutturazione, non potrebbe averne alcuno nel caso appena considerato della liquidazione giudiziale).

È presumibile però, e mi sia consentito segnalarlo a parziale discolpa dell'ignoto personaggio che ha proposto e redatto l'iper-burocratica modifica, che deve trattarsi di persona quanto meno molto ottimista, poichè assai confidante in un'eccellente memoria altrui. Non si spiegherebbe altrimenti l'aver considerato normale ricordare tutti gli atti di straordinaria amministrazione compiuti fino a cinque anni prima, che, se magari saranno numericamente pochi quando l'impresa o l'attività altrimenti esercitata sia di ridotte dimensioni [ma in tal caso la prescrizione appare semmai ancor più iugulatoria; occorre al riguardo considerare che analogo periodo di tempo viene esteso ora dall'art. 67, comma 2, lettera c), dall'art. 75 e dall'art. 283, comma 2, lettera b), finanche al consumatore sovraindebitato che intenda proporre ai creditori – rispettivamente - un piano di ristrutturazione dei debiti o un concordato minore o una domanda di esdebitazione], potrebbero essere numerosissimi nei casi relativi ad imprese di dimensioni maggiori.

Né può bastare il rilievo che tale periodo di tempo coincide in astratto con il periodo di prescrizione delle revocatorie ex art. 170, o con il periodo sospetto della revocatoria aggravata di gruppo ex art. 290 o con il periodo di tempo relativamente al quale l'art. 130 prevede che il curatore possa chiedere al giudice delegato di essere autorizzato ad accedere a banche dati, ulteriori rispetto a quelle di cui all'articolo 49. La astratta correlabilità della prescrizione di cui si discute con tali ipotesi recuperatorie non sembra infatti comunque idonea a giustificarla sul piano del buon senso e dell'equità. Tanto più che, dovendo applicarsi ad ogni domanda, e quindi ad es. anche ad una domanda di concordato preventivo, si corre il rischio di far passare per fraudolento (e in ipotesi tale da giustificare una non ammissione al concordato o una revoca dello stesso) il silenzio su un atto di straordinaria amministrazione compiuto nel quinquennio, anche se causato da mera e scusabile dimenticanza.

2. Merita di essere segnalata anche una vasta congerie di modifiche che hanno in via generale ampliato numerosi termini processuali.

Così, per il procedimento di apertura della liquidazione giudiziale, l'art. 41 amplia i termini (da 30 a 45 gg.) per lo svolgimento dell'udienza, per la notifica del ricorso (da 10 a 15 gg.) e per depositare memorie e documenti (da 3 a 7 gg.); l'art. 44 amplia (da 30 a 60 gg.) l'eventuale proroga del termine chiesto dal debitore che abbia depositato domanda prenotativa per la successiva presentazione di una proposta definitiva di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione; l'art. 49 estende il termine (da 2 a 3 gg.) dato al debitore, con la sentenza che apre la liquidazione giudiziale, per il deposito dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, nonché i termini, decorrenti dal deposito della sentenza (da 90 a 120 gg e da 120 a 150 gg.), entro cui può cadere l'udienza per l'esame dello stato passivo; l'art. 50 amplia il termine (da 15 a 30 gg.) per proporre reclamo avverso il decreto che respinge la domanda di apertura della liquidazione giudiziale; l'art. 51 dilatail termine (da 45 a 60 gg.) decorrente dal deposito del ricorso per reclamo nei giudizi di impugnazione avverso i provvedimenti di apertura delle procedure in cui il Presidente fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti, nonché il termine (da 20 a 30 gg.) che deve intercorrere tra la data della notificazione e quella dell'udienza e infine quello, prima della udienza (da 7 a 10 gg.), entro cui le parti resistenti devono costituirsi; l'art. 208 aumenta (da 30 a 60 gg.), ai fini della proposizione di domande supertardive di insinuazione, il termine decorrente dal momento in cui è cessata la causa che ne ha impedito il deposito tempestivo della domanda tardiva.

Quanto al concordato preventivo, l'art. 105 amplia i termini (da 15 a 20 gg. prima della data stabilita per il voto dei creditori) per la possibile modifica delle proposte di concordato, e (da 10 a 15 gg. prima della data stabilita per il voto) il termine per la comunicazione di una relazione integrativa redatta qualora emergano informazioni che i creditori devono conoscere ai fini dell'espressione del voto; l'art. 107, a sua volta,quello (da 10 a 15 gg. prima della data stabilita per il voto) per la comunicazione ai creditori da parte del commissario giudiziale della sua relazione.

Le modifiche riguardanti il procedimento per l'apertura della liquidazione giudiziale

Con l'art. 49, terzo comma, lett. b), si introduce adesso la possibilità per il Tribunale, quando pronuncia sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, ove ne ravvisi l'utilità, di nominare uno o più esperti per l'esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore. Con il terzo comma, lett. f), si amplia e specifica inoltre il potere di accesso alle banche dati telematiche (anagrafe tributaria, archivio dei rapporti finanziari; banca dati degli atti assoggettati a imposta di registro) e il potere di acquisire documenti sensibili (elenco dei clienti ed elenco dei fornitori; documentazione contabile in possesso delle banche e degli altri intermediari finanziari relativa ai rapporti con l'impresa debitrice, anche se estinti; schede contabili dei fornitori e dei clienti relative ai rapporti con l'impresa debitrice).

Quanto alla nomina degli esperti, secondo la Relazione: “Un aspetto di indubbia novità è rappresentato dalla possibilità di nominare, insieme al curatore, se il tribunale lo ritenga utile, uno o più esperti per l'esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore. Si tratta di un accorgimento che dovrebbe garantire maggiore efficienza e celerità alla procedura, ad esempio consentendo di affiancare al curatore un professionista che si occupi della liquidazione di determinati beni fin dalla fase iniziale della procedura o dell'esercizio provvisorio dell'impresa, consentendo al curatore di concentrarsi sull'attività di analisi dei crediti in vista della redazione del progetto di stato passivo, ove particolarmente complesso”.

L'art. 131 completa la disciplina sul punto stabilendo che anche per tali esperti il compenso è stabilito secondo criteri di proporzionalità ed è liquidato, in ogni caso, al termine della procedura, salvi eventuali acconti. Il compenso complessivamente liquidato deve quindi essere ripartito tra il curatore e gli esperti di cui si è avvalso, in proporzione all'attività svolta da ognuno.

Un'ulteriore utile modifica integrativa si rinviene nell' art. 51, in cui è stato inserito un ultimo comma prevedendosi – come si esprime la Relazione – che “la corte di appello, per agevolare al curatore l'individuazione del soggetto tenuto a corrispondergli il compenso in caso di revoca della liquidazione giudiziale ai sensi dell'art. 147 del Testo unico delle spese di giustizia, dichiara se l'apertura della procedura sia imputabile a colpa del creditore o del debitore. Solo nel caso contrario, le spese ed il compenso, come liquidato dal tribunale, saranno a carico dell'Erario”.

In effetti la disposizione elimina un dubbio sistemico prima ricorrente.

Le modifiche riguardanti il concordato preventivo

Molteplici, e spesso rilevanti, sono le modifiche apportate in materia di concordato preventivo.

Nell'integrare la precedente disciplina del concordato preventivo, l'Ufficio legislativo ha avuto cura anzitutto di precisare ulteriormente che le finalità del risanamento dell'impresa in crisi o il mantenimento dei posti di lavoro sono in realtà accessorie a quella principale, che era e resta il soddisfacimento dei creditori, realizzabile mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio.

Tuttavia, fermo il principio generale, è palese il maggior rilievo che viene dato ora alla tutela dei posti di lavoro.

Ciò si desume in particolare da due disposizioni innovative.

La prima è contenuta nell'art. 84, secondo comma, a tenore del quale il concordato con continuità aziendale indiretta è ora ammissibile solo se garantisca il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno il trenta per cento di quelli in forza al momento del deposito del piano, per i successivi due anni.

Secondo la Relazione: “In tal modo, si è voluto assicurare l'effettività della dimensione oggettiva della continuità, che costituisce il valore aggiunto in ragione del quale il concordato in continuità è privilegiato rispetto alle proposte meramente liquidatorie”.

L'inserimento della nuova disposizione è condivisibile, poiché pone un limite al potere dispositivo di chi, subentrando nell'azienda al posto dell'originario debitore, potrebbe altrimenti non attuare la programmata continuità, chiudendo l'azienda magari per liquidarla a fini speculativi, ma distruggendo in tal modo la ricchezza costituita sia dai valori e dalla stessa esistenza dell'impresa, che, più in particolare, dalla forza lavoro occupata.

Ponendo il paletto costituito dall'obbligo di mantenere per almeno due anni almeno il 30% della forza lavoro, certo non si realizza al 100% la teoricamente ottimale funzione di continuità (e d'altra parte ben possono esservi ragioni giustificative che in concreto non consentano tale optimum), ma almeno si pongono le basi per evitare che questa tipologia di concordato (in continuità indiretta) sia strumentalizzata per scopi meramente liquidativo/speculativi.

La seconda disposizione è contenuta nel successivo terzo comma, e stabilisce che nel concordato con continuità aziendale – anche laddove sia prevista la collaterale liquidazione di beni non funzionali - i creditori devono essere comunque soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino; soggiunge la norma che la prevalenza si considera sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà dei lavoratori in forza al momento del deposito del ricorso.

La norma in tal caso tutela il requisito/funzione della continuità esigendo che sia proprio la continuità ad essere il fattore economicamente decisivo per il successo del piano concordatario, sì che l'attestazione di fattibilità, sotto il profilo che concerne la programmata prosecuzione dell'impresa, non dev'essere meramente declamatoria, ma più che mai realistica. Deve esserlo fino al punto da consentire - proprio la prosecuzione dell'impresa - il soddisfacimento dei creditori con i ricavi dell'attività, o quanto meno in misura prevalente attraverso di essi.

Il parametro della prevalenza viene a sua volta precisato in modo tipico correlandolo all'apporto della forza lavoro: quanto meno per i primi due anni, i ricavi devono essere generati con l'apporto di almeno metà (si potrebbe dire: il 50% +1, così meglio emergendo la nozione di prevalenza in parte de qua”) della forza lavoro originaria. E ciò, come afferma la Relazione, manifesta come l'intento perseguito dal legislatore delegato sia “indubbiamente quello di incentivare la conservazione del valore dell'azienda, favorendo la prosecuzione dell'attività d'impresa e la salvaguardia dei livelli occupazionali”.

Tale parametro ha chiaramente natura presuntiva, ma in modo, come appena rilevato, tipizzante, ed è quindi inderogabile, nel senso che non è dato dimostrare il contrario (che cioè possa esservi prevalenza anche in difetto di una percentuale di lavoratori occupati nel biennio inferiore al 50%).

La norma peraltro ha cura di precisare che la prevalenza, in tal modo intesa e parametrata, deve sussistere sia nel caso di continuità aziendale diretta che indiretta.

Non mi sembra perciò condivisibile l'opinione secondo cui la norma sarebbe “applicabile alla sola continuità diretta, dato che in quella indiretta il principio di prevalenza quantitativa riferito alla soddisfazione dei creditori andrà applicato facendo riferimento al ricavato della cessione o del conferimento dell'azienda rispetto alla liquidazione degli altri beni” (cfr. G.B. Nardecchia, Torna il professionista attestatore per il concordato, in Il Sole 24 Ore, 10.10.2018).

La norma sembra affermare infatti esattamente il contrario, laddove, lungi dal porre una qualsiasi differenza di disciplina per le due tipologie di concordato in continuità, espressamente riferisce indifferentemente ad entrambe il medesimo requisito di prevalenza nei termini sopra riferiti (“Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino. La prevalenza si considera sussistente…”).

E anche la Relazione, su questo aspetto, è alquanto chiara, facendo riferimento sintomatico proprio al concordato liquidatorio: “Si vuole tuttavia evitare che una prosecuzione solo apparente dell'attività imprenditoriale, ad esempio limitata ad un ramo insignificante dell'azienda, consenta l'aggiramento della previsione secondo la quale il concordato liquidatorio è ammissibile solo ove si avvalga di risorse poste a disposizione da terzi che accrescano sensibilmente le prospettive di realizzo per i creditori. In tale prospettiva, i benefici della continuità spettano soltanto se essa sia reale e dunque se consenta un significativo incremento delle risorse destinate ai creditori. Per tale motivo, la disposizione pone una presunzione di prevalenza, che si considererà in ogni caso sussistente quando, secondo le previsioni del piano, i flussi di cassa attesi dalla continuità per almeno due anni siano generati da un'attività imprenditoriale alla quale siano addetti almeno la metà dei lavoratori in forza al momento del deposito del ricorso”.

Semmai va chiarito, per evitare equivoci, che sia in caso di continuità aziendale diretta che indiretta può esservi o meno la liquidazione collaterale di beni non essenziali/funzionali (così la relazione si esprime al riguardo, esaminando “l'ipotesi in cui il piano preveda, oltre che la continuazione dell'azienda o di suoi rami, la dismissione di beni non funzionali alla prosecuzione dell'attività. Si tratta di dismissione che non incide sulla natura del concordato proprio in quanto i beni oggetto di cessione sono quelli non necessari alla continuazione dell'attività ed in quanto i creditori vengono comunque soddisfatti in misura prevalente con il ricavato della prosecuzione dell'attività di impresa”).

Quando tale liquidazione non sia prevista, non si porrà evidentemente la necessità di applicare il parametro della prevalenza, che ha ragione di porsi, per l'appunto, solo in caso di contestuale liquidazione di una parte dei beni, con il cui ricavato possono essere in parte soddisfatte le pretese creditorie.

Solo in questa ipotesi, perciò, troverà applicazione il parametro della prevalenza, e in tal caso non basterà per l'ammissibilità del concordato con continuità aziendale indiretta il mantenimento di una forza lavoro pari al 30%, ma sarà giocoforza necessario che vi sia almeno la conservazione del 50% di essa, poiché altrimenti mancherebbe il concorrente requisito della prevalenza, di cui si potrà fare a meno, ripeto, solo qualora non sia prevista la dismissione liquidativa di una parte dei beni aziendali (ovvio che la questione non si pone per gli altri beni del debitore estranei all'azienda ceduta o affittata o conferita).

Una non secondaria modifica si rinviene inoltre nell'art. 86, a proposito della “Moratoria nel concordato in continuità”. Diversamente dal testo precedente, si prevede ora che quando il piano prevede la moratoria fino a due anni dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, i creditori hanno diritto al voto non più per l'intero credito, ma per la “differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un tasso di sconto pari alla metà del tasso previsto dall'art. 5 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, in vigore nel semestre in cui viene presentata la domanda di concordato preventivo”.

Precisa la Relazione su tale aspetto che: “Attualizzando i pagamenti, rispetto alla cronologia prevista dal piano, si riesce (…) a quantificare ciò che il creditore privilegiato perde in termini di chance di investimento. Il diritto di voto verrà quindi ad essere esercitato in misura corrispondente alla perdita. Il tasso di interessi previsto dal d.lgs. n. 231/2002, ridotto della metà, risponde ad un'esigenza di uniformità e semplificazione e rappresenta un tasso medio applicabile a tutte le categorie di creditori. Tale soluzione è parsa preferibile rispetto alla possibilità di attribuire il diritto di voto per l'intero ammontare del credito, che attribuirebbe un peso eccessivo e quindi creerebbe un rischio eccessivo di inquinamento delle maggioranze, a creditori comunque destinati ad essere soddisfatti per intero, oltre che coerente con i principi enunciati dalla Corte di Cassazione, che ha ritenuto determinante ai fini del computo del voto la perdita economica conseguente al ritardo nel conseguimento della disponibilità delle somme spettanti ai creditori (così Cass. n. 10112/2014)”.

La modifica appare in effetti ragionevole, anche se personalmente ho già avuto modo di criticare lo stesso presupposto da cui muove la nuova previsione normativa, ossia la possibilità di ritardare ultra modum il pagamento dei creditori privilegiati senza nemmeno escludervi i lavoratori per salari e istituti connessi. Ma, una volta data per acquisita la regola innovativa che consente la moratoria, non è irragionevole limitare il diritto di vota in proporzione alla quota effettiva di perdita economica causata dal ritardato pagamento.

Una rilevantissima modifica si rinviene poi nell'art. 87, secondo comma, il quale sancisce il ritorno all'obbligatorietà dell'attestazione di fattibilità e di veridicità dei dati aziendali.

Il testo precedente, infatti, nell'adottare l'espressione verbale (il debitore) “può” (“presentare, insieme alla domanda, la relazione di un professionista indipendente”) rendeva facoltativa la presentazione di tale attestazione, e perciò stesso, facoltativa, ancor prima, l'elaborazione stessa dell'attestazione.

Ora, dunque, la relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano dovrà sempre essere depositata.

La Relazione motiva sul punto affermando che: “La norma, ponendosi in linea di continuità con la disciplina previgente, attribuisce ad un professionista indipendente il compito di redigere una relazione che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. L'esperienza maturata dai professionisti specializzati in materia concorsuale ha reso la relazione dell'attestatore uno strumento d'ausilio importante per il tribunale che, in una procedura doverosamente connotata da esigenze di celerità, può fruire immediatamente di un'analisi particolarmente attendibile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, utile per la verifica di fattibilità giuridica ed ora anche economica, prodromica all'apertura del concordato. In questa prospettiva, nell'esercitare la delega, si è scelto di mantenere l'obbligatorietà dell'attestazione e di prevedere che essa debba essere aggiornata nell'ipotesi di modifiche sostanziali della proposta o del piano”.

Ma la scelta non convince.

In tal modo, infatti, non solo si esige un'attestazione, con il relativo costo (di norma tutt'altro che modico) anche per procedure di assai modesto rilievo economico, ma si contraddice più in generale la ratio sottesa alla disciplina articolata dalla Commissione, che si basava sulla possibilità per il Tribunale di effettuare d'ufficio e autonomamente il sindacato sulla fattibilità, al più avvalendosi dell'ausilio del commissario giudiziale, comunque con un possibile e notevole risparmio sui costi del procedimento.

Anche nell'art. 91 in tema di offerte concorrenti è stata inserita una – questa volta opportuna - precisazione.

Infatti, come si esprime al riguardo la Relazione, “Poiché spesso l'offerta di acquisto di beni, dell'azienda o di suoi rami è contenuta in un contratto preliminare, la disciplina è stata estesa, in modo innovativo rispetto al regime previgente, anche ai contratti che comportino il trasferimento non immediato dell'azienda, di suoi rami o di specifici beni. In tal caso, però, i beni sono solo quelli facenti parte del perimetro aziendale, essendosi voluto evitare il rischio che debbano essere rimessi in discussione anche contratti preliminari aventi ad oggetto i beni prodotti dall'impresa che il debitore potrebbe aver stipulato anche molto tempo prima del manifestarsi della situazione di crisi; si pensi, in particolare, a contratti preliminari aventi ad oggetto beni immobili costruiti da società operanti nel settore immobiliare”.

Il quarto comma contiene perciò nella parte finale la puntualizzazione secondo cui tra i dati che il Commissario deve comunicare agli interessati vi è anche “la data dell'udienza per l'esame delle offerte se la vendita avviene davanti al giudice”.

Dunque la nuova disposizione “chiarisce, rispetto al passato, che la vendita può, ma non deve obbligatoriamente avvenire dinanzi al giudice delegato, che, verosimilmente, valuterà discrezionalmente di intervenire solo quando la gara abbia ad oggetto beni di valore particolarmente elevato o quando la sua presenza sia resa opportuna da specifiche circostanze del caso concreto”.

L'art. 94, in relazione alla possibilità di procedere anche prima dell'omologa all'alienazione e all'affitto di azienda, di rami di azienda e di specifici beni autorizzati ai sensi del comma 2, elimina il limite, prima previsto, secondo cui l'autorizzazione non avrebbe potuto essere concessa quando fosse stato possibile procedervi dopo l'omologazione senza pregiudizio per il miglior soddisfacimento dei creditori.

L'art. 95, con riguardo al concordato con continuità aziendale, e in ispecie alla prevista possibilità di partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici, elimina due disposizioni prima inserite, quella secondo cui ai fini del rilascio dell'autorizzazione da parte del Tribunale o del giudice delegato occorreva anche la presentazione, ove richiesto dall'ANAC nei casi previsti dalla legge, di una dichiarazione di un operatore ausiliante ai sensi dell'articolo 110, comma 5 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e quella secondo cui in ogni caso le violazioni in materia contributiva e previdenziali di cui all'art. 80, comma 4, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, non sarebbero state ostative al rilascio del DURC.

Non mi pare che tali disposizioni – ma potrei sbagliare – siano state inserite in altro luogo, e se così è, non trovo che la loro espunzione sia meritevole di condivisione, poiché esse avevano un'indubbia efficacia chiarificatrice, tale da semplificare le problematiche di prassi.

L'art. 97, comma 12, è stato integrato laddove disciplina gli obblighi restitutori in caso di scioglimento del contratto di leasing.

Precisa la Relazione al riguardo che: “Rispetto alla formulazione previgente, si precisa che il credito del concedente è pari, a tal fine, all'ammontare dai canoni scaduti e non pagati fino alla data dello scioglimento, dei canoni a scadere in linea capitale e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto”.

Così intesa, la nuova formulazione meriterebbe piena condivisione, ma nel testo della norma a mia disposizione essa appare in realtà – ad onta di quanto specifica la relazione - involuta ed ambigua, e andrebbe meglio riscritta.

È stato altresì integrato l'ultimo comma di tale norma, statuendosi – in linea con il testo della previgente legge fallimentare, che la disciplina dell'art. 97 non si applica, oltre che ai contratti di lavoro, anche al preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, ai contratti di finanziamento destinato ad uno specifico affare e ai contratti di locazione di immobili.

L'art. 99, in relazione ai finanziamenti prededucibili autorizzati prima dell'omologazione del concordato preventivo o degli accordi di ristrutturazione dei debiti, aggiunge al terzo comma la previsione secondo cui la relazione attestativa circa la sussistenza dei requisiti di cui al comma 1, e circa il fatto che i finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori, non è necessaria quando il tribunale ravvisi l'urgenza di provvedere per evitare un danno grave ed irreparabile all'attività aziendale (“requisiti dai quali si ricava – afferma la Relazione - che il relativo potere deve essere esercitato con estrema cautela, per i possibili effetti pregiudizievoli della massa”).

L'art. 100, con riferimento all'autorizzazione al pagamento di crediti pregressi, stabilisce ora che il tribunale può autorizzare anche il pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all'attività di cui è prevista la continuazione.

Sul punto la Relazione si esprime precisando che: “La norma innovativamente prevede, al fine di ovviare ad una lacuna molto contestata, che il tribunale possa autorizzare, alle medesime condizioni, anche il pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all'attività di cui è prevista la continuazione. E' parso infatti irragionevole imporre ai lavoratori un sacrificio maggiore di quello chiesto ai fornitori di beni e servizi, tanto più che, essendo essi titolari di crediti assistiti da privilegio di rango elevato, il pagamento rappresenta semplicemente un'anticipazione di quanto sarebbe in ogni caso (o con elevato grado di probabilità) loro corrisposto. La differenza tra il trattamento previsto per i fornitori, nei cui confronti potrebbe essere in tesi autorizzato il pagamento dell'intero credito anteriore e i lavoratori, per i quali è previsto, in questa fase, un limite di ordine quantitativo, si spiega proprio in ragione dell'elevato grado di privilegio spettante ai crediti retributivi, destinati comunque ad essere soddisfatti”.

La specificazione, come tale, ha una sua utilità, anche se forse la preoccupazione in tale ambito era eccessiva, essendo davvero troppo formalistica quell'interpretazione – rimasta fortunatamente isolata – che considerava esclusi dalla possibilità di pagamento immediato i crediti anteriori dei lavori pur nel caso di prosecuzione del contratto di lavoro nel contesto di un concordato con continuità aziendale.

Deve semmai ritenersi che, alla fine dei conti, la norma sia non tanto una disposizione di tutela per i lavoratori, quanto una norma penalizzante, poiché limita ora ad una sola mensilità il credito che è possibile soddisfare, quando la tutela della prededuzione finisce per consentire un pagamento integrale ed immediato – senza alcun limite quantitativo predeterminato - anche di crediti (come quelli dei fornitori) che di solito sono meramente chirografari.

“Altra disposizione innovativa ed eccezionale – soggiunge la Relazione - , poiché deroga alla regola della cristallizzazione del patrimonio, è quella che consente al debitore, quando è prevista la continuazione dell'attività aziendale, il pagamento delle rate a scadere del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all'esercizio dell'impresa, a condizione che, alla data della presentazione della domanda di concordato, egli abbia adempiuto le proprie obbligazioni o che il tribunale lo autorizzi al pagamento del debito per capitale ed interessi scaduto a tale data”.

Rispetto al testo precedente, si prevede ora in relazione a tale disposizione la “condizione che un professionista indipendente attesti che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato e che il rimborso delle rate a scadere non lede i diritti degli altri creditori”. Si precisa inoltre espressamente che tale previsione si pone in deroga al disposto dell'articolo 154, comma 2, e si applica solo quando è prevista la continuazione dell'attività aziendale.

Questa precisazione mi sembra, in linea di principio, condivisibile e comunque assai rilevante, poiché evita il rischio che la tutela accordata ai mutui sia intesa come il cavallo di troia idoneo a smontare sul piano sistematico la disciplina dei contratti pendenti, che, rivolgendosi solo ai contratti sinallagmatici, per definizione non dovrebbe essere applicata ai contratti unilaterali come il mutuo. L'applicazione anche a tale contratto è, appunto, un'eccezione alla regola e si spiega solo con la finalità di non disperdere un valore economico quale la possibilità di pagare ratealmente un debito, sia pure solo nei casi in cui è certo che il creditore mutuante potrebbe comunque riscuoterlo per intero (e per di più, almeno in teoria, “illico et immediate”).

Un'ulteriore precisazione cautelativa (“Quando è prevista la continuazione dell'attività aziendale”) è stata introdotta nell'art. 101, a proposito della prededuzione prevista per i finanziamenti concessi in esecuzione di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti. Solo la continuità aziendale viene in sostanza considerata ragione idonea a giustificare l'attribuzione della prededucibilità ai crediti di restituzione rivenienti da tali finanziamenti.

Dal precedente testo della norma è stata altresì espunta la previsione secondo cui i predetti finanziamenti non beneficiano della prededuzione se “b) nel corso dell'esecuzione del piano sottostante al concordato preventivo o all'accordo di ristrutturazione dei debiti si siano verificati scostamenti tra i dati di piano e i dati consuntivati tali da rendere, sulla base di una valutazione da riferirsi all'epoca, il predetto piano manifestamente inattuabile”.

Si è evidentemente ritenuto opportuno evitare che siffatta sanzione – peraltro in contraddizione (sia logica, che giuridica) con il valore certificativo delle attestazioni di fattibilità/attuabilità rilasciate “ex ante” - possa costituire un deterrente disincentivante la concessione di finanziamenti, stante il rischio per i finanziatori di perdere il beneficio della prededuzione sulla base di non anteriormente prevedibili valutazioni effettuate “ex post”.

Una specifica innovazione attiene al concordato preventivo con cessione dei beni. L'art. 115, con riferimento a tale tipologia, innovativamente dispone che “il liquidatore giudiziale esercita, o se pendente, prosegue, ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti”.

In tal modo viene chiarita la sussistenza di una legittimazione prima posta in dubbio da alcuni interpreti.

La stessa Relazione ne dà conto: “L'art. 115 risolve esplicitamente la questione dibattuta circa la legittimazione all'esperimento, successivamente all'omologazione, delle azioni restitutorie, recuperatorie e dell'azione sociale di responsabilità attribuendole al liquidatore, sia che queste debbano essere iniziate in corso di procedura sia che siano già pendenti. La disposizione è coerente con l'art. 2740 c.c. e dunque con la regola della garanzia patrimoniale generica: spetta al liquidatore realizzare, nell'interesse dei creditori, tutte le poste attive comprese nel patrimonio del debitore”.

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